Tradizione romana

 

 

https://www.dirittoestoria.it/13/cv/Tafaro-CV-D@S-2015_file/image002.jpgSEBASTIANO TAFARO

Professore onorario dell’Università italiana

Università di Bari

 

Familia: prospettiva storica tra passato

e un po’ di presente*

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Matrimonio di ‘classi’. – 3. Matriarcato? – 4. Nuova configurazione della famiglia. – 5. Familia in Roma. –6. Familia e Cosmo. I sacra. – 7. Natura. – 8. Augescere. – 9. Viripotens. Età del fidanzamento. – 10. Matrimonium. – 11. La dote. – Abstract.

 

 

 

1. – Premessa

 

L’inseguimento pressante ed assiduo di nuove formulazioni della ‘famiglia’ contemporanea rende stimolante la rivisitazione delle nozioni del diritto romano, le quali, attraverso la mediazione del diritto canonico, sono alla base di molte delle legislazioni dell’Europa e dei paesi che hanno subíto l’influenza della tradizione formatasi intorno alle fonti romane[1].

Questo, se non altro, serve a chiarire i concetti giuridici attinenti alla famiglia e a capire quali erano i parametri di ancoraggio delle costruzioni elaborate per la famiglia.

La più articolata conoscenza di essi non preclude soluzioni nuove e diverse (spesso profondamente diverse) come nel caso delle unioni tra persone dello stesso sesso; serve tuttavia a capire se esse possano ancora inserirsi nell’alveo della cultura e della tradizione della civiltà giuridica di matrice europea.

Qui mi soffermo, essenzialmente, su due aspetti: il significato e le finalità della famiglia nell’esperienza del diritto romano e le interazioni tra famiglia e collettività[2].

Sono, invero, convinto che la concezione della famiglia e le costruzioni giuridiche che la caratterizzano (nella nostra civiltà europea) hanno avuto radici profonde nel diritto romano e nell’esperienza giuridica che era alla base di esso. Ciò anche se non sottovaluto (pur non condividendole in gran parte) le ragioni di quanti sostengono che il diritto romano sia del tutto superato e non sia richiamabile al giorno d’oggi, poiché da tempo ci troviamo di fronte alle aspettative della civiltà tecnologica lontana dalla Weltanschauung della società agricolo-pastorale, che era alla base dell’esperienza romana e che permeò profondamente il diritto romano.

Il nodo è intricato e richiederebbe analisi complesse e articolate, la quali hanno già da tempo conosciuto una perspicua e doviziosa dottrina. Perciò non intendo addentrarmi nella complessa problematica e nella numerosa letteratura che l’ha accompagnata, ma vorrei solamente considerare aspetti meno evidenziati, nel loro insieme e nei collegamenti reciproci.

Penso che essi rivelino quali e quanti apporti alcune costruzioni del diritto romano possano contribuire alla elaborazione di concetti e soluzioni per la ‘famiglia di oggi’, conferendole profili di grande respiro ed attualità. La riflessione che mi accingo ad esporre mi pare evidenzi che l’eredità dei principî del diritto romano è attuale ancora ai nostri tempi ed è in grado di mostrare quanto siano lontane dalle radici della nostra civiltà le pretese di potere fondare la famiglia partendo da visioni ed idee individualistiche. Sarà, in realtà, la mia una rivisitazione di punti noti da tempo agli interpreti e che sono stati oggetto di riflessioni e precisazioni già nell’antichità[3].

 

 

2. – Matrimonio di ‘classi’

 

Per lungo tempo il pregiudizio eurocentrico ha impedito di cogliere molti tratti comuni tra le antiche civiltà dell’area mediterranea e le società ‘primitive’[4].

Ove si abbandoni siffatta ottica pregiudiziale e ci avvalga dell’etnografia comparata, si riesce a cogliere aspetti caratterizzanti dell’aggregazione umana molto divergenti dall’oggi. In esse pare certa l’esistenza di forme di parentela senza gradi, che è conseguenza dell’originaria eguaglianza dei fratelli di egual sesso.

Il punto[5] fu evidenziato in modo efficace da Lewis H. Morgan, attraverso le indagini condotte su alcuni gruppi di indiani del Nord America nella seconda metà dell’Ottocento e alle risultanze delle ricerche etno-antropologiche[6]. È noto che Morgan, studiando i costumi matrimoniali degli Irochesi del Nord America, notò una sfasatura tra la terminologia di parentela adoperata e il sistema matrimoniale in atto, in America e (più in generale) nell’area geopolitica dell’Occidente, che era quello della famiglia di coppia.

Presso i ‘nativi’ americani i figli estendevano l’appellativo di padre anche ai fratelli del padre e l’appellativo di madre anche alle sorelle della madre. A loro volta i maschi adulti chiamavano figli non solo i propri figli naturali, ma anche i figli dei fratelli, mentre le donne adulte estendevano l’appellativo di figlio anche ai figli delle sorelle. Gli stessi appellativi non si rivolgevano invece agli zii incrociati (fratello della madre, sorella del padre); né ai figli delle sorelle (per gli uomini) e ai figli dei fratelli (per le donne). Morgan da ciò ipotizzò l’esistenza di una piú antica forma di matrimonio: quella di unioni collettive tra gruppi di fratelli e gruppi di sorelle[7]. All’uopo egli parlò di sistema di parentela ‘classificatorio’, in origine basato sul ‘matriarcato’[8].

Ricerche successive hanno confermato l’esistenza, presso varie popolazioni, di questa forma di matrimonio; peraltro attestata da fonti concernenti popoli dell’antichità, di ambiente indoeuropeo o propriamente italico[9], e che trova riscontro, oltre che in taluni aspetti della religione romana, anche e soprattutto nei nomi latini di parentela. Va sottolineato che si tratta di pratiche risalenti ad alta antichità, di cui ovviamente non si ha piú traccia nella Roma di età storica.

Solo il principio di eguaglianza dei fratelli e la discendenza da forme di matrimonio collettivo possono spiegare la struttura di un gruppo come la gens e la sua parentela senza gradi. È controverso se in realtà sia stata proprio la gens (clan) la prima forma di aggregazione degli uomini. Al riguardo il Franciosi ha sostenuto che la familia, quale l’abbiamo poi conosciuta, nacque e si affermò in una successiva fase nel seno della gens sulla base dell’introduzione del matrimonio monogamico e della privatizzazione della ricchezza collettiva. Di recente ho espresso le mie perplessità sul punto, ipotizzando che un nucleo molto ristretto, che solo per approssimazione possiamo indicare come ‘famiglia’, possa aver preceduto la formazione di strutture piú ampie ed aventi valenze ‘politiche’, come la gens[10].

 

 

3. – Matriarcato?

 

Finché l’uomo visse di pura raccolta (caccia, pesca, raccolta spontanea dei frutti del suolo e del sottosuolo) gli elementi aggreganti o di istituzionalizzazione delle forme di matrimonio furono estremamente labili. Il matrimonio era esogamico, come attesta Cesare per i Britanni, i quali si sposavano in gruppi di dieci o dodici (deni duodenique), per lo più per serie di fratelli (maxime inter se fratres) e serie di sorelle[11].

In questa fase la ricchezza ed il benessere erano creati da entrambi i sessi, come fa notare Tacito parlando dei Finni[12]. Mentre la fertilità necessaria per assicurare piú procacciatori di ricchezza era appannaggio della donna, conferendo proprio al sesso femminile priorità e superiorità. Di ciò si sono trovati precise testimonianze, rivelate dall’archeologia, corroborata dalle poche ma indiziarie fonti relative alla prima antichità. Le quali sembrano convergere su un aspetto: l’esclusione di un’effettiva subordinazione della femmina al maschio; anzi «da tutto un quadro di riferimento, che tiene conto anche degli aspetti della religiosità più antica, emerge una maggiore importanza sociale della donna. Parlo di importanza sociale, non di matriarcato o di ginecocrazia, che rappresentano solo proiezioni istituzionali della società patriarcale in società che non conoscevano forme di potere domestico dispotico»[13].

Al riguardo va dato grande merito al Bachofen, il quale, sia pure forse in modo troppo radicale ed esagerato, sostenne la superiorità e la prevalenza, nelle prime forme di organizzazione societaria, delle donne, ipotizzando l’esistenza di un potere di regolamentazione e comando delle donne, meglio definito dal termine Frauenherrschaft (comando/regola della donna), che egli preferí al consueto Mutterrecht (diritto della madre); il giurista e studioso svizzero sulla base di molte testimonianze delle fonti relative ad alcune popolazioni antiche come, Lici, i Lidi, gli abitanti delle isole Baleari, ipotizzò la preminenza della donna scaturente dal tipo di unioni finalizzate alla procreazione. In origine non vi erano matrimoni individuali, ma matrimoni di carattere collettivo e in relazione ad essi non vi era una supremazia dell’uomo sulla donna nel senso potestativo della famiglia romana, ma una superiorità sociale della donna sull’uomo, poiché le prime scoperte, se vogliamo utilizzare un termine un po’ anticipatorio, tecnologiche, sono opera femminile.

Lo studioso sostenne che si sarebbero avvicendati tre periodi: l'agamia o promiscuità seguito dal matriarcato, ed infine dal patriarcato[14]. A ciò farebbe riscontro il fatto che sarebbero state donne anche le piú antiche divinità[15]. In tutto il pianeta, infatti si riscontra una significativa fioritura di divinità femminili, per lo piú legate alla funzione ‘primaria’ della nascita della vita, della procreazione, fertilità. Si è, a tal proposito, parlato della Grande dea, all’origine del mondo e/o dell’universo: certamente della vita[16]. Del resto la stessa Terra era vista come una divinità femminile, Gaia[17], mentre la frigia Cibele, importata in Roma come Magna Mater[18], era addirittura considerata come la ‘Madre degli dei’[19]. Accanto alla quale va ricordata, come divinità della nascita, il culto della Mater Matuta[20] e della dea Bona[21], Dea della fertilità, anch’essa chiamata ‘grande madre’[22]. Era una Dea italica preromana e non proveniente dalla Grecia, anche se poi vi fu un’assimilazione con la Leucotea ellenica. La Dea risale al matriarcato e se ne hanno tracce visibili fin dal 1500 a.C. Ma della Grande Madre si hanno tracce in ogni parte del mondo, fino a 30.000 anni fa[23].

Anche negli altri continenti si può riscontrare un percorso simile: basti ricordare la dea della creazione Nüwa, in Cina[24]; la dea Devi in India[25], la dea Mut nell’antico Egitto. Se ne può agevolmente dedurre l’esistenza di assetti sociali se non incentrati intorno alla donna almeno tali da dare al sesso femminile rilevanza ed incidenza pari a quello maschile; con la consapevolezza che da esso dipendeva la crescita realizzata principalmente attraverso le gestazioni ed i conseguenti parti.

A ben riflettere, molte ragioni portavano al riconoscimento della superiorità della donna, come gli autori menzionati sottolineano:

 

- la medicina. Mentre l’uomo va a caccia e a pesca, in branco, la donna resta presso la propria abitazione, la caverna, la capanna, a seconda che ci riferiamo al paleolitico o al neolitico. In seguito verrà la domus, in epoca più recente, quando la donna resterà in casa ed oltre ad accudire alle faccende domestiche, alcune delle quali sono molto importanti, con un bastone da scavo, un oggetto ritrovato a livello archeologico, comincerà a studiare le erbe e i tuberi. Anche l’invenzione della cottura dei cibi è un’invenzione femminile, si sviluppa una medicina embrionale, nel senso che studiando le erbe, la donna si accorge di quale erba è tossica e quale non lo è, di quale è commestibile e di quale non lo è. Quale ha certe proprietà farmaceutiche (pharmacos) e quale queste proprietà non le ha. Inoltre anche la tessitura, come la ceramica, sono invenzioni femminili[26].

 

- la riproduzione della specie. Di fronte ad un’umanità primitiva acquista un carattere mistico, sacro, inspiegabile. Anche perché il tempo che passa tra l’accoppiamento e la generazione è abbastanza lungo perché le popolazioni primitive abbiano ricordo di certi fatti.

 

- Poi anche una serie di altre attività. Ad esempio la mantica, cioè l’arte del profetizzare, è propria dell’elemento femminile. Le Sibille, la Pizia e cosí via. Mentre a Roma l’arte del profetizzare è vietata perché si ritiene che la donna con le sue profezie possa mettere in pericolo la struttura rigidamente patriarcale che oramai ha assunto la società romana. In Grecia invece è praticata.

 

- Infine lo stesso ciclo mestruale, che viene visto presso le popolazioni primitive col suo legame con le fasi lunari, come un carattere quasi sovraumano della donna. Questo collegamento con le fasi lunari è importante soprattutto se teniamo presente che presso tutte le cosmogonie primitive, la Luna, attraverso un’anticipazione che oggi gli scienziati tendono a corroborare, è vista come un frammento della Terra-madre. Vi è quindi un legame tra la donna-Luna e le prime divinità femminili.

 

- Vi è addirittura l’invidia del maschio: espresso nel paradossale rito della couvade[27].

 

- Persino Cesare, a chi (per la sua sospetta omosessualità) lo accusa di essere ‘donna’ e, di conseguenza, inidoneo ad imprese degne di nota, replicando in Senato ricordò che Semiramide era stata regina della Siria e le Amazzoni avevano dominato l'Asia, pur essendo donne; citando ciò non come riferimento ad un mito, bensí come fatti accaduti e noti[28].

 

Non meraviglia, pertanto, la circostanza che, riguardo all’antichità remota, molte fonti attestano una discendenza femminile per popolazioni dell’oriente mediterraneo o la fase di passaggio verso la paternità individuale e la supremazia maschile, attraverso meccanismi di attribuzione della prole basati su elementi presuntivi (somiglianza fisica, priorità nel possesso della donna, etc.)[29].

Sul piano stesso delle più antiche attività economiche non è dato intravedere una supremazia maschile: enim comitantur pariterque praedare petunt attestava Tacito; e la stessa iniziale divisione del lavoro (caccia, ricerca col bastone da scavo) unita alle attività artigianali femminili (filatura, tessitura, etc.) non legittimano una superiorità dell’elemento maschile. Si aggiunga l’importanza della maternità e dell’allevamento della prole in una società arcaica e si comprenderà come anche di fronte alla religione le prime sacerdotesse e indovine siano donne. Gli aspetti magico-religiosi sono quelli che legittimano sul piano ideologico la reale importanza sociale della donna.

 

 

4. – Nuova configurazione della famiglia

 

Malgrado ciò sappiamo che le società sfociarono nel patriarcato ed in una progressiva ed assorbente prevalenza dei maschi. Da cosa fu determinato tanto cambiamento radicale forse è agevole ricostruire.

La caccia, pur essendo praticata sia dai maschi sia dalle donne, come attestava Tacito parlando dei Finni, per via delle ricorrenti gestazioni finí per diventare attività prevalentemente maschile. In una fase successiva, il desiderio/bisogno di avere maggiore certezza e stabilità riguardo all’approvvigionamento di derrate necessarie alla sussistenza spinse ad accantonare prodotti alimentari e bestiame, dando vita all’allevamento ed alla produzione, con conseguente appropriazione di un surplus sottratto all’immediato consumo del gruppo.

Subentrò per tal via la logica dell’appropriazione. Essa, però, si contrappose alla tradizionale logica del consumo collettivo (della selvaggina catturata o uccisa o dei frutti della terra colti sul momento), del quale conservava traccia il Gaio delle Res cottidianae[30]. Fu l’allevamento, il quale comportò anche la tendenza all’appropriazione del territorio (come sede di pascolo), a provocare il rovesciamento degli iniziali rapporti tra i sessi. Non per nulla i popoli allevatori presentano di regola strutture familiari patriarcali. In tal modo fu innescato il meccanismo dell’accumulazione, che contrappose il ‘privato’ (nucleo ristretto organizzato intorno ad un solo individuo, che diventerà la ‘famiglia’ quale la conosciamo ancora oggi) al ‘sociale’ (clan, tribù).

È stato il Franciosi ad evidenziare questo passaggio, osservando che «la privatizzazione della produzione nei confronti del gruppo postula la privatizzazione del consumo e degli stessi consumatori della ricchezza prodotta o accumulata, tanto in vita quanto in morte del paterfamilias, vale a dire la privatizzazione della prole, prima allevata collettivamente all’interno del gruppo, come mostrano numerose testimonianze relative al mondo antico. Ma la certezza della paternità si ottiene solo con l’istituzione del matrimonio monogamico e con l’obbligo di fedeltà della donna, la cui violazione è punita con la morte»[31].

In altre parole, se prima per i figli, allevati collettivamente dal clan, non era rilevante conoscere la paternità ora, con il desiderio di trasmettere loro (e soltanto a loro) quanto si sia accumulato nasce il bisogno di avere certezza che siano veramente i propri figli. Al che non poteva piú dare risposta adeguata il ‘matrimonio di classe’. Occorreva, invece, introdurre un sistema riproduttivo che potesse garantire con certezza la provenienza di ciascun neonato. Questo poteva essere assicurato soltanto dall’unione nella quale la donna si potesse unire soltanto con un solo uomo. Perciò, progressivamente si assisté alla scomparsa del matrimonio di gruppo ed all’affermazione del matrimonio monogamico.

La trasformazione che ne conseguí fu accompagnata da una specifica elaborazione filosofica e concettuale, dalla quale scaturí la concezione patrimoniale della famiglia, con conseguente esaltazione del ruolo e del potere del capo-famiglia (paterfamilias)[32], l’obbligo di fedeltà inteso (unilateralmente) come fedeltà della moglie; nel senso che essa non solo doveva pensare solo al marito ma doveva seguirne le sorti. Cioè, per es. se si candidava lo doveva sostenere alle votazioni, se aveva dei nemici si doveva schierare dalla parte del marito e non dalla parte dei nemici. In altre parole si trattava sí di fedeltà (per cosí dire) di vita, ma profondamente diversa da come la concepiamo noi. Per noi la fedeltà significa rapporto affettivo, fisico esclusivo e invece qui significa soprattutto rapporto sociale, cioè stare dalla parte del marito e questo fa sí che la donna viva la propria vita in funzione del marito.

Ne conseguí l’accentuazione dei vincoli parentali del lato maschile (adgnatio) e la successione nell’eredità (per lungo tempo) soltanto in linea maschile[33].

Questa nuova formazione costituí la familia e si distaccò progressivamente dal piú ampio gruppo originario della gens[34], sicché «Le due formazioni `familiari’, strutturalmente e storicamente diverse, conosciute dall’antica società romana sono cosí da un lato la famiglia - nata sulla base della privatizzazione della ricchezza e della monogamia istituzionalizzata - dall’altro la gens, organismo più antico, sorto in epoca remota da un diverso regime matrimoniale di carattere collettivo ed esogamico»[35].

 

 

5. – Familia in Roma

 

Il termine familia non è originario né di Roma né, piú in generale, dei Latini; inoltre in origine aveva significati esclusivamente patrimoniali[36].

Sull’origine del vocabolo abbiamo una testimonianza indiscutibile, che ne afferma l’origine dagli Osci. È quella Festo[37], il quale afferma che il termine pare sussunto da una voce osca indicante la servitù[38]:

 

Festi (L. 77) v. famuli: Famuli origo ab Oscis dependit, apud quos servus famel nominabatur, unde et familia vocata[39].

 

Il termine per gli Osci era connesso anche con faama, che indicava la casa[40] e, pertanto, significava cioè l'insieme dei famŭli (moglie, figli, servi che stavano nell’abitazione di un capo-casa).

In Roma familia, in ultima istanza, soleva essere adoperato per indicare l’insieme dei ‘viventi’ raggruppati in una domus[41] e costituenti un organismo unico ed unitario sotto il potere del paterfamilias[42], con un linguaggio normalmente declinato al maschile[43]. In quest’accezione, il termine era riferito sia agli uomini (filii, mogli, altri liberi sottoposti a vario titolo alla potestas del padre, schiavi) sia agli animali.

In molti contesti familia si trovava utilizzato assieme a pecunia: in questo caso l’endiadi familia pecuniaque comprendeva ‘gli schiavi ed il bestiame’, ma verso la fine della Repubblica assunse il significato di patrimonio[44].

Perciò va subito chiarito che familia, nell’uso del linguaggio giuridico romano, indicava realtà molteplici e meno univoche rispetto a quelle espresse oggi con ‘famiglia[45]. Nel tentativo di ripercorrerne la storia e di riassumerne i significati il giureconsulto Ulpiano tenta di individuare due filoni principali dei significati attribuiti a familia; infatti egli individuava una bipartizione primaria nei significati del termine, precisando che essi dovevano essere suddivisi in due gruppi (genus) fondamentali: quello nel quale familia concerneva le cose (i beni) e quello nel quale con esso si voleva guardare alle persone:

 

D. 50.16.195.1, Ulp. 46 ad ed.: "Familiae” appellatio qualiter accipiatur, videamus. et quidem varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. In res, ut puta in lege duodecim tabularum his verbis “adgnatus proximus familiam habeto”. Ad personas autem refertur familiae significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur lex: “ex ea familia”, inquit, “in eam familiam”: et hic de singularibus personis legem loqui constat[46].

 

Il concetto di familia consistente nell’unione di persone unite dal vincolo di sangue era stato l’ultimo ad affermarsi, come risalta dall’ordine espositivo del giurista. Esso aveva conosciuto una importante bipartizione: familia proprio iure, familia communi iure. La familia proprio iure abbracciava il nucleo raggruppato sotto il potere di un padre di famiglia, o per vincoli naturali o per vincoli giuridici; essa comprendeva lo stesso padre di famiglia, la madre di famiglia, i figli, le figlie ed i loro discendenti, i sottoposti in condizione servile[47]. La familia communi iure, secondo il giurista, era costituita da tutti quelli che, sebbene facenti parte di famiglie divenute autonome, in passato erano appartenuti ad una familia unica[48].

Nell’età più antica familia indicava le cose (vale a dire il patrimonio)[49], come appare chiaro dalle XII tavole, le quali nella prescrizione adgnatus proximus familiam habeto usavano il termine per indicare l’asse ereditario.

Molti sono i contesti nei quali il termine familia era riferito alle persone, alle loro condizioni ed alle loro aggregazioni.

Le stesse dodici tavole contenevano prescrizioni, come ex ea familia o in eam familiam, nelle quali con familia s’indicavano le persone appartenenti ad un nucleo, il quale era considerato sia unitariamente sia con riguardo ai singoli membri.

Un particolare uso del termine registrava i casi nei quali familia era stato usato per indicare un corpus, riconosciuto dal diritto come unitario sebbene composto da molte persone[50].

Punto essenziale nella concezione della familia fu sempre un dato: la derivazione dal diritto; essa non dipendeva esclusivamente da connotazioni (che pure potevano esserci), quali (ad esempio) il matrimonio e la filiazione, quanto, piuttosto, dalla qualificazione giuridica.

La quale prefigurava come familia anche il singolo individuo: lo attesta espressamente Ulpiano:

 

D. 50.16.195.2: …. Pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat: non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus: denique et pupillum patrem familias appellamus. Et cum paterfamilias moritur, quotquot capita ei subiecta fuerint, singulas familias incipiunt habere: singuli enim patrum familiarum nomen subeunt. Idemque eveniet et in eo qui emancipatus est: nam et hic sui iuris effectus propriam familiam habet[51].

 

Il giurista esplicitava i casi nei quali la familia era considerata tale anche se composta da una sola persona, cioè da un solo paterfamilias: chi non avesse figli, l’orfano ancora impubere e sotto tutela, l’emancipato (s’intende, ancorché ancora singolo). Infine il giurista ricordava che alla morte del padre tutti i figli, a lui sottoposti, diventavano autonomi e ciascuno con una propria famiglia.

In conclusione la familia era frutto della creazione giuridica. Riguardo ad essa va, però, precisato che non era frutto di visioni arbitrarie, ma era conseguenza del modo di considerare l’uomo nel complesso della collocazione e delle finalità spettantigli all’interno delle entità di appartenenza: che erano il Cosmo e la Civitas.

 

 

6. – Familia e Cosmo. I sacra

 

Nell’antichità e, per quel che ci concerne a Roma si riteneva che la ‘vita’, compresa quella umana, fosse inserita in un “ciclo”, non dipendente dagli uomini ma regolato da leggi di valore cosmico. Esso[52] imponeva una profonda religiosità, intesa come consapevolezza di appartenere ad un ordine trascendente dell’universo, che abbracciava in un unico afflato le stagioni dell’uomo assieme (ad esempio) alle stagioni dei campi, all’alternanza del giorno con la notte, ai movimenti del sole e delle stelle, all’esistenza di momenti ineludibili: la nascita, la fanciullezza, la maturità, la vecchiaia erano ritenute scansioni universali e valide sia per gli uomini sia per le città. Esse erano percepibili e quantificabili attraverso la legge dei numeri, capaci di incorporare ed esprimere i dati relativi al corso dell’intero universo e (dentro di esso) al ciclo della vita[53].

Il tutto era filtrato dalla convinzione che ci fosse nell’universo e corrispondesse alla legge di natura un andamento di nascita, crescita, decadenza e morte, avente valore generale ed universale[54]. Quest’idea, derivava certamente dall’osservazione di quanto accadeva per gli uomini, ma era applicata anche alla loro collettività organizzata: la Civitas, struttura di confluenza dei singoli, era, infatti, considerata in termini di sviluppo fisiologico, secondo una diffusa tendenza, la quale interpretava la storia di Roma come lo sviluppo di un organismo vivente[55], inserito nel ciclo terrestre, al cui centro vi era l’uomo; il quale pertanto era preesistente ad altre forme di aggregazione.

Nel ‘ciclo’ vitale universale la Civitas non era l’antecedente, bensí la fase successiva dell’organizzazione degli uomini. Prima vi era l’uomo, il quale nasceva in una familia[56]. A tale conclusione mi pare condurre la considerazione del ruolo e dell’importanza avuta dai sacra, sia per i singoli sia per le collettività.

I sacra erano fondamentali nell’esperienza romana. Di conseguenza non si può avere comprensione soddisfacente della realtà romana se non si tiene conto dei sacra. Essi erano sia publica sia privata; i secondi continuarono a permanere pur dopo la costituzione della Civitas, verosimilmente perché pertinenti all’uomo a prescindere dal gruppo di appartenenza[57]:

 

Festi, L. 284: Publica sacra quae publico sumptu pro populo fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis; at privata quae pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt[58].

 

Invero, la familia ebbe profili che la concepirono come unica entità, modellata sotto il potere di un capo (il paterfamilias), ma senza escludere che i componenti, liberi e servi, avessero posizioni e ruoli propri, rilevanti anche autonomamente, come sicuramente avveniva riguardo ai sacra. Il termine stesso, com’è stato evidenziato, faceva capo ad una nozione concreta della ‘collettività’[59], formata da uomini con le loro prospettazioni terrene e soprannaturali, che per noi non è semplice cogliere, perché di frequente siamo spinti a sottovalutare l’importanza e l’incidenza dei sacra nella società romana[60], non percependo appieno le implicazioni derivanti dal fatto che essi scandivano ogni aspetto ed ogni momento della vita dei Romani[61]. I sacra privata erano espressione dell’uomo e delle sue forme associative fondamentali. Secondo Festo[62] i sacra privata, erano articolati in più gradi: riguardo ai singoli, riguardo alle famiglie e riguardo alle genti: pro singulis hominibus, familiis, gentibus fiunt”. L’ordine delle differenti sfere d’incidenza dei sacra privata nel brano di Festo non è soltanto rappresentativa dell’esistente, ma contiene anche la descrizione delle fasi attraverso le quali si evolveva la vita umana. Essa, pertanto, esprimeva la scansione temporale e una gerarchia di valori, al vertice delle quali vi era l’uomo, prima come singolo poi, successivamente inserito nella famiglia e nella struttura pubblica (che in origine era stata la gens). Di conseguenza i sacra privata erano insopprimibili ed imperituri: “sacra privata perpetuo manento”, diceva Cicerone (De legibus 2.9.22); rispetto ad essi la Civitas non poteva interferire, dovendo, invece, lasciare autonomia totale ai privati, poiché essi erano prerogativa esclusiva degli uomini e della sua forma essenziale d’aggregazione che era la famiglia. I sacra privata scandivano ogni momento essenziale dell’uomo romano e della famiglia romana: essi erano la trasposizione religiosa del ciclo della vita[63], avente valenze universali. Ne conseguí che il paterfamilias fosse ad un tempo il capo della famiglia, ma anche il suo sacerdote ed il custode, all’interno di essa, del costume.

Nell’età arcaica e nella prima fase della Respublica la ‘famiglia’ era inserita profondamente nella propria gens e, sempre, lo fu nella Civitas. Questo fece sí che i comportamenti dei suoi membri e soprattutto del pater fossero oggetto dell’attenta e severa valutazione dei Censori. Il tutto era considerato espressione di leggi universali del Cosmo. Si ritenevano esistenti quasi dei ‘cerchi concentrici’ nei quali si realizzava il cammino dell’uomo e nel quale anche la famiglia faceva parte, come prima cellula base. In essi «i due estremi sono l’umanità e la famiglia, la cellula minima di cui il singolo individuo fa parte; fra questi estremi si situa lo stato, un’istituzione insieme naturale e storica»[64].

Di siffatta prospettazione, alla fine della Respublica, dava lucida testimonianza Cicerone, nel De officiis[65]. L’Arpinate nell’esame della societas hominum, tratteggiava la successione dei modelli che storicamente avevano connotato l’organizzazione della società[66], con l’intento di specificarne il fondamento e la giustificazione. La sua conclusione era che tutte le forme esistenti erano stabilite dalla natura (prima che dagli uomini)[67], attraverso un intreccio insolubile di legami vari ed articolati, talora anche di difficile intellezione, al cui centro si trovava la famiglia.

Per tale via la famiglia costituiva il nodo di ogni organizzazione e dell’intera umanità. La concezione della famiglia rifletteva le idee sul rapporto natura-società; le quali nell’opera dell’Arpinate seguivano le tracce segnate dalla disputa (sollevata dai pensatori greci) tra chi riteneva che l’unico ordine naturale dovesse essere l’intera umanità e chi legittimava la divisione degli uomini in base alla cittadinanza. Cicerone, il quale esponeva concetti largamente condivisi, riteneva che la Città, con l’esclusività del rapporto di appartenenza riservato ai cives, fosse il modello di riferimento dell’uomo e derivasse dalla natura, poiché i princípi della natura non si realizzavano attraverso un agglomerato unico (quale sarebbe stata l’umanità nel suo insieme), bensí attraverso una scala i cui gradini erano costituiti da modelli di aggregazione, tra se intersecati, che si ampliavano in forme di grandezza crescente, immaginate come cerchi concentrici di differente ampiezza. In questa progressione di forme ognuno trovava la sua posizione, la quale postulava l’appartenenza sia ad un gruppo più ristretto sia al gruppo più ampio nel quale il gruppo ristretto si inseriva. Erano la gamma e la progressività dei raggruppamenti a conferire le motivazioni e le giustificazioni a ciascun gruppo ed a realizzare i princípi della natura.

Nel contesto ideologico e culturale del tempo, si era poi convinti che, per quanto varie potessero essere le forme d’organizzazione, ve n’era una esistita ed esistente sempre, in ogni tempo, presso tutti i viventi, uomini ed animali: la famiglia. Essa non poteva essere fine a sé stessa, ma doveva integrarsi ed armonizzarsi con la gradualità e le altre forme d’aggregazione della società umana.

Ne conseguiva che:

1.  la famiglia romana realizzava i principii della ‘natura’ e, pertanto, nel diritto, aveva come punto di riferimento il diritto naturale.

2.  la famiglia romana era funzionale alla persona ed all’ordine (cosmico, umano e divino) al quale il vivente apparteneva;

3.  la famiglia romana era la prima ma non l’unica forma di organizzazione della società.

 

 

7. – Natura

 

Emerge, dal quadro appena delineato, l’importanza del nesso tra famiglia e natura. Perciò val la pena esaminare piú da vicino la indicazione in base alla quale la famiglia sarebbe basata sulla ‘natura’, la quale trova eco in enunciazioni anche contemporanee; come quella della Costituzione italiana, dove esplicitamente si opera un accostamento tra famiglia e natura:

 

Art. 29: La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

 

Poiché, dunque, la convinzione dell’esistenza di una sinapsi tra famiglia e natura, come criterio limitante e nel contempo ispiratore del diritto, è ancora viva[68], vale la pena sforzarsi di risalire alle origini e, nello specifico, al pensiero romano.

Anche qui partirei dall’essenziale pensiero di Cicerone. L’Autore romano affermava l’esistenza di principî dettati dalla ‘natura’ per le comunità e le società umane. Tra essi il primo era costituito dalla ratio e dalla capacità di comunicazione e persuasione della parola. Questo principio valeva per l’umanità considerata nella sua globalità[69] e serviva ad affratellare gli uomini, congiungendoli in una ‘società naturale’. Esso tuttavia non era da solo bastevole: si doveva integrare con l’altro principio, espressione anch’esso della legge universale comune a tutti i viventi, consistente (come l’Arpinate specificava nel successivo § 54) nell’aspirazione/necessità di procreare, la quale esigeva l’unione tra maschio e donna nel matrimonio. Di conseguenza, veniva dichiarata l’essenzialità e la priorità della procreazione, considerata fine primario ed insopprimibile della natura e della società umana. Essa imponeva il matrimonio come perno della famiglia e, precisava l’Arpinate, era la base per la Respublica, la quale da essa traeva origine, tanto che, per questa via, la famiglia poteva essere considerata “principium urbis et quasi seminarium rei publicae”.

Cicerone, in tal modo, poneva la famiglia alla base del processo di formazione della città garantendone la permanenza. Attraverso i riferimenti all’urbs ed alla res publica Cicerone intendeva sottolineare due aspetti complementari ma non del tutto identici. Da un lato la formazione della città: essa era stata opera delle famiglie. Dall’altro lato la vita, la persistenza della comunità: essa non poteva avvenire senza le famiglie, poiché senza le famiglie la città stessa non poteva perseguire il suo scopo.

Qui vale la pena di riflettere sull’espressione quasi seminarium rei publicae. Occorre, al riguardo, avere presente che il quasi latino non corrispondeva al nostro ‘quasi’. Nel linguaggio dei Romani, quasi serviva ad introdurre un discorso di tipo analogico[70] e, pertanto, ad indicare che una situazione doveva essere considerata uguale ad un’altra. Cicerone non intendeva affermare che la famiglia solo approssimativamente poteva essere considerata come il ‘semenzaio’ della Repubblica. Egli, invece, affermava che la famiglia, per la Repubblica, operava da ‘vivaio’, perché andava considerata come vivaio della Repubblica.

Ciò, perché, come egli ribadiva in chiusura del paragrafo, la formazione e (s’intende) l’esistenza della Res Publica derivavano dalle famiglie intese come centro di creazione di legami e di nascita della prole. Nel punto Cicerone, pertanto, precisava il concetto di ‘natura’, a base della famiglia. Esso risiedeva nella creazione di legami basati intorno al matrimonio finalizzato alla procreazione, poiché vi era l’esigenza di consentire l’espansione dei gruppi confluenti nella Civitas; la quale non avrebbe potuta crescere e sostenersi se non ci fossero state le unioni create con i matrimoni, con la nascita di figli che da essi derivava.

Il pensiero di Cicerone non restò l’opinione di un autore o di un periodo, ma, anche per la forza costruttiva e la capacità di diffusione della matrice greca (dalla quale promanava), si affermò e fu seguita per tutta l’esperienza del diritto romano. Ne è conferma un passo di Ulpiano:

 

D. 1.1.1.3, Ulp. 1 Inst.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri[71].

 

Già ictu oculi il commento ulpianeo dimostra una considerevole coincidenza con i brani di Cicerone, del quale sembra quasi una parafrasi. Vi è un’indubbia vicinanza tra il brano di Ulpiano e quelli di Cicerone, nonostante la distanza temporale. Essa non è immotivata né astorica, perché Cicerone era letto e conosciuto dai giuristi del Principato[72]. I suoi riferimenti alla natura dovevano trovare facile accoglienza per il fatto che le nozioni di ‘natura’ e di ‘diritto naturale’ avevano avuto grande penetrazione nella letteratura giuridica ed erano state alla base della costruzione del concetto di ius naturale, corrente sino all’età dei Severi. Di ciò è pienamente persuasa l’ultima dottrina[73], la quale ha posto in chiaro le ascendenze pitagoriche ed empedoclee della nozione di diritto naturale[74], peraltro evidenziate già da Cicerone[75].

Questi precedenti, sebbene offuscati dall’affermazione della superiorità dell’uomo sostenuta da Aristotele[76], sono stati tuttavia presenti a molti pensatori romani[77] e, tra i giuristi, ad Ulpiano[78], il quale ha fondato su di essi[79] le enunciazioni contenute nel frammento di D. 1.1.1.3.

Si può, dunque, scorgere una fondamentale continuità d’impostazione tra il pensiero di Cicerone e quello di Ulpiano, entrambi espressione di concezioni circolanti nel Mediterraneo, grazie alla forza di convincimento e di diffusione della matrice greca e delle correnti pitagoriche; le quali avevano suscitato nuove aspettative, anche a seguito della divulgazione fattane da Apollonio di Tiane, e dal suo agiografo Flavio Filostrato[80].

Le interazioni, forse anche inconsapevoli, che, in questo clima culturale, si crearono tra gli enunciati di Cicerone e quelli di Ulpiano mi paiono chiari ed avevano radici in idee profondamente radicate nel pensiero antico e nel diritto romano, con varietà di sfaccettature ed accentuazioni.

Cicerone, come si è visto, affermava l’esistenza di una società, comune agli uomini ed agli animali, organizzata in differenti gradus, fondati sul diritto naturale[81]. Ulpiano si muoveva in analoga prospettiva «nella definizione del ius naturale come diritto comune a uomini e ad altri esseri animati, ove è evidente, per quel riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio liberorum, il parallelismo con la riflessione di Cicerone, in tema di coniugium e di societas liberorum»[82].

Non mi pare azzardato generalizzare sino ad affermare che in tutta l’esperienza del diritto romano vi è stata la convinzione che da un lato la famiglia derivava dal diritto naturale e come tale non poteva dipendere dal ius civitatis (cioè, diremmo oggi, dalle leggi dello Stato), dall’altro che essa assolveva ad una finalità primaria costituita dall’apporto all’accrescimento della collettività e della Respublica.

 

 

8. – Augescere

 

L’antichità è permeata e dominata da un’aspirazione/esigenza: quella della crescita. Nell’area mediterranea, ad esempio, la promessa di ‘crescita’ impernia profondamente il patto di Dio con Abramo ed Israele. Segno della benevolenza di Dio stesso, reiteratamente nella Bibbia, appare ravvisata nella crescita l’aspirazione e la proiezione piú profonda e costante dei popoli[83].

Roma e la sua storia denotano che la ‘crescita’ era la finalità, ma anche come ‘esigenza’ primaria, dell’umanità, della società umana, della Civitas, della familia. Un riflesso ed insieme una conferma si può scorgere nel diverso modo di considerare quella che noi chiamiamo ‘capacità giuridica’.

Gli ordinamenti odierni, com’è noto, attribuiscono la (cosiddetta) capacità giuridica alla nascita della persona fisica e l’idoneità all’effettivo esercizio dei propri diritti (capacità giuridica) al raggiungimento della maturità intellettiva e psicologica (presuntivamente fissata ad un’età che varia tra i 18 ed i 21 anni). Nel sistema romano, invece, si aveva come punto di riferimento il fatto di non essere sottoposti all’altrui potestas e, per l’esercizio effettivo dei diritti la pubertas, la quale segnava anche il momento della partecipazione alla vita pubblica con l’ingresso nel comizio centuriato[84].

Il motivo del riferimento alla pubertà e non alla maturità intellettiva[85], della cui assenza nel fanciullo divenuto pubere (ad appena 14 anni se maschio, a 12 se donna) i Romani erano consapevoli[86], risiedeva proprio nell’idea che fosse l’idoneità a contribuire alla ‘crescita’ (con l’acquisizione della maturazione sessuale e quindi della possibilità di procreare) lo spartiacque della condizione delle persone. Inoltre presso di loro era convinzione corrente che la pubertà desse vita ad una rinascita della persona[87]. Era la pubertà lo spartiacque tra l’infanzia e l’adolescenza, ravvisato non nella maturità di pensiero, bensí nella capacità di contribuire o no alla ‘crescita’ della comunità[88]. Perciò, il pubere, con l’acquisita capacità di procreare e, di conseguenza, ad accrescere la propria comunità (familia e Res Publica)[89] era riconosciuto come uomo del tutto idoneo a svolgere le attività politiche e le negoziazioni giuridicamente rilevanti[90], entrando a far parte del comizio ed acquistando pieno rilievo riguardo al diritto pubblico e alla possibilità di far parte dell’esercito, di partecipare alla conquista ed alla divisione del bottino.

Il raggiungimento della pubertà era reso noto dai ‘padri’ dei fanciulli, i quali, a testimonianza dell’avvenuta pubertà, presentavano in pubblico i figli, in occasione della festa primaverile dei Liberalia[91], evidenziando il legame stretto esistente tra i cicli della vita e la natura[92].

Le nozioni supposte dal riferimento alla pubertà risultano dunque riferite sia al singolo ragazzo sia alla sua condizione di civis. Anche questo importantissimo aspetto della vita e della sua concezione da parte dei Romani, conferma che essi concepirono l’uomo in una dimensione che lo proiettava verso la crescita e che questa, secondo il diritto naturale, avveniva nella famiglia basata sul matrimonio eterogamico ed eterosessuale[93].

Alla crescita attenevano anche i termini con i quali si faceva riferimento alla Comunità. Invero, la parola pop(u)lus, usata per indicare la collettività dei Romani, pare derivata da una radice mediterranea importata dagli Etruschi ed equivalente a ‘crescere’ Di modo che i termini ‘popolo’ e ‘pubblico’ erano la proiezione nel linguaggio dell’idea della crescita e tutto lo sviluppo di Roma e la sua storia erano concepiti in termini di crescita.

Ne è testimonianza l’incisivo quadro delineato da Sesto Pomponio riguardo alla formazione, all’evoluzione del diritto ed all’assetto di Roma[94], dove l’autore usava sempre espressioni che cesellavano l’essere ed il divenire dell’esperienza giuridica romana in termini di crescita[95]. Evidentemente, nel corso dell’esperienza giuridica dei Romani, l’idea di civitas augescens, non è mai venuta meno nel pensiero romano[96] e nel diritto romano[97].

 

 

9. – Viripotens. Età del fidanzamento

 

Se poi si guardi alle donne si scopre un percorso analogo: entravano nella società attraverso l’ingresso nella familia, che era visto come l’analogo dell’ingresso dei maschi nel popolo. Per esse, pertanto, il matrimonio era corrispettivo a quel che per i maschi era la presentazione in pubblico durante i Liberalia.

Per le fanciulle, «la via seguita fu quella dell’estensione alle donne di concetti elaborati per la pubertà maschile … la tendenza fu quella di applicare progressivamente alle ragazze idee e nozioni elaborate per i maschi. Ciò avvenne secondo un percorso tracciato e guidato dai giuristi»[98]. Ma mentre per i maschi la pubertà segnava il passaggio dalla familia alla Civitas, per le donne era il passaggio dalla propria ad una nuova famiglia, attraverso il matrimonio; cui erano destinate dai padri. Sicché era il matrimonio a segnare l’ingresso della fanciulla (e, piú in generale, della donna) nella vita sociale[99]. Per la donna la pubertà non era espressa dal termine puber, bensí da viripotens: indicativo della sua capacità sessuale e con il quale si volle evidenziare che il suo ingresso nella collettività era funzionale alla procreazione (e con essa alla crescita della famiglia e della città), in relazione alla quale ella doveva coadiuvare il maschio. Fu, perciò, al matrimonio che si guardò definendo la maturità delle donne come capacità di virum pati. L'espressione, infatti, non costituí un semplice richiamo all'idoneità della donna al rapporto sessuale, ma intese riferirsi alla possibilità della donna di unirsi in matrimonio, per la realizzazione della funzione procreativa riconosciuta in via primaria e prevalente agli uomini. Essa, pur riferendosi alla maturità della donna, ne coglieva la posizione passiva (rispetto all'uomo) attribuitale nella concezione del matrimonio antico[100].

In tal modo la viripotenza fu definita non solo in base alla fisiologia femminile, ma anche e forse in via prioritaria in relazione alla capacità complementare della donna di consentire la realizzazione della capacità procreativa del pubes, dal cui concetto si partí per individuare la ‘viripotens’ (in antico virapatiens).

Di ciò ci offre chiara testimonianza ancora una volta Festo[101]:

 

Festi Th. 330. 6: _ ||Pubes et qui + pubem generare potest; his + incipit || esse a quattuordecim annis: femina aquodecem + || viri potens, sive patiens ut quidam putant ||[102].

 

Festi L. 296. 18: _||Pubes + et qui pubem + generare potest. Is incipit || esse a quattuordecim annis: femina a duodecim || viri potens, sive patiens, ut quidam putant[103].

 

Anche l’Epitome di Paolo Diacono riproduceva la definizione con alcune varianti apparentemente formali, in realtà rilevanti rispetto all’originale festino[104].

 

Festi P. L. 297. 2 = Th. 331: Pubes puer, qui iam generare potest. Is incipit esse ab annis quattuordecim; femina viripotens a duodecim[105].

 

Ne scaturiva che le fanciulle venissero date in nozze troppo prematuramente, come denunciava Tacito, contrapponendo questo (per lui deprecabile) costume con quello dei Germani. I quali consentivano alle fanciulle di irrobustire il proprio corpo, vivendo libere all’aria aperta (nei campi e nelle selve) prima di destinarle alle nozze, senza l’eccessiva fretta (da lui stigmatizzata) con la quale i Romani collocavano le proprie figlie in matrimonio[106]; il tutto a somiglianza ed in analogia con la natura, che in Primavera fa fiorire campi, alberi e uomini

Le età di 14 e 12, che pare abbiano costituito una presunzione di pubertà, furono stabilite, non senza resistenze, dalla giurisprudenza romana (nella scuola dei Proculiani), per motivi di certezza e per porre un argine all’arbitrio dei patres. La scelta di quelle date dipese dalla volontà di ancorare un momento cosí decisivo all’ordine universale del cosmo espresso dal numero 7 (nodus totius universi, secondo Cicerone), perché «Tante e tali erano le virtú attribuite al ‘sette’ che il numero fu assunto come simbolo dell’eccellenza, nell’ordine della natura…»[107]. 14 era multiplo di 7, che tra l’altro era un numero maschile, come tutti i numeri dispari. Per la donna si indicò un numero femminile, cioè un numero pari, anticipato, perché si credeva che la donna maturasse prima del maschio[108].

Pur se palesemente inadeguate le età indicate, talvolta con rigore in età repubblicana da Servio Sulpicio Rufo che non riconosceva nessuna conseguenza alle nozze contratte prima di quelle età, si scontravano con la prassi dei ‘matrimoni precoci’. Essa appare diffusa in tutta l’esperienza romana, compreso il periodo cristiano e trovò comprensione presso gli stessi giureconsulti, durante il Principato: ne è testimonianza un brano di Salvio Giuliano, il quale sostenne che occorreva benevolenza verso il padre che avesse dato in moglie la figlia ancora fanciulla, perché, a suo dire, l’avrebbe fatto ‘per affetto’:

 

D. 27.6.11.3-4, Ulp. Libro trigesimo quinto ad edictum: Iulianus libro vicesimo primo digestorum tractat, in patrem debeat dari haec actio, qui filiam minorem duodecim annis nuptum dedit. et magis probat patri ignoscendum esse, qui filiam suam maturius in familiam sponsi perducere voluit: affectu enim propensiore magis quam dolo malo id videri fecisse[109].

 

Giuliano, cosí come, prima Nerazio[110], è restio a non dare nessun riconoscimento al matrimonio precoce e riteneva che l’aver fatto entrare in casa del marito una fanciulla non ancora dodicenne non dava sí vita ad un matrimonio, ma non era privo di effetti; perché avrebbe, comunque, costituito un fidanzamento. La sua soluzione (rectius, il suo artificio) non ebbe fortuna, tanto che Ulpiano, nel riferirlo, si affettava a negare che quella costruzione avesse fondamento e potesse essere accolta:

 

D. 24.1.32.27, Ulp. Libro trigesimo tertio ad Sabinum: Si quis sponsam habuerit, deinde eandem uxorem duxerit cum non liceret, an donationes quasi in sponsalibus factae valeant, videamus. Et Iulianus tractat hanc quaestionem in minore duodecim annis, si in domum quasi mariti immatura sit deducta: ait enim hanc sponsam esse, etsi uxor non sit. Sed est verius, quod Labeoni videtur et a nobis et a Papiniano libro decimo quaestionum probatum est, ut, si quidem praecesserint sponsalia, durent, quamvis iam uxorem esse putet qui duxit, si vero non praecesserint, neque sponsalia esse, quoniam non fuerunt, neque nuptias, quod nuptiae esse non potuerunt[111].

 

La soluzione proposta da Giuliano si doveva basare sulla considerazione che nel matrimonio precoce, come di norma, il fidanzamento doveva certamente precedere il matrimonio stesso[112]; di modo che si poteva darlo per presupposto. Tanto piú che ad esso non era d’ostacolo l’età bassa della fanciulla, poiché era noto che, a differenza del matrimonio, nel fidanzamento (che non era già proiettato alla procreazione) non vi era bisogno di indicare un’età minima; potendo addirittura avvenire fin dalla nascita. Del che sono conferma i non rari esempi di fidanzamenti con fanciulle ancora nella prima infanzia e poi date in moglie prematuramente anche durante tutto il Principato[113]: Augusto, ad esempio, concluse il fidanzamento «fra una nipote di Attalo vix annicula e Tiberio Claudio Nerone»[114].

Ancora al termine dell’esperienza ‘classica’ Modestino poteva, perciò, affermare che non vi era un’età minima per i fidanzamenti e (ma forse il punto fu conseguenza di una correzione operata dai compilatori dei Digesta di Giustiniano) ne deduceva che anche per essi occorresse richiamare le virtù del ‘sette’, di modo che si dovesse richiedere proprio l’età di sette anni[115]:

 

D. 23.1.14, Mod. l. 4 diff.: In sponsalibus contrahendis aetas contrahentium definita non est ut in matrimoniis. Quapropter et a primordio aetatis sponsalia effici possunt, si modo id fieri ab utraque persona intellegatur, id est, si non sint minores quam septem annis[116].

 

Vorrei, poi, ricordare che il fidanzamento in Roma veniva chiamato sponsalia, termine il cui significato nelle fonti ha tre spiegazioni.

Gellio collega la parola alla consuetudine, in uso nel Lazio antico e fino alla concessione della cittadinanza (con la legge Giulia), di impegnarsi con contratto verbale (la sponsio, per l’appunto, che fu la prima forma di contratto verbale con base sacrale[117]) a dare o a prendere in moglie una donna:

 

Gell., Noct. att. IV.4: Sponsalia in ea parte Italiae, quae Latium appellatur, hoc more atque iure solita fieri scripsit Servius Sulpicius in libro, quem scripsit de dotibus: Qui uxorem inquit ducturus erat, ab eo, unde ducenda erat, stipulabatur eam in matrimonium datum iri. Qui ducturus erat, itidem spondebat. Is conctractus stipulationum sponsionumque dicebatur ‘sponsalia’. Tunc, quae promissa erat, ‘sponsa’ appellabatur, qui spoponderat ducturum, ‘sponsus’. Sed si post eas stipulationis uxor non dabatur aut non ducebatur, qui stipulabatur, ex sponsu agebat. Iudices cognoscebant. Iudex, quamobrem data acceptave non esset uxor, quaerebat. Si nihil iustae causae videbatur, litem pecunia aestimabat, quantique interfuerat eam uxorem accipi aut dari, eum, qui spoponderat, <aut> qui stipulatus erat, condemnabat. Hoc ius sponsaliorum observatum dicit Servius ad id tempus, quo civitas universo Latio lege Iulia data est. Haec eadem Neratius scripsit in libro, quem de nuptiis composuit[118].

 

Diversamente Gellio, il quale ricordava che lo stesso Verrio Flacco (fonte cui egli attingeva) aveva dato due diverse spiegazioni: in primo momento aveva affermato che l’uso del verbo spondere era riferito al fatto che si trattava di atti compiuti spontaneamente; poi, contraddicendosi, aveva asserito che esso derivava dal greco ed era descrittivo dell’uso dei fidanzati di fare libagioni, che rappresentavano una forma di invocazione e di preghiera agli dei, utilizzando coppe, che in greco si chiamavano spondàs:

 

Festi, De verb. signif. L. 440.1: Spondere Verrius putat dictum, quod sponte sua, id est voluntate, promittatur. Deinde oblitus inferiore capite sponsum et sponsam ex Graeco dicta[m] ait, quod i spondàs interpositis rebus divinis faciant[119].

 

Importante è, inoltre, il fatto che gli sponsalia non vincolavano al matrimonio[120], salvo che si fosse stabilito il pagamento di una somma in caso di mancato successivo matrimonio[121]

 

Varro, de ling. lat. 70: <Si> spondebatur pecunia aut filia nuptiarum causa appellabatur et pecunia et quae desponsa erat sponsa: quae pecunia inter se contra sponsum rogata erat, dicta sponsio; cui desponsa quae erat, sponsus; quo die sponsum erat, sponsalis. §. 71: Qui spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de voluntate, exierat: non enim si volebat, dabat, quod sponsu erat alligatus: nam un in comoediis vides dici: “Sponde<n> tuam gnatam filio uxorem meo?” Quod tum et praetorium ius ad legem et censorium iudicium ad aequm existimabatur[122].

 

 

10. – Matrimonium

 

È in questa Weltanschauung[123] che fu sviluppato il matrimonium[124]. Di essa è testimonianza la stessa etimologia del termine. Matrimonium era un termine formato dal genitivo singolare di mater (ovvero matris) unito al suffisso - monium, collegato, in maniera trasparente, al sostantivo munus (dovere, compito) per descrivere la funzione dell’istituto; vale a dire per indicare che il suo scopo risiedeva nel compito-dovere della donna, risiedente nell’obbligo di generare figli. Esso era speculare a patrimonium (patris munus), che indicava il dovere dell’uomo (patris), incentrato sull’obbligo di sostentare moglie e figli; perciò il termine diventò sinonimo di consistenza di beni[125].

Ne consegue che la parola matrimonium, con il riferimento al “compito di madre feconda”, evidenziava le finalità procreative dell’unione, dando per scontato che l’unione tra un uomo e una era finalizzata alla procreazione[126]: la donna si univa all’uomo per divenire madre e procreare i figli legittimi[127].

Osserva la Dupont: «I Romani dicono sempre che nessuna cosa è peggiore del matrimonio, e che se non ci fosse il bisogno dei bambini, nessuno si sposerebbe»[128]. Era, dunque, la procreazione ad esprimere il motivo e la funzione del matrimonio[129]. Essa, secondo le visioni degli antichi, presenti nel diritto romano, corrispondeva ad un’esigenza primaria della società; quella, per l’appunto, dell’accrescimento[130]. La necessità di dover crescere era essenziale e centrale nella concezione antica della vita e costituiva il motivo delle unioni da realizzare nella società degli uomini (ma anche nella natura).

Dunque matrimonio, rispetto ad altri termini che vengono correntemente impiegati con significato affine, pone, almeno in origine, maggiore enfasi sulle finalità procreative dell’unione: l’etimologia stessa fa riferimento al "compito di madre" più che a quello di moglie, ritenendo quasi che la completa realizzazione dell’unione tra un uomo e una donna avvenga con l’atto della procreazione, con il divenire madre della donna che genera, all’interno del vincolo matrimoniale, i figli legittimi[131]. Incisivamente, l’esperienza romana nel matrimonio collegava i dettami universali della natura con il compito delle mogli di dare alla luce i figli. Su ciò le testimonianze sono numerose ed univoche.

Partendo dal testo di Ulpiano, che collocava il matrimonio nell’alveo del diritto naturale e della conseguente esigenza della procreazione

 

D. 1.1.1.3: … Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

 

Del resto, che la familia dovesse essere funzionale alla conservazione del genere umano e, quindi, della Respublica, appariva ovvio nel pensiero dei Romani; allo stesso modo, non si dubitava che il suo compito fosse incentrato nella figliazione, secondo una tendenza comune a tutti gli esseri animati, come evidenziavano Cicerone e anche altri autori:

 

Cic., De finibus 3.19.64: Cum autem ad tuendos conservandosque homines hominem natum esse videamus, consentaneum est huic naturae, ut sapiens velit gerere et administrare rempublicam atque, ut e natura vivat, uxorem adiungere et velle ex ea liberos[132].

Cic., De off. 1.4.11: Commune item animantium est coniunctionis adpetitus procreandi causa, et cura quaedam eorum quae procreata sunt[133].

Cic., De off. 1.17.53-54: … Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, …[134].

 

Svet., Caesar 52: Helenius Cinna plerisque confessus est habuisse se scriptam paratamque legem quam Caesar ferre iussisset, cum ipse abesset, ut ei uxores liberorum quaerendorum causa, quas ... velle ducere liceret[135].

 

Quintil., Declam. 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata[136].

 

D. 50.16.220.3, Call. 2 quaest.: Praeter haec omnia natura nos quoque docet parentes pios, qui liberorum procreandorum animo et voto uxores ducunt, filiorum appellatione omnes qui ex nobis descendunt continere: nec enim dulciore nomine possumus nepotes nostros quam filii appellare. Etenim idcirco filios filiasve concipimus atque edimus, ut ex prole eorum earumve diuturnitatis nobis memoriam in aevum relinquamus[137].

 

La finalizzazione del matrimonio alla figliazione era accentuata anche da provvedimenti normativi. Ad esempio, una legge Giulia la contemplò espressamente, stabilendo che le disposizioni agevolanti l’acquisizione della cittadinanza si applicassero esclusivamente ai matrimoni contratti con l’impegno di fare figli:

 

Tit. Ulp. 3.3: Nam lege Iunia cautum est, ut si civem romanam vel latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit postea filio filiave nato natave et anniculo facto possit apud praetorem vel praesidem provinciae causam probare et fieri civis Romanus tam ipse quam filius filiave eius et uxor, scilicet si et ipsa Latina sit …[138].

 

In conclusione può dirsi fuori discussione che il matrimonio, in conformità a natura, fosse «preordinato al fine della procreazione della prole, liberorum quaerendorum causa»[139]. Finalità e requisito tanto radicato nel costume che i Censori, chiamati a vigilare sul suo rispetto costringevano a divorziare dalla moglie sterile, ancorché molto amata:

 

Gellius, Noct. Att. 4.3.2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque amore praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum quaerundum gratia habiturum[140].

 

La filiazione era tanto caratterizzante e decisiva da definire di per sé matrimonio l’unione dalla quale fossero nati dei figli:

 

Quintil., Declam. 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata[141].

 

Anche le fonti cristiane evidenziarono la finalità procreativa del matrimonio:

 

August., Contra Faustum Manichaeum libri XXXIII. XIX: Matrimonium quippe ex hoc appellatum est, quod non ob aliud debeat femina nubere, quam ut mater fiat[142].

 

Il richiamo costante ed insistente alla Natura aveva indubbiamente lo scopo di ricordare a tutti, legiferanti e giuristi compresi, che il matrimonium apparteneva all’uomo ed al suo agglomerato storico-sociale e, quindi, che, pur variando nel tempo e nella configurazione, erano gli uomini a forgiarlo, dettandone l’assetto nell’alveo del mos (costume), basato sul ius sacrum[143].

Pertanto, l’attività dei giuristi romani consisté nel coglierne il concetto sociale[144] e riversarlo nel conseguente rapporto giuridico[145]. E non devono trarre in inganno le affermazioni che dichiarano concluso il matrimonio con l’espressione della volontà e non dall’effettivo inizio del congiungimento dei coniugi.

Ancora una volta è Ulpiano, la cui fonte potrebbero essere stati gli ampi commentari di Pomponio (vissuto circa un secolo primo)[146] a darne conto:

 

D. 50.17.30, Ulp. 36 ad Sab.: Nuptias non concubitus, sed consensus facit[147].

D. 35.1.15, Ulp. 35 ad Sab.: Cui fuerit sub hac condicione legatum, ‘si in familia nupsisset’ videtur impleta condicio statim atque ducta est uxor, quamvis nondum in cubiculum mariti venerit. Nuptias enim non concubitus sed consensus facit[148].

 

In realtà queste affermazioni erano rivolte a cogliere il momento costitutivo del matrimonio e non erano rivolte ad indicarne lo scopo caratterizzante[149].

Resta da sottolineare che il matrimonium, divenuto monogamico, era proiettato alla filiazione ed alla trasmissione del patrimonio del pater, al punto che «ci si sposava in un solo caso: se si decideva di trasmettere il proprio patrimonio a dei figli»[150].

Il matrimonium aveva, pertanto, come finalità primaria e quasi unica quella di accrescere e perpetuare la famiglia del pater; il quale, inoltre, doveva avere certezza che i nati della sua familia provenissero esclusivamente da lui, di modo che il patrimonio famigliare (che andava diviso tra i figli) andasse a chi lui avesse previsto[151]. Dal che conseguí il fatto che il consenso, fondamento istitutivo del matrimonio, pur con profonde variazioni tra le diverse forme di matrimonio (cum manu, sine manu, communi consensu)[152], era l’elemento costitutivo del vincolo[153] e dovesse essere quello del pater[154] ed aveva la peculiarità di dover essere continuo[155].

A ciò si deve anche la severa punizione dell’adulterio; il quale, come il termine indicava[156], consisteva nell’alterazione del vincolo di sangue padre-figlio. In Roma e per lungo tempo, quasi fino alle soglie dei nostri giorni[157], la punizione fu severissima ma riguardava esclusivamente la donna, perché solo il rapporto avuto dalla moglie con altri che non fosse il marito poteva compromettere la certezza della provenienza da questi dell’eventuale figliolanza, che ne fosse conseguita[158].

L’amore tra i coniugi non era, di norma, contemplato e, anzi, non di rado era considerato disdicevole e sintomo di inaccettabile ‘mollezza’[159]. Spesso le donne sterili venivano ripudiate o loro stesse divorziavano per consentire al marito di trovare un ‘ventre fecondo’[160].

L’evoluzione di tale concezione, avvenuta tra il 2° e 3° d. C., costituí poi la base del matrimonio cristiano, incentrato sulla castità di vita e sulla liceità dei rapporti sessuali soltanto nel matrimonio e per la filiazione[161].

La visione romana del matrimonio, della famiglia e, in generale, della società, si rifletteva anche nella condizione della donna e nel diritto ad avere un nome e a partecipare alla vita sociale. Nella famiglia patriarcale romana le donne non avevano diritto al nome proprio, diversamente da quelle Egiziane[162] e da quelle Etrusche[163]. Non erano relegate e destinate all’oscurità come le Greche. Ad esempio, potevano anche partecipare ai banchetti, ma solo in una prima parte, quando non si beveva ancora il vino, che era loro (specialmente in antico) rigorosamente vietato; peraltro stando sedute non sdraiate (come i maschi)[164].

Nel caso avesse un nome proprio, questo non doveva essere conosciuto se non dai più stretti familiari e non doveva mai essere pronunciato in pubblico[165].

Alla nascita infatti venivano assegnati tre nomi al maschio: il praenomen (p.es. Marco; in tutto erano circa una ventina), il nomen (p.es. Tullio) e il cognomen (p.es. Cicerone); e uno solo alla femmina, quello della gens a cui apparteneva, usato al femminile. La donna veniva considerata non come individuo, ma come parte di un nucleo familiare[166]. Cicerone, p.es., chiamerà la figlia col nome di Tullia. Se le figlie erano più di una, accanto al nome della gens portavano il nome generico di Prima, Secunda, ecc. Ma questo era la plebe a farlo, i patrizi preferivano attingere alle antenate illustri. Per distinguere due sorelle oppure madre e figlia si usavano l'aggettivo senior o junior. I liberti, maschi o femmine, assumevano il nome del patrono. A volte, ma solo per i maschi, si aggiungeva un soprannome per meriti civili o militari: p.es. l'Uticense, il Censore, l'Africano, etc.

D'altra parte avere un nome proprio contava relativamente: nella Roma repubblicana venivano censite solo le donne che, in quanto ereditiere, avevano l'obbligo di contribuire a mantenere l'esercito[167].

 

 

11. – La dote

 

Nel matrimonio la donna realizzava la sua posizione giuridico-sociale all’interno della società romana. In conseguenza di ciò il matrimonio era nell’interesse della donna, ma anche della sua familia e della Respublica. Ma per arrivare al matrimonio la donna aveva bisogno di avere la dote, che era diventata essenziale nella struttura del matrimonio romano[168]. Questa esigenza era molto antica nell’esperienza romana[169] ed era tanto avvertita che Plauto metteva l’accento sulla difficoltà di sposarsi per le donne senza dote, arrivando addirittura ad accostare il matrimonio senza dote al concubinato[170].

Orbene per assicurare alla donna l’effettiva possibilità di contrarre matrimonio i giuristi affermarono la necessità dell’intervento pubblico[171], sottraendo quindi la tutela della donna alle sole forme previste dal diritto privato, anche nel caso in cui il matrimonio non fosse ancora valido, come quello della minore di 12 anni, che restava nella casa del marito in attesa del compimento dell’età matrimoniale:

 

D. 23.3.2, Paul. 60 ad ed.: rei publicae interest mulieres dotes salvas habere, propter quas nubere possunt[172].

D. 42.5.18, Paul. 60 ad ed.: interest enim reipublicae et hanc solidum consequi, ut aetate permittente nubere possit[173].

 

Per Paolo, che riassumeva il pensiero dell’evoluzione romana, dunque, la dote è essenziale al matrimonio, al punto che senza non ci sarebbero potuti essere i matrimoni. Celiando, dunque, si potrebbe dire che i Romani si sposavano ‘per amore’, ma non necessariamente delle future mogli, bensí delle doti!

La difesa della dote, peraltro, doveva scaturire dalla concezione che si aveva del matrimonio, ritenuto essenziale per la crescita della Respublica; ragione per la quale occorreva agevolarlo salvaguardando l’integrità delle doti. Le quali, in ogni caso e pacificamente, erano ritenute consuete ed indispensabili, come aveva ribadito, nel suo vasto commentario, Sesto Pomponio:

 

D. 24.3.1, Pomp. 15 ad Sab. [612]: Dotium causa semper et ubique praecipua est: nam et publice interest dotes mulieribus conservari cum dotatas esse feminas ad subolem procreandam replendamque liberis civitatem maxime sit necessarium[174].

 

Da altri frammenti del Digesto sappiamo che l’interesse pubblico alla conservazione delle doti ebbe protezione attraverso la concessione di un privilegium, vale a dire di un’azione reale che consentiva alla donna di riottenere i beni dotali dovunque si trovassero ed anche se, nel frattempo, fossero stati alienati[175].

Il termine più usato per indicare la dote era dos. Le fonti (Varrone e Festo) ci dicono che esso proveniva da una radice greca che significava dare[176].

È, però, verosimile che il termine dos non sia stato il primo, ma dovesse appartenere al tempo nel quale l’influenza della cultura greca cominciò ad essere significativa nella vita e nel linguaggio Romani. Non siamo in grado di risalire ai vocaboli usati nella Roma arcaica per indicare i beni che poi furono compresi nella parola dos; sappiamo, tuttavia, che già ai primordi di Roma le donne portavano ai mariti una ‘dote’[177].

Lo scopo della dote era quello di sostenere la vita matrimoniale: perciò la sua finalità consistette nell’essere destinata a favorire il matrimonio, al quale doveva fornire aiuto per sostenerne le incombenze ed i costi.

La destinazione specifica della dote ad onera matrimonii sustinenda appare specificamente presupposta da Paolo, quando affermava che la dote esisteva là dove vi erano i pesi del matrimonio:

 

D. 23.3.56.1, Paul. 6 ad Plautium: Ibi dos esset debet, ubi onera matrimonii sunt[178].

 

Il punto controverso in dottrina ha trovato conferma con la scoperta di un frammento estratto dal libro 32 del commento all’editto di Paolo, il quale, per esserci pervenuto fuori dal Digesto di Giustiniano, dovrebbe provenire direttamente dall’opera del giurista severiano, ha definitivamente confermato la destinazione della dote ad onera matrimonii:

 

Pap. Grenf. 2.107 recto: [Quia apud eum esse debet] q(u) on[e/ra sustinet: quod si iam dis]soluto / matrimonio [(societas) distrahatu]r, isdem dieb(us) prae/[cipi debet qui]b(us) et solvi debet. [Ha Se]r(vius) et Lab(eo) scribunt[179].

 

In conclusione la dottrina contemporanea è unanime nell’affermare l’esistenza di un collegamento necessario e diretto tra dote e pesi del matrimonio[180]: la dote era uno strumento essenziale della politica di incentivazione dei matrimoni, attraverso i quali, come evidenziava il giureconsulto Pomponio si doveva «procreare prole e riempire la città di figli»[181].

In partenza la dote apparteneva al marito (o al padre di lui se non era autonomo, cioè sui iuris), ma già alla fine della Repubblica fu introdotta un’azione per la restituzione della dote (actio rei uxoriae) che consentiva alla moglie (o al padre di lei) di ottenere la restituzione dei beni dotali. Al termine di questo processo il marito appariva più un amministratore dei beni dotali anziché il proprietario di essi ed era tenuto ad una gestione valutata con molta severità: forse già sul finire dell’età classica e sicuramente con Giustiniano, a lui si richiese di prestare una ‘diligenza esattissima’ (diligentia exactior o exactissima), in ragione della quale egli sarebbe stato ritenuto responsabile per dolo e colpa, ma, se dotato di particolare capacità, anche del livello di attenzione che riservava alle cose proprie (diligentiam quam suis)[182].

Quest’obbligo potrebbe derivare direttamente o indirettamente dalla legislazione di Augusto[183], anche se alcuni ritengono che sarebbe stato introdotto dagli Imperatori Settimio Severo ed Antonino Caracalla[184], se non solo da Giustiniano[185].

Base delle diverse ipotesi è un frammento di Marciano:

 

D. 23.2.19, Marcianus 16 Institutionum: Capite trigesimo quinto legis Iuliae qui liberos quos habent in potestate iniuria prohibuerint ducere uxores vel pubere, vel qui dotem dare non volunt ex constitutione divorum Severi et Antonini, per proconsules praesidiesque provinciarum coguntur in matrimonium collocare et dotare. Prohibere autem videtur et qui condicionem non quaerit[186].

 

Secondo il Moriaud[187], la lex Julia avrebbe consentito il ricorso al pretore urbano per costringere il padre ad acconsentire alle nozze e dotare la figlia; successivamente i compiti del pretore furono trasferiti ai proconsoli ed ai governatori delle province dai Severi.

Il brano presuppone la preesistenza di un obbligo a dotare le figlie, per il cui adempimento, forse al tempo dei Severi, si concesse il ricorso ai magistrati delle province. Di tale obbligo vi è traccia in un passo del giurista Celso, il quale menzionava un dovere del padre di dotare la figlia (et quia pater filiae ... dotem dare debet)[188].

Una costituzione di Giustiniano del 531 richiamava, confermandolo, l’obbligo di dotare le figlie:

 

C.I. 5.11.7.2, Imp. Iustinianus a. Ihoanni praefecto praetorio: Neque enim leges incognitae sunt, quibus cautum est omnimodo paternum esse officium dotes vel ante nuptias donationes pro sua dare progenie (a. 531)[189].

 

L’appartenenza della dote è uno dei punti che hanno subíto le maggiori variazioni. In età proto-repubblicana la dote apparteneva al marito sui iuris o al di lui pater.

Per consentire alla moglie di riottenerla, nel caso di scioglimento del matrimonio, occorreva uno specifico contratto (stipulatio), attraverso il quale il marito (o il di lui pater, se in vita) si impegnavano a ridare i beni dotali alla donna: in tal caso la dote si chiamava recepticia, salvo che si trattasse di dos profecticia, la quale, se la moglie fosse morta, mentre era ancora unita in matrimonio, tornava al di lei pater ancora in vita; altrimenti restava nelle mani del marito[190].

Nella famiglia agnatizia, avuta presente dal ius civile vetus, la dote doveva essere necessariamente di proprietà del marito o dell’avente potestà su di lui; numerosi sono i testi dai quali emerge in modo certo la titolarità in capo al marito dei beni dotali[191].

In conseguenza dell’acquisita proprietà, il marito ha il diritto di trasmetterne la proprietà agli eredi[192], ha la possessio sui beni dotali con possibilità di usucapione nel caso il costituente non ne abbia la proprietà[193], la eventualità di manomettere gli schiavi dotali[194]. Inoltre gli schiavi dotali istituiti eredi o gratificati di un legato possono acquistare solo a seguito di iussus del marito e nel suo interesse[195].

In apparente contrasto con questi dati si pongono alcune fonti (e non sono poche) nelle quali si prospetta l’appartenenza della dote alla moglie[196], tanto che un giurista dell’ultimo periodo della giurisprudenza romana riassumeva la situazione con l’affermazione che la dote, pur nel patrimonio del marito, in realtà apparteneva alla moglie:

 

D. 23.3.75, Tryph. 6 Disputationum: Quamvis in bonis mariti dos sit, mulieris tamen est: et merito placuit, ut si fundum inaestimatum dedit cuius nomine duplae stipulatione cautum habuit, isque marito evictus sit, statim eam ex stipulatione agere posse ...[197].

 

L’aporia in realtà riflette le convinzioni che via via si andavano radicando anche nel diritto e riflettevano il dovere del marito di destinare i beni ad esclusivo vantaggio del matrimonio: dovere, peraltro, rimesso alla valutazione del Tribunale domestico e sulla cui osservanza vigilavano i Censori. Con l’affievolirsi della famiglia agnatizia si delineò una nuova disciplina, la quale, attraverso progressive limitazioni dei poteri del marito, lo trasformò più in un amministratore che non nell’effettivo ed incontrollato proprietario, quale era stato in origine.

Il processo conobbe la prima efficace tappa con l’introduzione (avvenuta forse nella seconda metà del 2° sec. d. C.) dell’actio rei uxoriae, l’azione che consentiva alla moglie (o al di lei padre, con il suo consenso) di chiedere la restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio. Già il nome dell’azione alludeva all’appartenenza della dote alla donna.

A quel punto le possibilità che la moglie potesse riottenere la dote, in caso di scioglimento del matrimonio, erano due:

se vi era stata una promessa di restituzione, essa poteva essere richiesta con l’azione nascente dalla promessa (actio ex stipulatu). In tal caso il marito doveva dare tutto ciò che aveva ricevuto, salvo che fossero intervenuti eventi fortuiti o di forza maggiore, i quali avessero causato il perimento di parte o di tutti i beni dotali. Era possibile che nella stipulazione si inserisse una valutazione della dote (aestimatio dotis): in tal caso doveva essere restituito l’intero ammontare della dote, senza tener conto di eventuali perdite, anche se del tutto indipendenti dal marito.

In ogni caso, la restituzione poteva essere chiesta con l’actio rei uxoriae. Questa era nata come azione a protezione della situazione di fatto (actio in factum) e, per intervento dei giureconsulti, si era trasformata in azione di diritto (actio in ius), avente una struttura particolare, la quale l’avvicinava alle azioni di buona fede (iudicia bonae fidei), per il fatto che il giudice doveva attribuire all’attore non necessariamente l’ammontare della dote, bensí quello che a suo giudizio gli sembrava equo che l’istante dovesse conseguire (id quod melius equus erit).

Per questo motivo il giudice consentiva al marito di sottrarre dall’intero ammontare della dote alcune spese sopportate durante il matrimonio. Queste spese dovevano essere motivate ed erano poi liberamente valutate dal giudice. La giurisprudenza semplificò il compito del giudice elaborando una casistica di riferimento, alla quale egli poteva attenersi, la quale (ad esempio) prevedeva la retentio delle spese per il mantenimento e l’educazione dei figli (propter liberos), nei limiti di un sesto per figlio e al massimo fino alla metà della dote, spettante nel caso di matrimonio sciolto per iniziativa del pater familias della moglie o per divorzio imputabile alla moglie. Questo complesso sistema di retentiones fu eliminato da Giustiniano[198].

L’a. rei uxoriae, in caso di morte della moglie, poteva essere esperita dal suo paterfamilias e non era trasmissibile agli eredi, nel caso di dos profecticia. Morto il padre, la dote restava al marito. Nel caso di morte del marito o di divorzio l’azione spettava alla moglie, se sui iuris, o al suo pater, se alieni iuris, con il vincolo di esercitarla solo assieme alla figlia (adiuncta filiae persona)[199]. Se la moglie fosse morta dopo il divorzio l’azione non poteva essere esperita dal pater, né passava agli eredi della uxor. Questo dimostra che il diritto alla restituzione fu considerato un diritto personale della donna.

L’actio rei uxoriae era in ogni caso limitata dal beneficium competentiae, a causa del quale il marito non poteva essere condannato a dare quello che non poteva pagare. Proprio per questo motivo si poteva verificare un paradosso, consistente nel fatto che la donna avrebbe ottenuto massima protezione nei confronti del marito accorto, il quale avesse gestito bene la dote ed il proprio patrimonio, mentre restava priva di tutela nei confronti del marito scialacquatore, il quale avesse dissipato i propri beni ed il patrimonio dotale. Pertanto si avvertí la lacuna di questa normativa ed il bisogno di una forma più incisiva di tutela delle aspettative della moglie; ad essa provvide Augusto con la lex Iulia de fundo dotali, del 18 a. C. (forse un capitolo della lex Iulia de adulteriis). Con tale provvedimento fu introdotto il divieto per il marito di alienare i fondi, senza il consenso della moglie. L’accorgimento era riferito al fondo dotale (dotale praedium) e si discusse se riguardasse tutti i fondi o solamente i fondi italici[200]. Giustiniano eliminò ogni dubbio e rese generale e tassativo il divieto, spingendosi sino a non consentire mai l’alienazione dei fondi; neanche con il consenso della moglie[201].

Ma già la disposizione voluta da Augusto (a tutela dei matrimoni) era stata sconvolgente, in quanto invertí i rapporti tra i coniugi, facendo in modo che da allora in poi il marito, il quale in precedenza era stato l’arbitro assoluto del destino della moglie, ora dipendesse dalla moglie e che alla prima occasione di una dote più cospicua decidesse di divorziare. Inoltre le donne, prima passive, ora, sicure di potere fare affidamento sulla propria dote, cominciarono sempre di più a prendere esse stesse l’iniziativa del divorzio[202], frustrando l’intenzione dell’Imperatore, il quale aveva inteso salvaguardare le doti per rendere più stabili i matrimoni, allo scopo di assicurare la procreazione[203].

Le vicende della dote nel diritto romano sono un esempio della ricerca e di soluzioni proiettate verso l’inserimento sociale dell’uomo nella comunità di appartenenza; la quale finisce per essere l’umanità, con i suoi livelli di organizzazione (famiglia, Repubblica), secondo un ordine non disponibile, della vita e della società umana.

Le vicende della dote nel corso della storia sono state varie.

A fronte delle società che già nell’antichità prevedevano una disciplina inversa, avvertendo che spettasse al marito e alla sua famiglia pagare per ottenere una ragazza in matrimonio, uso ancora presente in alcune società[204], nei contesti influenzati dal diritto romano si è a lungo conservato l’uso di dotare le spose e la dote era presente in quasi tutti i codici contemporanei; particolarmente da quelli derivati (direttamente o indirettamente) dal Code Napoléon e nel mondo islamico, dove, però era conferita dal marito[205]. Oggi è scomparsa o in via di estinzione; ad esempio nel 1975 è stato introdotto nel codice civile italiano il divieto di costituzione della dote, sotto qualsiasi forma:

 

art. 166 bis: È nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote[206].

 

In controtendenza si registra la persistenza dell’obbligo, per le donne e le loro famiglie, di conferire la dote nel continente indiano (principalmente in India, Pakistan, Bangladesh) ed in Iran. Esso è tanto forte da costituire uno dei piú frequenti casi di femminicidio, tollerato persino dai tribunali, i quali spesso derubricano l’uccisione (ad esempio, di una nuora che non abbia dato alla suocera il frigorifero, il televisore o la macchina da cucire promessa) in incidente domestico. Contro siffatti crimini aveva tentato di opporsi già l’Impero britannico, ma invano, perché ieri come oggi sono tra i maggiori casi di violenza contro le donne[207].

Tornando a guardare il cosiddetto Occidente, si può dire che la scomparsa della dote sia frutto della crescente autonomia delle donne e del loro conseguente inserimento nelle società odierne, con possibilità di sviluppo autonomo. Questo ha fatto venir meno la necessità di costituire le doti a donne ormai in grado di provvedere da sé alle necessità proprie e della famiglia.

Ne conseguirebbe, talora, però, una visione di deficitario riguardo alla famiglia ed alla filiazione, acuta nei momenti, non infrequenti di grave crisi economica e di mancanza di lavoro; aggravati dall’accentramento quasi esponenziale della ricchezza in mano di sempre piú pochi.

Oggi, mi pare non ci si preoccupi adeguatamente di mettere le persone in condizione di sposarsi e si assiste al tracollo delle nascite ad al progressivo invecchiamento delle popolazioni. Si favorisce (quando si favorisce ...) l’inserimento nel mondo del lavoro (il quale, per i più, è la fonte del sostentamento), ma manca una efficace politica diretta in modo specifico a porre a disposizione dei nubendi quanto necessario affinché addivengano al matrimonio e per incentivare la procreazione: con qualche eccezione, come quella della Polonia[208]. Per lo piú si affida l’aiuto alla famiglia alle politiche sociali in relazione al lavoro. In tal senso si orientano diversi provvedimenti miranti a facilitare (tramite appositi congedi) l’assenza retribuita dal lavoro dei genitori allo scopo di allevare la prole. In questa direzione si muove la direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all'equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Anche da questa ottica parte, in Italia, il Decreto Legislativo n. 105, del 30 giugno 2022, il quale si inserisce nel cosiddetto Family Act (Legge 32/2022) contenente misure di sostegno all’educazione dei figli, tra cui contributi alle famiglie per la copertura (anche totale) del costo delle rette per la frequenza dei servizi educativi per l’infanzia e degli asili, rimborsi sull'acquisto dei libri e per le attività sportive-culturali. Maggiore singolarità e incidenza poi mira ad avere l’Assegno Unico Universale, introdotto, già nel 2021 ed entrato in vigore a Marzo 2022, con il Decreto Legislativo 230/2021. In esso si prevede direttamente un sostegno alle famiglie per ogni figlio/a minorenne a carico, ogni figlio/a disabile senza limiti di età, per figlie/i fino ai 21 anni di età in condizioni specifiche (es. in caso di disoccupazione registrata o partecipazione a un corso di formazione). Degna di nota la garanzia a tutte le famiglie, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori, ed è definito sulla base di soglie ISEE (che, a dir il vero, sono piuttosto basse e sfavoriscono le famiglie con lavoro dipendente)[209].

Oggi, peraltro, vi sono nuovi possibili scenari, con i quali sempre più velocemente siamo chiamati a confrontarci: occorrerà fare i conti con l’invadente, ma anche irrefrenabile, avanzamento delle IA (Intelligenze Artificiali), che, come è stato scritto, rendono inutili ‘le persone’ e desueta l’istituzione della Famiglia[210]. Ma su ciò occorrerà un discorso a parte.

 

 

Abstract

 

No se puede entender la familia sin conocer su historia y su evolución conceptual y social a lo largo de la historia. A partir de la era probable del matriarcado y matrimonios grupales. Un momento central fue la experiencia romana con sus edificios familiares; que tenía múltiples significados y estaba íntimamente relacionado con visiones del cosmos y la naturaleza. Además, siempre estuvo en función del crecimiento del pequeño grupo, llamado familia, y de toda la comunidad, dentro de Civitas.Tanto el noviazgo como el matrimonio dependían de esta visión, para la cual se consideraba fundamental la constitución de la dote. La historia de la familia hasta ahora también ha dejado su huella en la familia contemporánea. Lo que no excluye la posibilidad de que se puedan concebir nuevas formas de entender y organizar la familia. Es importante conocer su evolución histórica para comprender las normas jurídicas relativas.

 

Non si comprende la famiglia senza conoscerne la storia e la sua evoluzione concettuale e sociale nella storia. A partire dalla probabile epoca del matriarcato e delle unioni di gruppo. Per essa un momento centrale fu l’esperienza romana con le sue costruzioni di familia; la quale aveva significati molteplici ed era strettamente collegata alle visioni del cosmo e della natura. Inoltre era sempre in funzione dell’accrescimento del gruppo ristretto, detto famiglia, e dell’intera comunità, all’interno della Civitas. Dipesero da questa visione sia il fidanzamento sia il matrimonio, per il quale fu ritenuta essenziale la costituzione della dote. La storia della familia ha finora dato anche l’impronta alla famiglia contemporanea. Il che non esclude che ci possano concepire nuovi modi di intendere e organizzare la famiglia. È importante conoscere la sua evoluzione storica al fine di comprendere le relative norme giuridiche.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

* Questo articolo riprende, ampliando e integrando testo e note, il mio intervento alla Annual Polish-Spanish Conference On The European Legal Tradition - Family, law and society: From Roman Law to the present day, Barcellona 21 Aprile 2023.

[1] V. M. CASOLA, Man, Family and Society: From the Experience of Ancient Roma up to Nowadays, in Quaderni del dipartimento jonico - Pace e sviluppo nell’epoca moderna. Il modello costaricense 12, 2019, 173 ss. Al sito https://edizionidjsge.uniba.it/i-quaderni .

[2] Parto dall’ottica e dalle considerazioni da me espresse in Riflessioni su familia e societas humana, in Filia. Scritti per Gennaro Franciosi IV [cur. F.M. D’IPPOLITO], Napoli 2007, 2537.

[3] Per una visione chiara ed incisiva della letteratura concernente la ‘famiglia’ rinvio alla penetrante e lucida disamina magistralmente condotta da C. RINOLFI, Famiglia e persone, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 1, Maggio 2002, on line al sito: https://www.dirittoestoria.it/strumenti/rassegne/II)%20Famiglia%20e%20persone.htm .

[4] Utilizzo l’espressione in un senso molto lato e approssimativo, con riferimento, come indicato nell’Enciclopedia Treccani, all’idea che tutte le popolazioni e le società umane fossero partite da una condizione originaria comune e che alcune di esse fossero rimaste ‘primitive’, ovvero non progredite in misura significativa rispetto a tale punto di partenza comune. Invero il termine ‘primitivo’, derivato dal latino primitivus, significa ‘primo in ordine di tempo’. In questa accezione è usato in varie lingue europee per indicare la forma originaria o più antica di un’istituzione (ad esempio, ‘la Chiesa primitiva’, nel senso di Chiesa paleocristiana), oppure per descrivere una condizione attuale che ricorda la forma antica: v. A. KUPER - Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, 1998.

[5] Su di esso e su quanto tratto in questo elaborato seguo, ancorché non lo richiami espressamente, G. FRANCIOSI, Famiglia e persone in Roma Antica Dall’età arcaica al Principato, Giappichelli, Torino 1989; nonché, dello stesso Autore, Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, 4a ed., Jovene, Napoli 1989; Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana, 2a ed., Jovene, Napoli 1988. Rinvio, anche, ad alcuni miei precedenti lavori: S. TAFARO, Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in [cur. F. LEMPA - S. TAFARO] Rodizna i spoleczenstwo wczoraj i dzis. Atti del Convegno svoltosi a Bialystok nel novembre del 2004 sulla Famiglia, Temida2 (Poland), Bialystok 2006; Riflessioni su familia e societas humana, cit., 2537-2561; Persona e familia, in Diffusione e sviluppo del sistema del Diritto romano e il Diritto Cinese, Law press China, 2015, 218-240, traduzione di Lou Aihua.

[6] L. MORGAN, La società antica. Le linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà, tr. Casiccia e Trevisan, Feltrinelli, Milano 1974. Come è noto, i risultati delle indagini del Morgan furono divulgati da F. ENGELS, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. In rapporto alle indagini di Lewis H. Morgan, Rinascita, Roma 1955.

[7] Cfr. anche C. RINOLFI, Famiglia e persone, cit.

[8] Non ritengo di dovermi soffermare sull’attenzione dedicata alle tesi di Morgan ed in particolare alla famiglia di gruppo, con specifica attenzione alla famiglia punalua delle Hawai e alla famiglia pirrauru dell’Australia, da successivi pensatori, quali H. Spencer, C. Marx, F. Engels ed altri: v. alla voce Famiglia dell’Enciclopedia Treccani, Roma 1932.

[9] Di essa parlava Erodoto con riferimento ai Licii, ai Massageti, agli Agatirsi, ai Nasomoni, ai Macli. Inoltre vi è un riferimento agli Etruschi, Sanniti e Messapi in Teopompo (Fragm. 222). Ne parlavano anche Cesare, con riguardo ai Britanni (De bello Gallico 5.14: Uxores habent deni duodenique inter se communes et maxime fratres cum fratribus parentesque cum liberis. Sed si qui sunt ex iis nati, eorum habentur liberi, quo primum virgo quaeque deducta est. Tr.: Hanno mogli in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, soprattutto fratelli con fratelli e genitori con figli; se nascono dei bambini, sono considerati figli dell'uomo che per primo si è unito alla donna), e Tacito relativamente ai Sarmati, Peuceti, Venedi e Finni (Germania 46: Peucinorum Venedorumque et Fennorum nationes Germanis an Sarmatis adscribam dubito, quamquam Peucini, quos quidam Bastarnas vocant, sermone, cultu, sede ac domiciliis ut Germani agunt. Sordes omnium ac torpor procerum; conubiis mixtis nonnihil in Sarmatarum habitum foedantur … Fennis mira feritas, foeda paupertas: non arma, non equi, non penates; victui herba, vestitui pelles, cubile humus. Tr.: I Peucini, i Veneti e i Fenni non so se comprenderli fra i Germani o i Sarmati. Per la verità i Peucini, che alcuni chiamano Bastarni, hanno lingua, modi di vita, abitazioni fisse come i Germani. Sudiciume in tutti, indolenza nei capi. Causa i matrimoni misti, hanno peggiorato alquanto i lineamenti, prendendo fattezze da Sarmati …. Sorprendentemente selvaggi ed estremamente poveri i Fenni: non hanno armi, cavalli, vita familiare …): sul punto FRANCIOSI, Famiglia e persone, cit., 19.

[10] V. Riflessioni su familia, cit., nt. 22. Sul rapporto tra gens e familia v. anche C. CASTELLO, Studi sul diritto familiare e gentilizio romano, Giuffrè, Milano 1942.

[11] Cfr. supra nt. 7.

[12] Germania 46, cit.: Idemque venatus viros pariter ac feminas alit; passim enim comitantur partemque praedae petunt. (Tr.: Vivono di caccia tanto gli uomini che le donne; queste li accompagnano ovunque e pretendono la loro parte della preda).

[13] FRANCIOSI, Familia, cit., 20.

[14] Il pensiero dell’Autore si trova articolato in diversi scritti, a partire dal 1861: J. BACHOFEN, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur; Urreligion und antike Symbole (3 Bde., 1926) e Mutterrecht und Urreligion (1927). V. anche C. RINOLFI, Famiglia e persone, cit.

[15] Cfr. C. RINOLFI, Famiglia e persone, cit.

[16] V. AA. VARI, Storia delle donne. L’Antichità [a cura di P. SHMITT PANTEL], Laterza, Bari 1990, 40 ss., dove viene esaminata la risposta all’interrogativo, lí stesso posto: «Dio la Madre?».

[17] Cfr. G. FILORAMO, Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, 286 s.

[18] V. Enc. Treccani, cit., v. Grande Madre «La grande dea di Pessinunte (gr. Μεγάλη Μήτηρ), il cui simulacro fu portato a Roma nel 204 a.C.».

[19] Cfr. FILORAMO, Storia, cit., 351, 368, 404, 419, 420 s.

[20] Divinità romana, venerata come protettrice delle donne, e specialmente delle partorienti. Poiché il nome della dea non può separarsi dall'appellativo di pater matutinus, dato a Giano (v.), come dio del principio del giorno, la Mater Matuta fu certo, in origine, come divinità parallela a Giano mattutino, una dea dell'aurora. Il suo passaggio da questo primo significato a quello di divinità protettrice del parto è fenomeno frequente alla religione romana antica e dovuto al parallelismo che i Romani vedevano fra la nascita degli uomini e il sorgere della luce dalle tenebre (si confronti Giunone Lucina). Il suo culto fu diffuso in tutta l'Italia centrale, in territorio latino, umbro ed osco; e fu accolto probabilmente anche in Etruria: dappertutto vi attendevano donne, in certi luoghi con carattere di vere sacerdotesse. A Roma si celebrava in suo onore la festa delle Matralia (11 giugno): vi partecipavano soltanto quelle matrone che avessero avuto un solo marito; per ricordare, ogni anno, l'esclusione delle donne non libere, s'introduceva nella cerimonia una schiava, che veniva cacciata a frustate. L'offerta rituale era costituita da focacce cotte in vasi di terra: v. G. WISSOWA, in ROSCHER, Lexicon der griech. und röm. Mythologie, II, col. 2462 ss.; ID., Religion und Kultus der Römer, 2a ed., Monaco 1912, 110 ss.; S.B. PLATNER, A topogr. Diction. of ancient Rome, Oxford 1929, 330.

[21] V. M. FIORENTINI, Ricerche sui culti gentilizi, La Sapienza, Roma 1988, 244 ss.

[22] Su di essa l’Enc. Treccani (v. Dea Bona) dice: «Bona Dea, che ha un significato generale di Grande Madre, si venerava un'antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato». Ne parlava Plutarco (Quaest. Rom. 20). Macrobio attesta l’origine greca (Macrob., Saturnalia 1.12.27). Dovrebbe ravvisarsi nella Dea Famia (v. in L. BIONDETTI, Dizionario di mitologia classica, Baldini&Castoldi, Milano 1997), che sarebbe penetrata in Roma da Taranto, a seguito della conquista di questa città. Secondo altra versione sarebbe Faunia moglie del pastore Faunus. Il suo culto era riservato alle sole donne. È nota la disputa tra Cesare e Clodio, accusato di essersi introdotto in vesti femminili alle celebrazioni della Dea, per insidiare Pompea (moglie di Cesare) che fu ripudiata dal marito, pur se forse senza colpa, perché deve essere senza neppure ombra di qualsiasi sospetto: “Mulier Caesaris non fit suspecta etiam suspicione vacare debet”, da cui il famoso detto “La moglie di Cesare deve essere al di sopra perfino del sospetto”.

[23] Cfr. J. CHAMPEAUX, La religione dei romani [cur. N. SALOMON Traduzione G. Zattoni Nesi], Il Mulino, Bologna 2002; V. DINI, Il potere delle antiche madri, Pontecorboli, Firenze 1995; L. RANGONI, La grande madre. Il culto del femminile nella storia, Xenia, Milano 2005.

[24] Cfr. N.H. ROTHSCHILD, Emperor Wu Zhao and Her Pantheon of Devis, Divinities, and Dynastic Mothers, Columbia University Press, 2015. Metà donna ma con la coda di drago un giorno, scivolando lungo il Fiume Giallo ed abbassando il capo, vide la propria bella immagine riflessa nell’acqua. Molto felice, decise allora di modellare figurine con l’argilla del letto del fiume a secondo il proprio aspetto. Ingegnosa e abile, portò ben presto a termine la modellazione di molte figurine quasi simili a lei, sostituendo tuttavia due gambe alla coda di drago. Quindi soffiò su di loro, infondendovi la vita. Di conseguenza le figurine cominciarono a muoversi, diventando essere intelligenti e agili capaci di camminare e parlare. Nüwa li chiamò “uomini”, poi infuse nel corpo di alcuni l’energia Yang, l’elemento maschile attivo, per cui questi diventarono maschi, e nel corpo di altri l’energia Ying, l’elemento femminile dolce, rendendoli femmine. Maschi e femmine si misero a saltellare e a chiamarsi attorno a Nüwa, dando cosí vita alla terra.

[25] Conosciuta anche come Mahadevi, è una delle divinità più importanti e complesse della religione induista. Rappresenta la forza vitale che dà vita all’universo ed è conosciuta come la creatrice della vita e madre universale. Il ruolo di questa dea nella religione induista è molto ampio e complesso, poiché la sua figura incarna diverse qualità e aspetti dell’universo. Cfr. AA. VARI, Storia delle donne. L’Antichità, cit., 41 s. Va tenuto presente che specialmente tra induismo e mondo ellenico-romano idee e culti si sono spesso influenzati: cfr. FILORAMO, op. cit.

[26] Così RINOLFI, Famiglia e persone, cit.

[27] Cioè la curiosa costumanza per cui la donna, immediatamente dopo lo sgravo lascia il letto al marito, il quale, prendendo la cura del neonato e, talvolta, simulando le doglie del parto, riceve le felicitazioni degli amici e dei vicini: v. la relativa voce nell’Enciclopedia Treccani, a cura di R. CORSO.

[28] Svet., Caesar 22: … ac negante quodam per contumeliam facile hoc ulli feminae fore, responderet, quasi adludens, in Syria quoque regnasse Semiramin, magnamque Asiae partem Amazonas tenuisse quondam (Tr.: … e quando un tale – cioè un senatore -, per offenderlo, gli disse che ciò non sarebbe stato possibile a nessuna donna, assecondando lo scherzo, replicò che anche Semiramide aveva regnato in Siria e che le Amazzoni avevano dominato su gran parte dell'Asia). Va precisato che l’accusa era riferita ai rapporti omosessuali avuti da Cesare con Nicomede, re di Bitinia (Svet., Caesar 2), per i quali fu deriso come “Re di Bitinia”. Essi gli procurarono una cattiva fama, al punto che Curione (padre) ripreso poi da Cicerone, lo definí: “marito di tutte le mogli e moglie di tutti i mariti” (Svet. 52).

[29] Cosí FRANCIOSI, loc. cit.

[30] D. 41.1.3.pr., Gaius libro secundo rerum cottidianarum sive aereorum: Quod enim nullius est, id ratione naturali occupanti conceditur. Cfr. G. LOMBARDI, Libertà di caccia e proprietà privata in diritto romano, in BIDR 53-54, 1948, 273-344; R. CARDILLI, Fondamento romano dei diritti odierni, Giappichelli, Torino 2021, 103 s. L’A., avvalendosi anche della testimonianza di Paul. D. 41.1.2.1, dà conto delle conseguenze del passaggio dall’economia del consumo a quella dell’accumulo, prefigurato dallo stesso Gaio, in Inst. 2.18-65, dove il giurista antoniniano parlava delle cose frutto di accumulo e suscettive di dominium ex iure civili.

[31] FRANCIOSI, op. cit., 21.

[32] A. SCHIAVONE, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2005, part. 315.

[33] Gli aspetti salienti di siffatta trasformazione, ancora una volta, sono stati lucidamente evidenziati dal Franciosi, riguardo alla familia romana: v. FRANCIOSI, op. cit., 21 s.

[34] Cfr. M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè, Milano 1990, partic. 152; F. AMARELLI – L. DE GIOVANNI – P. GARBARINO – V. MAROTTA – A. SCHIAVONE – U. VINCENTI, Storia del diritto romano e linee di diritto privato, Giappichelli, Torino 2000, part. 14; AA. VARI, Dizionario giuridico romano [Introduzione. A. GUARINO; Presentazione S. DI SALVO], Simone, Napoli 2003, v. gens, 221; L. FASCIONE, Storia del diritto privato romano, Giappichelli, Torino 2006, 97.

[35] V. FRANCIOSI, loc. cit.: «Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana. Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia. Ma la famiglia di coppia che vive all’ombra del più vasto ordinamento comunitario gentilizio è cosa diversa dalla forte famiglia patriarcale, che si afferma successivamente emergendo all’interno e in certo senso contro l’ordinamento comunitario della gens. L’affermarsi a livello istituzionale della famiglia patriarcale presuppone la definitiva privatizzazione dei mezzi di produzione e l’utilizzazione in chiave privata degli stessi organismi e delle istituzioni già comunitarie. I capi di grandi famiglie patriarcali alla testa di gruppi clanico-gentilizi non stanno a indicare una identità di struttura tra i due organismi, ma solo l’utilizzazione delle istituzioni gentilizie da parte di potenti famiglie sorte nel seno stesso della gens, ciò che dà luogo a una seconda fase dell’organizzazione gentilizia, la fase aristocratico-patrizia rispetto al precedente assetto comunitario di questo organismo … La storia più antica di Roma è storia di gentes; solo più tardi, dallo scorcio del quarto secolo in poi, essa diverrà storia delle grandi famiglie. … La gens è una formazione naturale antichissima, che nasce dal frazionamento di ampi organismi primitivi (tribù, orda) in più unità esogamiche attraverso la pratica del matrimonio collettivo tra serie di fratelli e serie di sorelle. Sono argomenti che valgono anche a respingere la cosiddetta teoria patriarcale, che vede nella famiglia il nucleo primordiale del genere umano e nella gens un prodotto successivo, dovuto all’allargamento della famiglia o alla fusione tra più famiglie».

[36] Cosí G. FRANCIOSI, op. cit., 25.

[37] Festo, pur scrivendo nel 2° sec. d. C. ci dà testimonianza dell’età arcaica perché si avvalse dell’opera di Verrio Flacco, vissuto nell’ultimo secolo della Repubblica, il quale aveva conosciuto le antiche testimonianze contenute nei libri pontificali e presenti nei libri (che egli lesse) sul diritto pontificale del suo contemporaneo Antistio Labeone; perciò nel De verborum significatu di Festo sono presenti notizie e nozioni risalenti alle età più antiche dell’esperienza romana: cfr., S. TAFARO, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, Cacucci, Bari 1988, 28 s. ed ivi ntt. 15-16 e cap. II.

[38] La circostanza che familia al suo apparire doveva indicare “l’insieme degli schiavi appartenenti al gruppo” è evidenziata da: FRANCIOSI, op. cit., 25.

[39] (Tr.: voce famuli. L’origine di famuli deriva dagli Osci, presso i quali il servo era detto famel, di lí deriva il termine familia).

[40] In ciò si riscontra una convergenza della concezione greca della famiglia, indicata in antico come οκία, termine significante sia la casa sia la famiglia: v. al sito https://www.oikia.biz/noi-la-storia/#:~:text=Oikia%20sostantivo%20femminile.,degli%20affetti%20e%20dei%20sentimenti .

[41] Il legame indissolubile con la ‘casa’ è evidenziato dagli autori classici, come, ad esempio, Columella, De re rustica 12: ... apud Romanos usque in patrum nostrorum memoriam ... nihil conspiciebatur in domo dividuum. (Tr.: presso i Romani, come ricordavano ancora i nostri padri ... non si vedeva nulla che fosse diviso nella casa). Sul legame tra familia e ‘casa’ cfr., tra i tanti, A. STROBEL, Der Begriff des Hauses im griechischen und römischen Privatrecht, in ZSS 56, 1965, 91-99 [Zeitschr. Neutest. Wissensch. 56, 1965, 91-99]; R.P. SALLER, 'Familia', 'domus' and the Roman Conception of the Family, in Phoenix 38, 1984.

[42] Ne conseguiva che le donne non potevano avere sottoposti, di modo che pur quando ne venne riconosciuta l’autonomia non avevano altro che se stesse nella propria famiglia, come sottolineava Ulpiano: Ulp. D. 50.16.195.5: Mulier autem familiae suae et caput et finis est. Cfr., in proposito, G. HEYSE, Mulier non debet abire nuda. Das Erbrecht und die Versorgung der Witwe in Rom [Europäische Hochschulschriften, Reihe II, Rechtswissenschaft, Bd. 1541], Lang, Frankfurt 1994; cfr. V. CALDERAI – C. FAVILLI, Genere, riproduzione, filiazione, Esi, Napoli 2011; L. PEPPE, Civis Romana. Forme giuridiche e modelli sociali dell'appartenenza e dell'identità femminili in Roma antica, Grifo (Cavallino), Lecce 2016; V. MAROTTA, Cittadinanza e condizione giuridica delle donne in Roma repubblicana e imperiale. (A proposito di Leo Peppe, Civis Romana), in Diritto @ Storia 15, 2017 < https://www.dirittoestoria.it/15/tradizione/Marotta_Cittadinanza-condizione-giuridica-donne-Roma.htm >.

[43] Ulp. D. 50.16.195.pr.: Pronuntiatio sermonis in sexu masculino ad utrumque sexum plerumque porrigitur. Cfr. H. KAUFMANN, Die altrömische Miete. Ihre Zusammenhänge mit Gesellschaft, Wirtschaft und staatlicher Vermögensverwaltung [Forschungen zum römischen Recht, Abh. 18], Böhlau, Köln-Graz 1964.

[44] V. quanto ho osservato in Riflessioni su familia e societas humana, cit., 2541.

[45] V. CARDILLI, Fondamento, cit., partic. 251 ss., cui rinvio per le citazioni della pregressa dottrina: in particolare riguardo alla tesi del fondamento ‘politico’, del Bonfante, e del fondamento economico, dell’Arangio-Ruiz (v. ivi nt. 3).

[46] Tr.: Vediamo in che modo (s’intende nella rubrica edittale) sia usato il termine ‘familia’. In verità esso ha assunto diversi significati: infatti viene adoperato sia riguardo ai beni sia riguardo alle persone. Riferito ai beni come, ad esempio, nella legge delle XII tavole con queste parole “l’agnato prossimo avrà la familia”. Riguarda invece le persone il significato di familia quando la legge in merito ai rapporti tra patrono e liberto dice “da quella familia” o “in quella familia”: e qui risulta che la legge parla delle persone singole. È appena il caso di osservare che il tentativo di sistemare la ‘materia’ trattata servendosi di partizioni in grado di consentire classificazioni e distinzioni era propria di una tecnica argomentativa penetrata nel pensiero giuridico romano attraverso le tecniche della dialettica greca, che ebbero grande diffusione nel mondo romano: basti citare la significativa summa divisio del diritto prospettata da Gaio, all’inizio dei suoi commentarî: Gai. 1.8: Omne ius quo utimur, vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones; sul punto v. R. QUADRATO, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio, Jovene, 5a ed., Napoli 1979, ivi ntt. 19-20; in via più generale sull’introduzione ed il ricorso alle tecniche incentrate sulla diairesis v. M. BRETONE, Storia del diritto romano, Laterza, Bari 1987, 184 ss. Cfr. anche M. TALAMANCA, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in Colloquio Italo-Francese La filosofia greca e il diritto romano (Roma, 14-17 aprile 1973), t. II, Quaderno dell’Accademia nazionale dei Lincei N. 221, 1977, 3 ss. L’A., osserva: «le tecniche divisorie, di cui lo schema genus-species rappresenta – si può dire – il paradigma, costituiscono il momento portante di tutta l’attività sistematica – per usare di questa terminologia – dei giuristi romani».

[47] Il CARDILLI, loc. cit., ha evidenziato che: «Non è tanto, o solamente, un legame di natura affettiva, cui sottendono vincoli di sangue, ma viene vista come un organismo più complesso. Questo organismo si presenta indipendentemente dal vincolo di sangue o di parentela, ed è piuttosto assimilabile al prototipo dello Stato. La famiglia, con il suo svolgimento naturale nella gens, è dunque anzitutto una società politica organizzata, posta sotto la protezione degli Dei familiari. Inoltre, è fonte del diritto privato e pubblico che si svolge intorno ad essa. In seno a questo organismo autonomo, avente carattere civile, religioso e politico, assume importanza fondamentale la figura del padre di famiglia (il pater familias): colui al quale è affidato il compito di riflettere la volontà della famiglia stessa. Il pater familias è il supremo giudice ed il supremo sacerdote del culto familiare. Presiede la gestione del patrimonio ed ha un potere assoluto sugli altri componenti del nucleo».

[48] § 2: Familiae appellatio refertur et ad corporis cuiusdam significationem, quod aut iure proprio ipsorum aut communi universae cognationis continetur. Iure proprio familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut natura aut iure subiectae, ut puta patrem familias, matrem familias, filium familias, filiam familias quique deinceps vicem eorum sequuntur, ut puta nepotes et neptes et deinceps. Pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat: non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus: denique et pupillum patrem familias appellamus. Et cum pater familias moritur, quotquot capita ei subiecta fuerint, singulas familias incipiunt habere: singuli enim patrum familiarum nomen subeunt. Idemque eveniet et in eo qui emancipatus est: nam et hic sui iuris effectus propriam familiam habet. Communi iure familiam dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias mortuo singuli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt. (Tr.: Il termine familia indica anche un organismo, formato o in base al diritto proprio dei componenti o in base ad una comune consanguineità. Diciamo familia di proprio diritto più persone che si trovano sotto la potestà di uno solo o per natura o per sottoposizione giuridica, come il padre di famiglia, la madre di famiglia, il figlio di famiglia, la figlia di famiglia e coloro che hanno una condizione pari alla loro; cosí pure il nipote e le nipoti con coloro che hanno una condizione pari alla loro. Va precisato che si chiama padre di famiglia chi abbia il dominio nella casa e viene chiamato correttamente cosí anche se non abbia nessun figlio: infatti non guardiamo alla persona ma alla sua condizione giuridica: perciò chiamiamo padre di famiglia anche il pupillo. Quando, poi, il padre di famiglia muore coloro che erano soggetti a lui cominciano ad avere famiglie proprie: infatti i singoli assumono il nome di padri di famiglia. Lo stesso avviene riguardo all’emancipato: infatti anche lui ha una sua famiglia quando diventi di proprio diritto. Indichiamo come familia di diritto comune quella di tutti gli agnati: infatti sebbene alla morte del padre i singoli hanno una propria familia, tuttavia tutti coloro che furono sotto la potestà di un’unica persona correttamente vengono indicati come appartenenti alla stessa familia, essendo stati messi al mondo dalla stessa casa e dalla stessa gens).

§ 3: Servitutium quoque solemus appellare familias, ut in edicto praetoris ostendimus sub titulo de furtis, ubi praetor loquitur de familia publicanorum. sed ibi non omnes servi, sed corpus quoddam servorum demonstratur huius rei causa paratum, hoc est vectigalis causa. Alia autem parte edicti omnes servi continentur: ut de hominibus coactis et vi bonorum raptorum, item redhibitoria, si deterior res reddatur emptoris opera aut familiae eius, et interdicto unde vi familiae appellatio omnes servos comprehendit. Sed et filii continentur. (Tr.: Usiamo chiamare familia anche la servitù (gli schiavi), come abbiamo mostrato nel commento alla rubrica dell’editto pretorio nel titolo concernente i furti, dove il pretore parla della familia dei pubblicani. Ma lí non si indicano tutti i servi ma solo un gruppo (corpo particolare) di servi predisposti a quella particolare condizione, cioè alla causa del vectigal. In altra parte dell’editto invece si fa riferimento a tutti i servi: cosí quando si parla degli uomini raggruppati e della rapina. Cosí pure nell’azione redibitoria, se viene restituita cosa deteriorata per mano del compratore o della sua familia, e nell’interdetto unde vi la menzione di familia comprende tutti i servi. Inoltre sono compresi anche i figli).

§ 4: Item appellatur familia plurium personarum, quae ab eiusdem ultimi genitoris sanguine proficiscuntur (sicuti dicimus familiam Iiuliam), quasi a fonte quodam memoriae. (Tr.: Inoltre è chiamata familia quella di più persone provenienti dal sangue di uno stesso ascendente (come quando parliamo della famiglia Giulia), come se scaturissero da una data fonte della memoria).

[49] L’identificazione di familia con il patrimonio può essere desunta da Gai. 2. 102: Qui neque calatis comitiis neque in procinctu testamentum fecerat, is si subita morte urguebatur, amico familiam sua, id est patrimonium suum, mancipio dabat, eumque rogabat quid cuique post mortem suam dari vellet.

[50] Il significato di corpus, assunto dalla realtà biologica, è molto pregnante ed indica le organizzazioni riconosciute dal diritto per il fatto che si presentavano come un soggetto unico nel quale venivano assorbite le individualità, anche se occorrerebbe una riflessione molto analitica per comprendere tutte le implicazioni degli accostamenti di familia a corpus ed alle entità dei collegi, della curia, del popolo, oggetto di vivaci contrasti tra gli studiosi contemporanei; nello specifico, rinvio alle perspicaci e persuasive osservazioni contenute in P. CATALANO, Diritto e persone – studi su origine e attualità del sistema romano I, Giappichelli, Torino 1990, partic. 173 ss.

[51] V. anche la traduzione alla prec. nt. 47.

[52] Per alcuni aspetti, soprattutto per le fasi legate alla nascita ed all’infanzia v. G. PUGLIESE, Il ciclo della vita individuale nell'esperienza giuridica romana, in Atti dei Convegni Lincei 61, 1984 - Colloquio: Il diritto e la vita materiale (Roma, 22-23 novembre 1982), 55 ss.; S. TAFARO, Pubes e viripotens, cit., 19 ss.

[53] Sui punti qui richiamati rinvio a quanto ho osservato in altro scritto: S. TAFARO, La responsabilité de l’enfant dans le droit romain, in Enfant et romanité. Analyse comparée de la condition de l’enfant, Paris 2007, § 1, 119-133 e a Pubes e viripotens, cit., partic. cap. I.

[54] Rinvio alla suggestiva enunciazione fattane da Lucrezio: De rerum natura II, vv. 1105-1174.

[55] V. S. TAFARO, Pubes, cit., 107 s. ed ivi nt. 15.

[56] Ritengo che la familia, rispetto alla struttura politica (prima gens poi Civitas), fosse preesistente ed era indispensabile per i singoli, poiché era conseguente alla loro naturale prima forma di aggregazione. Mi faccio carico della soggettività di questa mia affermazione, avvertendo che la preesistenza della famiglia, rispetto soprattutto alla gens, è discussa: v., da ultimo, G. Franciosi, Preesistenza della ‘gens’ e ‘nomen gentilicium’, in AA. VARI, Ricerche sull’organizzazione gentilizia romana, cur. G. FRANCIOSI, 1, Napoli 1984, 3 ss.; ID., Famiglia e persone in Roma antica, cit., 22: «Che la gens abbia preceduto la famiglia si desume da vari aspetti della società romana». A me pare che, se si considerino a fondo le implicazioni delle fonti e del passo festino ricordato, dove l’esposizione dei sacra privata sembra seguire un ordine cronologico di realizzazione storica dei sacra stessi, la preesistenza della famiglia non sia contestabile. Bisogna però intendersi su cosa si voglia ritenere essere la ‘famiglia’. Lo stesso autore riconosce che «Occorre però chiarire che quando si parla di anteriorità della gens alla famiglia non si intende negare la possibile formazione, anche precoce, nell’ambito della comunità gentilizia, di singole famiglie di coppia». Ma che sono le ‘famiglie di coppia’, se non la ‘famiglia’, cosí come noi oggi la concepiamo? Vero è che il Franciosi, rivisitando precedenti posizioni, riferisce il significato di famiglia alla grande famiglia, che egli sostiene essere stata ‘patriarcale’, la quale era un organismo politico strutturato e, perciò, mi sembra più conseguenza che non antecedente della ‘famiglia’: direi, infatti, che la famiglia intesa come gruppo ristretto assato sull’intimità di due persone sia cosa diversa, dall’organizzazione di gruppi più ampi che si riconoscevano in un capo per fini politici, economici e sociali, vale a dire per difendersi dai nemici esterni e per meglio realizzare conquiste avere ‘peso’ nel proprio tempo e sul territorio. Sono convinto che sia più aderente alla società antica l’ipotesi della preesistenza della ‘famiglia’ rispetto alla gens, sulla quale v. F. SERRAO, Diritto privato, cit., 72.

[57] FRANCIOSI, Clan gentilizio, cit., 47 e già F.P. CASAVOLA, Studi sulle azioni popolari. Le actiones populares’, Jovene, Napoli 1957, 15 s.; per il quale «l’antica dicotomia tra … sacra publica … e sacra privata è innovata da Labeone con l’introduzione del tertium genus dei sacra popularia. … pubblico è dello Stato, privato è della famiglia, popolare è del singulus homo, dell’individuo».

[58] V. anche Festi, L. 298, su popularia sacra. V. M. FIORENTINI, Ricerche sui culti gentilizi, cit., partic. 106 s., 251, 293, 355 s.

[59] Questo significato restò fermo almeno sino alla fine del Principato: v. P. CATALANO, Diritto e persone, cit.

[60] La famiglia aveva un proprio culto, assato intorno ai Lari (anima di un antenato defunto protettrice della casa) ed al Genio (Dio della genealogia domestica): v. F. DUPONT, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, cit.

[61] Sul punto, cfr. G. FILORAMO [a cura di], Storia delle religioni. 1. Le religioni antiche, Laterza, Bari 1994, 377 s.

[62] V. sopra nt. 14.

[63] V. G. FILORAMO, Storia delle religioni, cit., 376: «Gli individui (singuli homines) esprimono le loro possibilità religiose nel culto privato quotidiano (i Lari e i Penati ricevono piccole parti del pasto), come pure nel culto dei morti in cui si commemoravano i membri della famiglia, e nelle feste in cui si celebra il ciclo della vita. Le nozze e la nascita possono venir celebrate con offerte e purificazioni all’interno della famiglia. Nel giorno del compleanno il pater familias festeggia il proprio “genio” con l’offerta di vino e di incenso. I culti che si ereditano impongono obblighi particolari».

[64] M. BRETONE, Storia, cit., 38 s., dove viene ricordato che la suggestiva ed efficace immagine dei ‘cerchi concentrici’ per la visione romana della società proviene da M. POHLENZ, Antikes Führertum. Cicero de officiis und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig-Berlin 1934, 37 = L’ideale della vita attiva secondo Panezio nel de officiis di Cicerone, Brescia 1970, 66.

[65] Si tratta dell’opera, val la pena ricordarlo, definita “il manuale della classe dirigente romana”: s. MAZZARINO, L’Impero romano, 1, Roma-Bari 1984, 27; cfr. M. BRETONE, Storia, cit., 38.

[66] Cic., De off. 1.17.53-54: Gradus autem plures sunt societatis hominum. Ut enim ab illa infinita discedatur, proprior est eiusdem gentis, nationis, linguae qua maxime homines coniunguntur; interius etiam est eiusdem esse civitatis: multa enim sunt civibus inter se communia, forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudines praeterea et familiaritates multisque cum multis res rationesque contractae. Artior vero colligatio est societatis propinquorum; ab illa enim immensa societate humani generis in exiguum angustumque concluditur. (Tr.: Peraltro la società umana ha diversi gradi o forme. La società più ampia, dopo quella che non ha confini e di cui abbiamo già parlato, è quella che consiste nell'identità di nazione e di linguaggio, che è il vincolo più saldo che unisca gli uomini fra loro. Società più intima ancora è quella di appartenere alla stessa città: molte cose i cittadini hanno in comune fra loro, come il fòro, i templi, i portici, le strade, le leggi, i diritti, i tribunali, i suffragi; inoltre, la familiarità e le amicizie, i molteplici e scambievoli rapporti d'interessi e di affari. Ancora più stretto è il legame che avvince i membri di una stessa famiglia: la società umana, da quella forma universale e infinita, si restringe cosí a una cerchia piccola e angusta).

54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post consobrinorum sobrinorumque, qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias exeunt. Sequuntur conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et suboles origo est rerum publicarum. (Tr.: In verità, poiché per natura è comune agli esseri viventi il fatto di tendere alla procreazione, la prima forma di società si realizza nell’unione matrimoniale; la seconda, nella prole, e quindi la casa comune e la comunanza di tutto. Questo è il fondamento della città e come il vivaio della Repubblica. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli escono a fondar nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni e le affinità dalle quali per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l'origine delle Repubbliche).

[67] Il punto è stato colto dal BRETONE, il quale, (op. cit., 39) chiosa il pensiero di Cicerone in questi termini: «Quali siano i principii che la natura ha stabilito per la società, per la comunità degli uomini, è forse possibile vederlo solo movendo da molto lontano. Il primo è quello che si scorge nella società del genere umano tutto intero. Il vincolo che la tiene unita, è la ragione e la parola: esse - con l'insegnare e l'apprendere, il comunicare, il discutere, il giudicare - conciliano gli uomini tra loro e li uniscono in una sorta di società naturale. Questa è la società più ampia che si apra agli uomini e ai loro rapporti, e ai rapporti di tutti con tutti. In essa si deve conservare la comunione di tutti i beni che la natura ha prodotto per l'uso comune, con una distinzione: i beni che le leggi e il diritto civile hanno assegnato ai singoli, saranno nel loro possesso esclusivo, cosí come fu stabilito; quanto agli altri, avrà valore per essi il proverbio greco secondo cui fra gli amici tutto è in comune. Parecchi sono i gradi della società umana. Allontanandoci da quella che non ha confini, la più prossima comprende la stessa gente o nazione, o si fonda sulla stessa lingua, che è fra gli uomini il legame più saldo. Un vincolo ancora più stretto è l'appartenere a una medesima città: molte cose, infatti hanno in comune gli abitanti di una città: il foro, i templi, i portici, le strade, le leggi, le norme tradizionalmente osservate, i tribunali, i suffragi, e inoltre le consuetudini e le amicizie e le diverse relazioni di affari di molti con molti. Ma più intimo è il legame all'interno del gruppo familiare; cosí, da quella immensa società che abbraccia il genere umano, si arriva a una cerchia piccola e angusta».

[68] Il senso dell’enunciato fu lucidamente esposto, in sede costituente (nel 1946) dall’on. Moro; egli ricordò (ai Costituenti) che la formula: La «famiglia è una società naturale» era stata adottata (dalla prima Sottocommissione) quasi all'unanimità ed era stata proposta dall'onorevole Togliatti, il quale, dopo discussione, concordò su questo punto che nella Costituzione si dovesse dichiarare il carattere naturale della famiglia in quanto società. Il grande politico e giurista chiarí che quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare. Vi è naturalmente un potere legiferante dello Stato che opera anche in materia familiare; ma questo potere ha un limite precisamente in questa natura sociale e naturale della famiglia. Si dice poi nella formula: «e come tale lo Stato ne riconosce i diritti»: vi è quindi una sequenza logica e si completa il pensiero che per noi è caro e sul quale si è avuto anche l'accordo dell'onorevole Togliatti e di altri colleghi di parte comunista.

[69] Cic., De officiis 1.16.50: sed quae naturae principia sint communitatis et societatis humanae, repetendum videtur altius. Est enim primum quod cernitur in universi generis humani societate. Eius autem vinculum est ratio et oratio, quae docendo, discendo, communicando, disceptando, iudicando, conciliat inter se homines coniungitque naturali quadam societate.

[70] Quasi equivale a “come se” ed introduce una “appercezione comparativa”: Va tenuto presente che le costruzioni introdotte con quasi dovevano servire a creare uno di quei concetti che in realtà le costruzioni giuridiche sono finzioni che valgono “come se” fossero legittime, soltanto per la loro funzione pratica ed euristica, secondo quanto ha affermato, fin dal 1911, H. VAIHINGER, La filosofia del «come se», tr. it., Roma 1967. Il termine era adoperato dai giuristi per indicare una situazione da considerare alla stessa stregua di un’altra: v. W. KERBER, Die quasi-Institute als Methode der Römischen Rechtsfindung, München 1970; cfr. A. STEINWENTER, Prolegomena zu eine Geschichte der Analogie. II. Das Recht der kaiserlichen Konstitutionen, in Studi Arangio-Ruiz 2, Giuffrè, Napoli 1953, 170; G. WESENER, Zur Denkform der «quasi» in der römischen Jurisprudenz, in Studi Donatuti, 3, Milano 1973, 1387 ss.; R. QUADRATO, Sulle tracce dell’annullabilità. Quasi nullus nella giurisprudenza romana, Jovene, Napoli 1983, 23 ss.

[71] Tr.: Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati: infatti, questo diritto non è proprio del genere umano, ma è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra, in mare, ed è comune anche agli uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio e della femmina, la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione dei figli; da qui l’educazione. Vediamo, infatti, che anche tutti gli esseri animati, comprese le fiere, sono considerati in modo congruo nel diritto.

[72] Cfr. M. BRETONE, Pomponio lettore di Cicerone, in Labeo 16, 1970, 177 ss.; ID., Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1971, cap. VI, Pomponio lettore di Cicerone, 181 ss.

[73] Da ultimo vanno segnalate le acute osservazioni di P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Giappichelli, Torino 2002, 95 ss. All’autore rinvio per la letteratura e le posizioni da essa espresse riguardo al diritto naturale ed alla consapevolezza riguardo ad esso raggiunta dai giuristi romani, esimendomi dalla citazione della letteratura, richiamata dall’Onida in gran parte alla nt. 2 di 96.

[74] V. P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, cit., loc. cit. e 34 ss. L’adesione alle idee pre-aristoteliche ha avuto anche grande influenza sulla sistematica proposta dal giurista severiano, spingendolo ad adottare una classificazione tripartita del diritto. D. 1.1.1.2, Ulp. 1 inst.: privatum ius tripertitum est: collectum etenim est ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus. La tripartizione, che sembra non corrispondente alla dicotomia proposta, in età antonina, da Gaio nel suo manuale istituzionale, imperniata sulla bipartizione ius civileius gentium, è stata oggetto di perplessità, le quali hanno generato dubbi sull’effettiva provenienza da Ulpiano della tripartizione. Secondo la migliore dottrina tuttavia si deve riconoscere l’effettiva provenienza dall’originale di Ulpiano, come conseguenza della sua adesione alle visioni del diritto naturale, inteso come diritto comune dei viventi: cfr., sul punto, P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali, cit., 116 ss., l’A., richiamandole, supera le opposte opinioni espresse in passato (soprattutto dal Bonfante, dal Perozzi, dal Castelli e dall’Albertario, dal Maschi, dall’Arangio-Ruiz, che però era più cauto, ed altri), operando anche una incisiva sintesi delle opinioni presenti nei manuali istituzionali di diritto romano.

[75] V., in particolare: Cic., De re publica 3.18-19: Non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, ...; sul passo cfr. P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali, cit., 107.

[76] V. M. BRETONE, Storia del diritto romano, cit., 349. L’A. sottolinea l’indifferenza degli stoici per il diritto naturale, contro gli echi presenti nella sua nozione dell’influenza accademica e teofrastea. L’A. pone in luce il risveglio per il pensiero di Pitagora avvenuto durante l’Impero, con specifica accentuazione nel periodo dei Severi.

[77] Ad esempio, anche Seneca si appellava ad un diritto comune dei viventi, il quale doveva avere forza cogente ed impedire atti di eccessiva crudeltà nei confronti del servo: Seneca, De clementia 1.18.2: Servis ad statuam licet confugere! Cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet; sul brano cfr. P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali, cit., 111 ss.

[78] V. P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, cit., locc. citt. Sempre nell’età dei Severi già prima di Ulpiano mostra di ritenere nozione incontroversa quella del diritto naturale comune a tutti i genitori: D. 50.16.220.3, Call. 2 quaest.: Praeterea haec omnia natura nos quoque docet parentes pios, qui liberorum procreandorum animo et voto uxores ducunt ...

[79] Secondo il Lévi-Strauss il pensiero di Ulpiano sul punto avrebbe recepito anche le idee circolanti nell’Oriente per l’influenza del Buddismo e dell’Induismo, le quali «concordano nel fare dell’uomo una parte ricevente, e non il padrone del creato»: C. LÉVI-STRAUSS, Lo sguardo da lontano, tr. it. di P. Levi, Einaudi, Torino 1984, 338.

[80] Apollonio di Tiane era vissuto nel I secolo d. C. ed aveva contribuito alla diffusione delle dottrine pitagoriche da lui considerate come fonte di saggezza ed umanità, al punto che la sua figura venne accostata e persino contrapposta a quella di Gesù Cristo nei circoli filosofici e religiosi sorti durante la dinastia dei Severi, radunati intorno alla personalità di Giulia Domna, la quale diede l’incarico al sofista Flavio Filostrato di scrivere la vita di Apollonio di Tiane, visto come teîos anér (uomo divino), secondo un modello che diventerà un paradigma nella storia dei santi cristiani, a partire da quella di S. Antonio: cfr. S. IMPELLIZZERI, La letteratura bizantina da Costantino agli iconoclasti, Dedalo, Bari 1965, 84.

[81] In proposito P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali, cit., 110 opportunamente nota: «La vera e propria chiave di lettura della classificazione ciceroniana dei vari gradi della società umana risiede nella individuazione del carattere naturale delle diverse forme di società comuni agli uomini e agli altri esseri animati».

[82] P.P. ONIDA, Studi sulla condizione degli animali, cit., 111, ed ivi nt. 20 per un ragguaglio sulla letteratura concernente il “fondamento naturalistico del ius nella opera di Cicerone”.

[83] Più volte il Signore indica nella Sua intenzione di far crescere i figli di Abramo (che per via dei molti figli si chiamerà Abraamo) come i granelli di terra o come le stelle: indice che la crescita costituiva lo scopo principale ed essenziale dei popoli; v., ad es., Sacra Bibbia, Gn 13.16; 15.5; 17.4-6; 22.17; 26.4; 26.24; 28.14; 35.11; 47.27; 48.4, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987.

[84] Sul punto cfr. i manuali di Istituzioni di diritto romano. Ad es. M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., Palumbo, Palermo 2006, 193 ss.; 263 ss.; M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, cit., 75 ss., 155 ss. V. anche G. WESENER, v. Pubertas, in PWRE, Suppl. XIV, 1974, I, 571.

[85] V. quanto credo di avere evidenziato in Pubes e viripotens, cit. cui adde, R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, 2a ed., Cedam, Padova 2014; il quale, in proposito, osserva «Il matrimonio classico, nel pretendere la pubertà degli sposi, la intende, come il matrimonio preclassico, quale capacità fisiologica di procreare e non quale capacità intellettuale di decidere del proprio stato».

[86] V. quanto ho osservato in Pubes e viripotens, cit., 131 ss. Cfr. le osservazioni di G. PUGLIESE, Precedenti romani della moderna legislazione sui minori, in Atti dei Convegni Lincei 59, 1983 - Colloquio italo-polacco: La legislazione sui minori (Roma, 22-23 novembre 1979), 111 ss.; Appunti sugli impuberi e i minori in diritto romano, in St. Biscardi IV, 1983, 469 ss.

[87] Cfr. G. FRANCIOSI, Clan gentilizio, cit., 49.

[88] Il concetto di crescita infatti è alla base delle visioni di tutte le società dell'antichità ed in particolare dei popoli italici, dei Romani e di Roma. Esso era nella radice di populus, che deriva da una radice mediterranea *poplo la quale significa, per l’appunto, “crescita”: G. DEVOTO, Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Firenze 1968.

[89] Riguardo al nesso tra puber e l’idea di ‘crescita’ va osservato che essa poteva essere espressa dallo stesso etimo adoperato dai Romani: vi era una comune derivazione di pop(u)lus e pubes da può-, pum, pu-dh e che la radice del termine richiama anche puer, pupus, pupa: v. il mio volume Pubes e viripotens, cit., 48, dove osservavo: «Vien fatto di domandarsi se il termine, la cui radice sembra avere tanto il significato di uomo, quanto quello di ragazzo, non fosse una contaminazione tra questa stessa radice e uber; cioè, se il termine non stesse ad indicare il ragazzo o l'uomo ‘fecondo’: capace di accrescere il popolo, con la sua partecipazione all'assemblea armata, in un primo significato, poi inteso come capace di procreare».

[90] V., sulle visioni e le motivazioni dei Romani, trasfuse nel diritto romano rinvio al mio volume Pubes e viripotens, cit., 22 ss., cui rinvio per gli opportuni ragguagli bibliografici.

[91] I Liberalia erano una festa celebrata il 17 marzo (mese d’inizio dell’anno, secondo il calendario di Romolo) in onore di Liber, dio italico della natura e della famiglia. Liber aveva un tempio sull'Aventino, insieme a Libera e a Ceres. Il tempio era stato costruito dal dittatore Postumius nel 495 a.C. Il 17 marzo i giovani assumevano la toga (praetexta), la quale indicava a tutti che il ragazzo era uscito dalla pueritia ed era entrato nell’adolescentia. Esso era significato da manifestazioni esterne, quali la rottura della bulla deposta sull’altare di famiglia, l'adozione della toga virilis, la notificazione del nome completo, la designazione come vesticeps (che era sinonimo di pubere), secondo una scansione del decorso della vita umana, variamente espressa: v. Liberalia nr. 1, col. 81 s.; VI A v., col. 1450 ss.; VI A nr. 2, v. Toga, col. 1660.

[92] Appian., Bel. civ. IV.30; Dio Cass. 55.22.4; 56.29; cfr. J. MARQUARDT, La vie privée des Romains I, cit., 4, 148 s.

[93] Cfr. quanto ho osservato nel mio lavoro Pubes e viripotens, cit.

[94] L’epitome pervenutaci con il nome di Liber singularis enchiridii ha suscitato, è noto, molte discussioni riguardo alla sua natura ed all’effettiva provenienza da Pomponio: v. in proposito M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., cap. IV L’Enchiridion di Pomponio, 111 ss. La maggior parte degli analisti, tuttavia, propende a ritenere che le affermazioni di Pomponio siano attendibili.

[95] Particolarmente significativi gli scorci contenuti in D. 1.2.2.2; 7, 18, 22, nei quali il giurista chiaramente faceva riferimento ad un concetto di Città in crescita perpetua, secondo una visione frutto di una tensione presente nella storia individuale, dei gruppi e del cosmo. Il punto in genere è sottovalutato dalla dottrina. Di recente tuttavia esso è stato oggetto di penetrante analisi ad opera di M.P. BACCARI. L’Autrice in più riprese ha rivolto l’attenzione al sintagma civitas augescens ed alle sue proiezioni, sviluppando le suggestioni suscitate dall’ipotesi formulata dal CATALANO, secondo il quale l’idea di crescita della Città ebbe implicazioni che andavano ben oltre i fatti interni della Civitas: oltre l’articolo citato su Il concetto di civitas augescens: origine e continuità, 759 ss., v., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Giappichelli, Torino 1996, partic. 57 ss.

[96] La BACCARI, Il concetto di civitas augescens: origine e continuità, cit., 761 s., osserva «Crescita (e aumento) della cittadinanza e del popolo sono ideali risalenti all’antica repubblica» e, al riguardo, ricorda le numerose affermazioni che si trovano in molti autori romani, quali Ennio (Ann. 478), Cicerone (pro Balbo 13.31), Sallustio (De Catilinae coniur. 6.7, 7.3, 10.1), Livio (4.4.4, 8.13.16), Velleio Patercolo (1.14), e ha posto in evidenza la continuità del concetto di civitas augescens dalle origini di Roma sino a Giustiniano, raggiungendo «il punto saliente nella constitutio Antoniniana ... ed il punto conclusivo in Giustiniano (eliminazione del concetto di straniero)». Perciò l’ideale di ‘crescita’ è stata la linea guida durante i secoli del tardo-antico ed era presente a Giustiniano, il quale la richiamò piú volte in suoi interventi: v. M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione, cit., 60-63.

[97] Che il concetto di Civitas augescens ebbe fondamentali implicazioni normative è stato sostenuto dal Catalano: sul punto rinvio a P. CATALANO, Diritto e persone, cit., XIV ed alle osservazioni della BACCARI, Il concetto di civitas augescens, cit., 763, dove sono esaminate le opinioni piú significative dei romanisti (nello specifico, del Bretone, del Watson, del Nörr, del Lantella e, come si è detto, del Catalano) riguardo al sintagma civitas augescens (probabilmente radicato nel linguaggio romano al punto di essere diventato un Topos, come suggerisce il Nörr), nell’uso di Pomponio, con particolare riferimento al citato brano di D. 1.2.2.7.

[98] Pubes, cit., 219 ed ivi ntt. 24-25.

[99] In antico l’espressione usata fu di virapatiens, che piú direttamente alludeva al ruolo sussidiario e complementare della donna; soltanto con le nuove idee circolanti tra la fine della Repubblica e Principato si passò all’uso del termine viripotens, il quale intendeva rimarcare una funzione piú attiva e non solo di partecipazione in posizione di sottomissione: v. sul punto S. TAFARO, Pubes e viripotens nella esperienza giuridica romana, cit., 79 ss.

[100]. La posizione generale della donna era di completa soggezione dal punto di vista giuridico e sociale, rispetto al matrimonio, che era sorto, in via di fatto prima che venisse istituzionalizzato, come forma di scambio di cui oggetto erano, in antiquo, proprio le donne, considerate, appunto come ‘oggetto di scambio’: FRANCIOSI, Clan, cit., 147, 203, 209.

[101] Sulle quali v. il mio Ius hominum, cit., 25.

[102] Th. 330. 6: Pubes e chi ... può generare il pubem (da intendere il pubere, per la maggior parte dei commentatori, la pubes, secondo la mia lettura); a questi ... comincia ad essere (appartenere?) da quattordici anni: la femmina da dieci ... viripotente, o virisopportante) secondo quanto alcuni ritengono.

[103] L. 296. 18: Pubes e chi ... può generare pubem (da intendere il pubere, per la maggior parte dei commentatori, la pubes, secondo la mia lettura). Egli comincia ad essere tale a quattordici anni: la femmina da dodici diventa viripotente o virisopportante, secondo quanto alcuni ritengono.

[104] Su esse e sul motivo delle variazioni, v. il mio Ius hominum, cit., 25 ss.

[105] (Pubes (è) il fanciullo, che già può generare. Egli comincia ad essere tale dai quattordici anni: mentre la donna diviene viripotente dai dodici anni).

[106] Tac., Germ. 20.6.

[107] S. TAFARO, Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, ESI, Napoli 2009, 95 e, per una visione d’assieme, 89 ss., § Ciclo della storia, ciclo della vita e numero sette.

[108] Sul punto, rinvio a quanto osservato in Pubes e viripotens, cit., e a Ius hominum causa constitutum – Un diritto a misura d’uomo, cit., dove (87 s.) «Già il Pernice aveva affermato che, in realtà, la fissazione della pubertà ad un’età determinata ed in particolare al 14° anno sicuramente non proveniva da concetti originari dei Romani; doveva, invece derivare dalle credenze sulle influenze misteriche dei numeri. In tempi piú recenti il DURRY ha sostanzialmente confermato l’ipotesi di un’origine non romana della presunzione puberale; egli si è dichiarato convinto che la scelta del numero 14 forse dipese dalle influenze pitagoriche, le quali avrebbero suggerito l’adozione di quel numero, perché a sua volta multiplo del numero sette, che era ritenuto dotato di poteri magici e naturali sulla vita dell’uomo; da questo numero si sarebbe passato alla determinazione della presunzione di viripotenza in dodici anni, fissata volutamente in un numero inferiore di anni, per venire incontro al desiderio di sposare le fanciulle quando erano ancora nell’età della formazione. In conclusione si dovrebbe pensare che sono state le concezioni sui poteri dei numeri ad avere guidato e dettato la scelta di un’età che, come si è visto, non trovava grande riscontro nell’esperienza romana e talora agli stessi Romani, pur in età imperiale, parve difficile mantenere».

[109] (Tr.: Giuliano, nel libro ventunesimo Dei Digesti, si domanda se questa azione debba essere data nei confronti del padre, il quale dette in nozze una figlia minore di dodici anni. E ritiene piú condivisibile che si debba preferire di perdonare al padre, che prematuramente volle dare la figlia in nozze facendola entrare nella casa del fidanzato: si deve, infatti ritenere che egli agí piú per affetto che non con dolo).

[110] V. il mio Pubes, cit., 162 ss.

[111] (Tr.: Se uno ebbe una fidanzata e poi la sposò pur non essendo lecito, dobbiamo vedere se le donazioni valgono considerandole come se fossero state fatte nel fidanzamento. Giuliano tratta questa questione riguardo alla minore di dodici anni, che sia stata condotta nella casa del marito mentre era immatura: sostiene che essa sia fidanzata, sebbene non sia moglie. Ma è piú vero ciò che riteneva Labeone ed io e Pomponio abbiamo accolto nel libro decimo delle ‘Questioni’, di modo che duri il fidanzamento, se effettivamente sia stato contratto prima, nonostante chi la dedusse in nozze già la consideri moglie; qualora, invece, non fu contratto il fidanzamento non si può ritenere esistente né il fidanzamento stesso, perché non ci fu, né il matrimonio, perché non poteva essere contratto).

[112] Al riguardo v. J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero [Tr. E. OMODEO ZONA], Laterza, Bari 2005, 97, nota che il matrimonio «Era anzitutto preceduto dal fidanzamento, il quale, pur senza imporre dei veri obblighi, veniva celebrato tanto spesso in Roma che Plinio il Giovane lo pone tra quei mille nonnulla di cui erano inutilmente ingombre le giornate dei suoi contemporanei».

[113] Come ricorda il VOLTERRA (Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano. Anno accademico 1960-61, Ricerche, Roma 1961, 100) «una serie di iscrizione dell’epoca imperiale ci mostrano fanciulle spose ad un’età molto al di sotto dei 10 anni».

[114] E. VOLTERRA, op. cit., 101 ed ivi nt. 2, dove è ricordata la testimonianza di Corn. Nepos, Atticus 19.4: … nata est autem Attico neptis ex Agrippa, cui virginem filiam collocarat. Hanc Caesar vix annicula Ti. Claudio Neroni, Drusilla nato, privigno suo despondit.

[115] Della voluminosa letteratura mi limito a rinviare, anche per quanto attiene al brano di Modestino (qui riportato): Pubes, cit., 219 ss. ed ivi nt. 25; R. ASTOLFI, Il fidanzamento nel diritto romano, 3a ed., Cedam, Padova 1994, partic. (riguardo a D. 23.1.14) 58, 66, 155; M. CASOLA, Sponsalia nelle differentiae di Modestino, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza di Taranto – Anno III, Cacucci, Bari 2010, 29 ss.

[116] (Tr.: Per i fidanzamenti non vi è un’età definita come per i matrimoni. Di conseguenza gli sponsali si possono compiere fin dalla nascita (fin dalla prima infanzia), purché entrambi capiscano ciò che fanno, vale a dire, purché non abbiano meno di sette anni).

[117] V., M.J. GARCIA GARRIDO, Diritto privato romano, ed. it. a cura di M. BALZARINI, Cedam, Padova 1992, 320 ed ivi nt. 2; Cfr. L. FASCIONE, Storia del diritto privato romano, cit., 131 s.

[118] (Tr.: Servio Sulpicio, nel libro da lui scritto sulle doti, scrisse che, in quella parte d'Italia che si chiama Lazio, i fidanzamenti venivano fatti secondo le seguenti norme, dettate dal costume e dal diritto: Chi, egli scrive, si accingeva a prender moglie si faceva promettere, da colui dal quale avrebbe dovuto prenderla, che la stessa gli sarebbe stata data. Egli a sua volta si impegnava allo stesso modo a prenderla in moglie. Questo contratto di stipulazioni e ‘sponsioni’ veniva detto ‘sponsali’. Conseguentemente, colei che era stata promessa, veniva chiamata ‘sposa’, chi aveva promesso di prenderla in moglie, ‘sposo’. Ma se dopo quelle promesse la donna non veniva data o non veniva presa in moglie, chi aveva avuto la promessa agiva in virtù della sponsio. Venivano investiti i giudici. Il giudice indagava sul motivo per il quale la donna non era stata data o presa. Se non gli sembrava esistere nessuna giusta causa, procedeva alla stima pecuniaria della lite e condannava, chi aveva promesso di prendere o chi si era impegnato a dare la donna in moglie, al pagamento del valore corrispondente all'interesse avuto a dare o farsi dare la moglie. Servio dice che questa disciplina degli sponsali era osservato al tempo in cui, con la legge Giulia (a. 90 a.C.), fu data la cittadinanza all'intero Lazio. Le stesse cose scrisse anche Nerazio, nel suo libro sulle nozze).

[119] (Tr.: Spondere Verrio ritiene che sia detto cosí perché si promette sua sponte cioè di propria volontà. Poi, dimentico di ciò, in un capitolo successivo afferma che sposo e sposa derivano dal Greco, in riferimento al fatto che essi, nel rito religioso, fanno libagioni - spondàs).

[120] In ciò gli sponsalia si differenziavano nettamente dalla engysis greca, che era quasi un pre-matrimonio ed era vincolante ed era indispensabile per la convalida di un contratto di matrimonio; cfr., tra i tanti, R. FLACELIERE, Daily Life in Greece, Macmillan Publishing Co., New York 1974, 60 ss. La stessa configurazione si riscontra nelle legislazioni influenzate piú direttamente dal diritto bizantino, come nel caso della fejesa dell’Albania: cfr. N. SHEHU, Il diritto romano in Albania: insegnamento e strumenti, in Diritto @ Storia n. 3, 2004 < https://www.dirittoestoria.it/3/Lavori-in-Corso/Didattica/Shehu-Diritto-romano-in-Albania.htm >.

[121] V., per tutti, ASTOLFI, Il fidanzamento, cit.

[122] (Tr.: Se si prometteva del denaro o la figlia in matrimonio, ‘sponsa’ <promessa> veniva chiamata tanto la somma di denaro quanto la fidanzata; il denaro che, interrogandosi fra di loro, avevano pattuito in contrapposizione <in cambio del> al fidanzamento era detto ‘sponsio’; ‘sponsus’ <promesso> era detto colui cui era stata promessa una moglie; ‘sponsale’ era detto il giorno della promessa <il giorno in cui era avvenuto il fidanzamento>. Chi aveva impegnato la figlia, dicevano che l'avesse liberata, poiché era uscita dalla sua disponibilità, cioè dalla sua volontà: infatti se voleva non adempiva, a ciò cui era tenuto per forza del fidanzamento: vedi appunto quel che si dice nelle commedie: prometti tua figlia in moglie a mio figlio? Allora si procedeva alla stima dell'accaduto secondo il diritto pretorio facendo riferimento alla legge, secondo il giudizio dei censori facendo riferimento all'equità).

[123] Vale a dire in siffatta concezione del mondo, della vita, e della posizione in esso occupata dall'uomo.

[124] Appare superfluo ricordare che la bibliografia sul matrimonium è vastissima. Di essa ha delineato un incisivo quadro M.P. BACCARI, Persone e famiglia: concetti e principi giuridici contra le astrazioni e l’individualismo, in Revista Brasileira de direito comparado 27, 2005, 38 ss.; EADEM, Matrimonio e donna, Giappichelli, Torino 2013, 42 ss.; v. anche C. FAYER, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma 2005, 17 ss. Ampia documentazione è offerta da A. STEPKINE, Aspetti dell’affectio maritalis nelle dinamiche del matrimonio romano, in FHI (forum historiae iuris) 2020, al sito https://forhistiur.net/2020-08-a-stepkine/?l=it .

[125] Sul punto, v. il sito dell’Accademia della Crusca: https://accademiadellacrusca.it/it/stazione-bibliografica/dei-dizionario-etimologico-italiano/1596 , dove si nota che l’informazione è contenuta in gran parte dei dizionari storici o etimologici italiani, come il DEI, Dizionario Etimologico Italiano - Grande dizionario italiano dell'uso - Ideato e diretto da TULLIO DE MAURO (anche GRADIT o GDIU), cur. CARLO BATTISTI e GIOVANNI ALESSIO, Firenze, Barbera, 1950-1957); DELI, Dizionario etimologico della lingua italiana (a cura di MANLIO CORTELAZZO e PAOLO ZOLLI, Bologna, Zanichelli, 1983); GDLI, Grande Dizionario della Lingua Italiana (a cura di SALVATORE BATTAGLIA, Torino, UTET, 1961-2002) che specificano anche che il termine si è formato su influsso del preesistente patrimonium.

[126] Sul punto v. le attente osservazioni della BACCARI, Matrimonio e donna, cit., partic. 71 ss.

[127] Lo evidenziava chiaramente sant’Agostino, nel libro XIX Contra Faustum Manichaeum libri XXXIII: Matrimonium quippe ex hoc appellatum est, quod non ob aliud debeat femina nubere, quam ut mater fiat (matrimonio è senza dubbio chiamato cosí perché la donna si deve sposare non per altro motivo che per diventare madre).

[128] F. DUPONT, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Laterza, Bari 1989, 120.

[129] Il nesso inscindibile tra matrimonio e filiazione è piú volte espresso dalle fonti romane. Quintiliano addirittura deduceva la condizione di ‘moglie’ dal fatto che un uomo conviveva con una donna allo scopo di procreare figli, anche se non vi era stata nessuna delle formalità consuete nel matrimonio: Quintilianus, Declamationes 247: ita illud nuptiis conlocata efficit uxorem: sed non haec solummodo erit uxor. Fingamus enim nuptias fecisse nullas, coisse autem liberorum creandorum gratia: non tamen uxor non erit, quamvis nuptiis non sit collocata. Nell’età piú antica il marito doveva promettere con giuramento davanti ai censori di avere figli e di divorziare qualora ciò non si verificasse; ce lo ricorda Aulo Gellio, riferendo di un certo Carvilio costretto a divorziare sebbene innamorato della moglie sterile: Gellius, Noctes Atticae 4.3.2: Atque is Carvilius traditur uxorem, quam dimisit, egregie dilexisse carissimamque morum eius gratia habuisse, sed iurisiurandi religionem animo atque amore praevertisse, quod iurare a censoribus coactus erat uxorem se liberum quaerundum gratia habiturum. Analoga promessa era prevista dalla legislazione matrimoniale di Augusto: Tituli ex corpore Ulpiani 3.3: Nam lege Iunia cautum est, ut si civem romanam vel latinam uxorem duxerit, testatione interposita, quod liberorum quaerendorum causa uxorem duxerit. La necessità di crescita era tanto avvertita che, dopo la crisi demografica conseguita alle guerre civili, addirittura, Giulio Cesare, andando contro la radicata tradizione monogamica, pensò di introdurre la poligamia per incrementare la procreazione: Svetonius, Caesar 52: Helenius Cinna plerisque confessus est habuisse se scriptam paratamque legem quam Caesar ferre iussisset, cum ipse abesset, ut ei uxores liberorum quaerendorum causa, quas velle ducere liceret. Sull’esistenza di forme di poligamia e perfino di poliandria v. la letteratura richiamata da C. RINOLFI, Famiglia e persone, cit.

[130] L’accrescimento era ritenuto davvero vitale nell’antichità: al punto che nel pensiero greco, all’interno della famiglia patriarcale mal si sopportava il fatto che il figlio nascesse dalla madre e si teorizzò (come fece per tutti Aristotele) che anche se la donna era quella che aveva la gestazione, in realtà il figlio era frutto del ‘seme’ del padre ed il ruolo della madre consisteva nel nutrirlo: v., sul punto, E. CANTARELLA, L’amore è un Dio, Feltrinelli, Milano 2007, 138 s. § Il dibattito sulla riproduzione.

[131] È ciò che dice chiaramente, fin della prima edizione, Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), dove alla voce matrimonio è riportata una citazione tratta del Volgarizzamento della somma Pisanella detta Maestruzza «Matrimonio una congiunzione dell’uomo, e della donna, la quale ritiene una usanza di vita, la quale dividere non si può. E perché nel matrimonio apparisce piú l’uficio d’esso nella madre, che nel padre, perciò è determinato più dalla madre, che dal padre, Matrimonio, tanto è a dire, come uficio di madre».

[132] (Tr.: Poiché l'uomo è nato per la tutela e la conservazione della specie, è conseguente che chi è saggio voglia prendersi cura ed amministrare la repubblica e, per assicurare la sopravvivenza, prendere moglie per avere da lei dei figli).

[133] (Tr.: Dunque è comune a tutti gli animali il desiderio di unirsi per procreare e prendersi cura dei figli).

[134] (Tr.: Infatti, poiché per natura è comune a tutti gli animali il desiderio di procreare, l'unione che ne consegue è la prima forma di società).

[135] (Tr.: Elvio Cinna tribuno della plebe confessò a parecchi di avere avuto tra mano, scritta e pronta, una legge, che Cesare aveva ordinato di pubblicare in sua assenza, per la quale fosse lecito, per avere figli, prendere quali e quante mogli volesse).

[136] (Tr.: … pertanto ‘moglie’ è colei che sia stata collocata in nozze: tuttavia non soltanto essa potrà essere considerato ‘moglie’. Facciamo l'esempio di uno che non abbia contratto le nozze, ma ugualmente si sia unito con una donna allo scopo di avere figli: non si può dire che questa non sia ‘moglie’, sebbene non sia stata collocata in nozze).

[137] (Tr.: Oltre a tutto ciò, la natura insegna anche a noi pii genitori quali sono coloro che si sposino con l’intenzione e l’impegno di procreare figli, di potere chiamare figli tutti coloro che discendono da noi: né infatti possiamo chiamare i nostri nipoti con un nome più dolce di figli. Infatti, concepiamo ed alleviamo i figli e le figlie per questo motivo: affinché possiamo lasciare il ricordo di noi stessi per sempre per mezzo dei figli e delle figlie di loro). V. E. VOLTERRA, Lezioni di diritto romano, cit.

[138] (Tr.: Invero con una legge Giulia si provvide a che il cittadino che volesse prendere una moglie romana o latina, dovesse premettere, con giuramento, di sposarsi per avere figli; solo in tale ipotesi in seguito al compimento dell’anno da parte del figlio o della figlia potrà provare ciò presso il pretore o il preside della provincia e diventeranno cittadini romani sia lui stesso, sia il figlio o la figlia o la moglie, purché sia Latina…).

[139] FRANCIOSI, Famiglia e persone, cit., 131 ed ivi nt. 4; cfr. G. LOBRANO, Uxor quodammodo domina, Pub. Univ. Sassari 1989, 48 ss., anche online in Diritto @ Storia; STEPKINE, cit., nota: «L’importanza della procreazione è messa in risalto dalla Lex Iulia et Papia, nonché dalla legislazione successiva: che il matrimonio sia contratto liberorum quaerendorum causa appare la finalità incontestata per la quale i consortes instauravano fra loro una piena comunanza di vita».

[140] (Tr.: E si ricorda che Carvilio amava molto la moglie che aveva cacciato e di cui aveva care le abitudini, ma all'amore e all'affetto preferí la fedeltà al giuramento, perché era stato costretto dai censori a giurare che avrebbe preso moglie per avere prole).

[141] (Tr.: normalmente ‘moglie’ è colei che sia stata collocata in nozze: tuttavia non soltanto essa potrà essere considerato ‘moglie’. Facciamo l'esempio di uno che non abbia contratto le nozze, ma ugualmente si sia unito con una donna allo scopo di avere figli: non si può dire che questa non sia ‘moglie’, sebbene non sia stata collocata in nozze).

[142] (Tr.: matrimonio è senza dubbio chiamato cosí perché la donna si deve sposare non per altro motivo che per diventare madre).

[143] R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Cedam, Padova 2000, 11–28.

[144] Cfr. VOLTERRA, Lezioni, cit., 128; cui adde, anche per i ricchi richiami bibliografici, BACCARI, FAYER e STEPKINE, cit. (v. nt. 125).

[145] Cosí FRANCIOSI, Famiglia e persone, cit., 135.

[146] Sul rapporto tra i due giureconsulti, rinvio a quanto osservato in Pubes, cit.; ricordo che i giuristi severiani riassunsero tutto il pensiero giuridico romano.

[147] (Tr.: Le nozze non le fa l’accoppiamento, bensí il consenso).

[148] (Tr.: Per colui cui fu lasciato un legato a condizione che sposasse un membro della famiglia la condizione si deve ritenere avverata al momento della deduzione nella casa del marito e non ha importanza se non sia ancora andata nella camera da letto del marito. Ciò perché è il consenso e non l'accoppiamento a costituire le nozze).

[149] Della copiosa bibliografia, compresi gli Autori qui citati, vorrei qui richiamare: R. ORESTANO, La struttura giuridica del matrimonio romano dal diritto classico al diritto giustinianeo 1, Giuffrè, Milano 1951; O. ROBLEDA, El matrimonio en derecho romano, Roma 1970, 75 ss.; IDEM, Il consenso matrimoniale presso i Romani, in Gregorianum 60.2, 1979, 250; C. GIOFFREDI, Per la storia del matrimonio romano, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma 1980, 113-144; R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit.; IDEM, Il matrimonio nel diritto romano classico, 2a ed., Cedam, Padova 2014.

[150] V. P. VEYNE, La società romana, Laterza, Bari 1990, 164.

[151] Cfr., tra i tanti, TALAMANCA, Istituzioni, cit., cap. IV.

[152] Cfr. U. BARTOCCI, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere nella testimonianza delle fonti, Il Cigno Galileo Galilei, Roma 1999.

[153] In tal senso soprattutto argomentano gli AA. contemporanei, a partire da quelli cit. alla prec. nt. 151, contro le precedenti affermazioni, a partire da quelle del Manenti, ravvisanti nel deductio in domu mariti, l’inizio del matrimonio.

[154] V., per tutti, U.E. PAOLI, Vita romana, Le Monnier, Firenze 1963, 151.

[155] Il punto molto complesso partí da una prima fase nella quale il matrimonio, al pari del fidanzamento, nasceva dall’accordo dei soli padri, seguito da una progressiva rilevanza del consenso anche degli sposi, ma sempre insieme a quello del paterfamilias: v. la lett. cit. alle ntt. prec. e in part. ROBLEDA, El matrimonio, cit.; ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., cap. II, cui rinvio anche per una visione delle varie forme ed ipotesi di manifestazione del consenso – Consenso. Ricordo che bastava che il marito facesse sedere a capotavola, di fronte a lui, un’altra donna (invece che la moglie) per inferirne che il matrimonio era finito.

[156] Infatti ancora oggi il verbo adulterare è sintomo di falsificazione: V. la corrispettiva voce nell’Enc. Treccani.

[157] Ad esempio, l’articolo 559 del codice penale del 1930, rubricato “adulterio” puniva esclusivamente l’adulterio della moglie, stabilendo che: La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito. Soltanto con sentenze del 1968 e del 1969 tale normativa fu abolita: v. sent. Corte Costituzionale del 19 dicembre 1968 n. 126 e sent. Corte Cost. del 3 dicembre 1969 n. 147.

[158] V., anche per le fonti e l’amplissima bibliografia, R. ASTOLFI, La lex Iulia et Papia, 4a ed., Cedam, Padova 1996; G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Grifo, Lecce 1997.

[159] V. DUPONT, La vita, cit., 122 ss., fa diversi esempi di ciò tra i quali, quello di Pompeo, ritenuto quasi scandaloso, perché, sposato a Giulia (figlia di Cesare) se ne era innamorato, al punto di passeggiare insieme a lei nei giardini, fuori di Roma; sicché “Tutta Roma dei due innamorati”. Lo stesso avverrà in seguito, quando Pompeo, morta Giulia, sposò (ancora una volta per motivi politici) Cornelia, figlio di Metello Scipione.

[160] DUPONT, op. cit., 125.

[161] Sul punto v. VEYNE, op. cit., 157 ss.

[162] V. Wikipedia, al sito: https://it.wikipedia.org/wiki/Donne_nell%27antico_Egitto : «Le donne nell'antico Egitto possedevano uno status che contrastava in modo significativo con la condizione della donna in molti paesi moderni, in quanto occupavano e veniva assegnata loro una fetta di potere sociale (e, in certi casi, anche politico) che non è consentito loro avere in un buon numero di società dell'età contemporanea. Anche se gli uomini e le donne in terra d'Egitto avevano poteri tradizionalmente distinti all'interno della società civile, non sussisteva alcuna barriera insormontabile - né di tipo culturale né tanto meno religioso - davanti a coloro che volessero deviare da un tale modello di separazione dei ruoli. La società egizia riconosceva non l'uguaglianza sociale dei sessi (nel senso più moderno del termine, o le pari opportunità), bensí la complementarità essenziale nei compiti a cui erano destinati rispettivamente uomini e donne. I doveri a cui era chiamata la popolazione femminile del paese erano soprattutto rivolti alla buona riuscita della vita nell'ambiente familiare, quindi alla prosperità della famiglia e alla buona salute e crescita dei figli. Un tale rispetto nei confronti della femminilità è espresso chiaramente nell'antica teologia della religione egizia e dalla sua morale, pur rimanendo alquanto difficoltoso stabilire la portata della sua applicazione effettiva nella realtà della vita quotidiana nell'antico Egitto; è stato in ogni caso molto differente per esempio nella società dell'Antica Atene dove le donne erano legalmente considerate come delle “eterne minorenni” e pertanto prive della maggior parte dei diritti civili».

[163] F. GIANNINI, I. BARATTA, La donna etrusca: indipendente, libera, moderna e bellissima, scritto il 09/06/2018, in Finestre sull’Arte – Arte antica e contemporanea. Al sito: https://www.finestresullarte.info/opere-e-artisti/donna-etrusca-libera-bellissima-moderna . La donna etrusca poteva essere identificata anche col nome della madre, poteva partecipare ai banchetti sdraiandosi sui letti con gli uomini (mentre a Roma le donne dovevano stare sedute), si occupava di affari pubblici, discutendo di politica (anche se non poteva votare né essere eletta), usciva di casa quando voleva, talvolta era libera di scegliersi lo sposo e in genere aveva una libertà che scandalizzava molto gli scrittori greci e romani, che descrissero gli etruschi come un popolo privo di moralità.

[164] V. U.E. PAOLI, Vita romana, cit., 148 s. Da ultimo, cfr. E. PISCHEDDA, I Greci, i Romani e… le donne, Carocci, Roma 2022.

[165] «Il nome delle donne era ai tempi di Roma antica un segreto che doveva essere custodito nel tempo. A differenza degli uomini, una donna era rappresentata soltanto dalla Gens, ovvero dal gruppo di famiglia cui apparteneva ed era accompagnata dall’appellativo “Maior” o “Minor” per specificarne l’anzianità oppure da un nomignolo che la rappresentasse esteticamente».

[166] La condizione della donna nell’antichità ed in particolare a Roma è stata magistralmente evidenziata dalla Cantarella, a partire da: E. Cantarella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Feltrinelli, Milano 1996.

[167] V. RINOLFI, Famiglia e persone, cit., in chiusura.

[168] Per la bibl. rinvio al mio Pubes e viripotens, cit., cui adde G. PUGLIESE, Istituzioni di diritto romano, Padova 1986, 440 s.

[169] Dionigi di Alicarnasso (2.10.2) ricordava che, per evitare che le ragazze restassero senza dote, era stato imposto ai clientes di concorrere alla formazione delle doti a favore delle figlie dei patroni che non avessero avuto mezzi sufficienti: sul punto, F. SERRAO, Diritto privato economia e società nella storia di RomaPrima parte -, Jovene, Napoli 1984, 193.

[170] Aulularia 191 ss.; Trinummus 688 ss.

[171] Esso consisté nella concessione di privilegium exigendi, che tutelava il beneficiario di là dalla volontà del debitore: v., anche per la bibliografia essenziale, il mio Pubes, cit., 184.

[172] (Tr.: alla Repubblica interessa che le donne abbiano salva la propria dote, perché è per mezzo di essa che possono sposarsi).

[173] (Tr.: è infatti di interesse della Repubblica che anche questa (si riferiva alla minore di 12 anni) consegua il patrimonio, in modo che possa sposarsi quando l'età lo consenta).

[174] (Tr.: La causa delle doti è sempre ed ovunque particolare: infatti è di pubblico interesse che le donne conservino le doti, essendo oltremodo necessario che le donne siano dotate per procreare e riempire la città di figli). Sul legame tra la dote e l’interesse della Repubblica v. M. CASOLA, Interesse rei publicae alla salvezza della dote, in Ionicae Disputationes – Uomo e ambiente. II incontro ionico-polacco – Taranto 17-20 settembre 2007, Taranto 2008, 187 s.

[175] D. 23.3.74, Hermog. 5 epit.: Si sponsa dotem dederit nec nupserit vel minor duodecim annis ut uxor habeatur, exemplo dotis condictioni favoris ratione privilegium, quod inter personales actiones vertitur, tribui placuit; D. 42.5.17.1, Ulp. 63 ad ed.: Si sponsa dedit dotem et nuptiis renuntiatum est, tametsi ipsa dotem condicit, tamen aequum est hanc ad privilegium admitti, licet nullum matrimonium contractum est: idem puto dicendum etiam, si minor duodecim annis in domum quasi uxor deducta sit, licet nondum uxor sit; D. 46.2.29, Paul. 24 quaest.: Aliam causam esse novationis voluntariae, aliam iudicii accepti multa exempla ostendunt. perit privilegium dotis et tutelae, si post divortium dos in stipulationem deducatur vel post pubertatem tutelae actio novetur, si id specialiter actum est: quod nemo dixit lite contestata: neque enim deteriorem causam nostram facimus actionem exercentes, sed meliorem, ut solet dici in his actionibus, quae tempore vel morte finiri possunt. Cfr. sui privilegia M. KASER, Das römisches Zivilprozessrecht, München 1996, 402 ss.

[176] Varro, De lingua Latina 5.175; Festi M. 69, De verb. signif.

[177] V. C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano - La dote, Catania 1959, 8.

[178] (La dote deve stare dove stanno i pesi del matrimonio). L’affermazione del giurista verosimilmente era inserita in una discussione sull’attribuzione della dote al padre ed ai suoi eredi o al figlio-marito della donna che aveva costituito la dote. Il giurista, al § successivo, precisava che in caso di morte la dote non seguiva la sorte del patrimonio del pater, ma passava al figlio-marito, perché aveva propria autonomia dovuta alla destinazione al sostegno del matrimonio e non seguiva la sorte degli altri beni del pater: Post mortem patris statim onera matrimonii filium sequuntur, sicut liberi, sicut uxor.

[179] Esso è stato scoperto in un papiro inserito nella collezione Bodleiana ed è noto come fragmentum Bodleianum. L’ipotesi ricostruttiva è in C. FAYER, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote 2, Roma 2005, 682. Il frammento corrisponde a D. 17.2.65.16, Paul. 32 ad ed.: Si unus ex sociis, maritus sit et distrahatur societas manente matrimonio, dotem maritum praecipere debet, quia apud eum esse debet qui onera sustinet: quod si iam dissoluto matrimonio societas distrahatur, eadem die recipienda est dos, qua et solvi debet. (Se uno dei soci sia marito e la società si sciolga durante il matrimonio, il marito deve prelevare la dote dalla società, perché questa deve essere presso colui che sostiene i pesi del matrimonio; che, se la società si rompe quando già si è sciolto il matrimonio, la dote deve essere prelevata, nel medesimo giorno in cui deve essere pagata [restituita alla moglie]).

[180] C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano - La dote, cit., 17 ss.

[181] V. supra D. 24.3.1, Pomp. 15 ad Sab.

[182] D. 23.3.17, Paul. 7 ad Sab.: In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet (Nelle cose dotali il marito è tenuto tanto per dolo quanto per colpa, perché ha ricevuto la dote per utile suo: ma sarà tenuto anche per quella diligenza che usa per le sue cose): cfr. S. TAFARO, Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23. ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 126, 266; 97 ss.; F.M. DE ROBERTIS, La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione I, Bari 1981, 46 ss.

[183] P. MORIAUD, Du consentement du père de famille au mariage en droit classique, in Mélanges Girard, Paris 1912, 291 ss.; F. STELLA MARANCA, Dos necessaria, II, in AUBA 1929, 9 ss.

[184] B. BIONDI, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972, 592 ss.; R. ASTOLFI, La lex Julia et Papia, Padova 1996, 150 ss.

[185] G. CASTELLI, Intorno all’origine dell’obbligo di dotare in diritto romano, in BIDR 26, 1913, 164 ss.; P. BONFANTE, Corso di diritto romano, cit., 405 ss.; E. ALBERTARIO, Promessa generica e legato generico di dote, in Mélanges de droit romain, Milano 1925; C. SANFILIPPO, Corso di diritto romano, cit., 45 ss.

[186] (Secondo il capitolo 35° della legge Giulia, coloro che abbiano proibito senza giusta causa che i figli che hanno in potestà prendano moglie o marito, oppure coloro che non vogliono costituire la dote, in forza di una costituzione dei divinizzati (Settimio) Severo e Antonino (Caracalla), vengono costretti dai proconsoli e dai governatori delle province a provvedere al matrimonio e a costituire la dote. Infatti sembra proibire (il matrimonio) anche colui che non procura un buon partito).

[187] P. MORIAUD, Du consentement du père de famille au mariage, cit., 303.

[188] D. 37.6.6, Cels. 1 Digestorum: Dotem, quam dedit avus paternus, an post mortem avi, mortua in matrimonio filia, patri reddi oporteat, quaeritur. Occurrit aequitas rei, ut, quod pater meus propter me filiae meae nomine dedit, perinde sit atque ipse dederim: quippe officium avi circa neptem ex officio patris erga filium pendet et quia pater filiae, ideo avus propter filium nepti dotem dare debet. Quid si filius a patre exheredatus est? Existimo non absurde etiam in exheredato filio idem posse defendi, nec infavorabilis sententia est, ut hoc saltem habeat ex paternis, quod propter ilium datum est. (Si domanda se la dote, che diede l’avo paterno, morta la figlia durante il matrimonio, dopo la morte dell’avo, debba essere restituita al padre. Viene in aiuto l’equità: perché ciò che mio padre ha dato per mio conto nell’interesse di mia figlia, è come se io stesso l’abbia dato: in quanto il dovere dell’avo nei confronti della nipote dipende dal dovere del padre nei confronti del figlio e perché il padre deve dare la dote alla figlia, pertanto l’avo per conto del figlio la deve dare alla nipote. E se il figlio è stato diseredato dal padre? Ritengo che non sia insensato che la medesima soluzione possa essere applicata anche nei confronti del figlio diseredato, né si debba pronunziare parere sfavorevole affinché egli riceva dei beni paterni per lo meno quanto per suo conto è stato dato).

[189] (Infatti non si ignorano le leggi che hanno stabilito che ad ogni modo è dovere del padre dare ai propri figli la dote o la donazione nuziale).

[190] V. Tit. Ulp. 6.4-5. cfr. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, cit., 236 s.

[191] D. 15.1.47.6, Paul. 4 ad Plaut.: Quae diximus in emptore et venditore eadem sunt et si alio quovis genere dominium mutatum sit, ut legato, dotis datione, ... (Le medesime cose che abbiamo detto per il compratore e il venditore valgono se in qualsiasi altro modo cambia il titolare del diritto di proprietà, come nel caso del legato, della datio dotis, ... ). D. 23.5.13.2, Ulp. 5 de adulteriis: Dotale praedium sic accipimus, cum domunium marito quaesitum est: ut tunc demum alienatio prohibeatur (Diventa dotale il fondo quando il marito ne acquista la proprietà; ed in quel tempo diventa inalienabile). Il marito può agire in giudizio con tutte le azioni che spettano al proprietario. Per la sottrazione delle cose dotali viene riconosciuta al marito contro la moglie la rei vindicatio (l’azione che secondo il ius civile compete esclusivamente al proprietario) o alternativamente l’azione personale (condictio): D. 25.2.24, Ulp. 5 regularum: Ob res amotas, vel proprias viri vel etiam dotales, tam vindicatio quam condictio viro adversus mulierem competit, et in potestate est, qua velit actione uti (Per le cose sottratte, sia proprie del marito, sia dotali, compete al marito contro la moglie sia la rei vindicatio che l’azione personale (condictio), ed è in suo potere decidere quale azione utilizzare). Al marito vengono concesse anche l’actio furti e l’actio legis Aquiliae, che egli, se esente da dolo e colpa, potrà cedere alla moglie: D. 24.3.18.1, Pomp. 16 ad Sabinum: ... Ceterum si circa interitum rei dotalis dolus malus et culpa mariti absit, actiones solas, quas eo nomine quasi maritus habet, praestandas mulieri, veluti furti vel damni iniuriae ( ... Per il resto, se per la perdita della cosa dotale non vi sia dolo o colpa del marito, le sole azioni che quasi a tal titolo ha il marito, debbono cedersi alla donna: come l’azione di furto e l’azione per danno ingiusto).

[192] D. 23.5.1; D. 41.1.62.

[193] D. 23.3.7.3; Gai. 2.63; D. 41.9.

[194] D. 24.3.61; D. 24.3.62; D. 24.3.63; D. 24.3.64.

[195] D. 15.1.19.1; D. 23.3.65.

[196] D. 4.4.3.5, Ulp. 11 ad ed.: Ergo etiam filiamfamilias in dote captam, dum patri consentit stipulanti, dotem non statim, quam dedit, vel adhibendi aliquem, qui dotem stipularetur, puto restituedam: quoniam dos ipsius filiae proprium patrimonium est. (Dunque ritengo che debba ancora restituirsi in intero la figlia ingannata riguardo alla dote, mentre consente al padre stipulante la dote che non diede subito, o che adoperava un altro per stipulare la dote: giacché la dote è patrimonio della stessa figlia). D. 11.7.16, Ulp. 25 ad edictum: In eum, ad quem dotis nomine quid pervenerit, dat Paetor funerariam actionem: aequissimum enim visum est veteribus, mulieres, quasi de patrimoniis suis, ita de dotibus funerari: et eum, qui morte mulieris dotem lucratur, in funus conferre debere: sive pater mulieris est sive maritus. (Contro colui al quale qualcosa pervenne a titolo di dote, il Pretore concede l’azione funeraria. Perché agli antichi parve giustissimo che alle donne si facesse il funerale con le doti, come dal proprio patrimonio: e colui che lucra la dote con la morte della donna, debba conferire per le spese funebri: sia che sia il padre, sia che sia il marito della donna). D. 23.3.2.1, Ulp. 35 ad ed.: Quod si in patris potestate est, et dos ab eo profecta sit: ipsius et filiae dos est. Denique pater non aliter, quam ex voluntate filiae petere dotem, nec per se, nec per procuratorem potest ... (Che se è in potestà del padre e la dote proviene da lui, la dote è del padre e della figlia. Infine, il padre non può domandare la dote altrimenti, che per volontà della figlia, né da sé, né attraverso un procuratore ...).

[197] (Trad.: Nonostante la dote sia tra i beni del marito, tuttavia è della donna: ed a ragione si ritenne che, se diede in dote un fondo senza che ne venisse preventivamente stimato il valore, per il quale si ebbe una cauzione stipulata del doppio, e quel fondo sia stato evitto dal marito, la moglie subito può agire secondo lo stipulato ...).

[198] C.I. 5.13.1.5 (a. 530).

[199] Tit. Ulp. 6.6.

[200] Lo ricordava Gaio: Gai. 2.63: Nam dotale praedium maritus invita muliere per legem Iuliam prohibetur alienare, quamvis ipsius sit, vel mancipatum ei dotis causa vel in iure cessum vel usucaptum. quod quidem ius utrum ad italica tantum praedia an etiam ad provincialia pertineat, dubitatur (infatti, a norma della legge Giulia è fatto divieto di alienare il fondo dotale contro la volontà della moglie, anche se esso è suo per essergli stato mancipato a titolo di dote o ceduto in iure o perché lo ha usucapito. Si discute se questa norma valga esclusivamente per i fondi italici o sia applicabile anche a quelli provinciali). Lo confermava Paolo: Pauli Sententiae 2.21b.2: Lege Iulia de adulteriis cavetur, ne dotale praedium maritus invita uxore alienet (Attraverso la legge Giulia de adulteriis si assicura che il marito non alieni il fondo dotale contro la volontà della moglie). Infine lo ricordava Giustiniano, il quale prendeva posizione ribadendo che il divieto dovesse concernere tutti i fondi (anche perché al suo tempo erano stati superati i motivi della distinzione tra fondi italici e fondi provinciali, unificati in un’unica disciplina): C.I. 5.13.15.1: Et cum lex Julia fundi dotalis Italici alienationem prohibebat fieri a marito non consentiente muliere, hypothecam autem nec si mulier consentiebat, interrogati sumus si oportet huiusmodi sanctionem non super Italicis tantummodo fundis, sed pro omnibus locum habere. Placet itaque nobis eandem obsevationem non tantum in Italicis fundis, sed etiam in provincialibus extendi. Cum autem hypothecam etiam ex hac lege donavimus, sufficiens habet remedium mulier, et si maritus fundum alienare voluerit (E dato che la legge Giulia vietava che il fondo Italico fosse alienato dal marito senza il consenso della moglie, e vietava l’ipoteca anche con il consenso della moglie, ci è stato chiesto se è necessario prevedere il medesimo divieto non solo per i fondi Italici, ma per tutti i fondi. Per questo riteniamo che la medesima previsione debba valere non solo per i fondi Italici, ma debba essere estesa anche ai fondi provinciali. Avendo dato con questa legge anche un’ipoteca alla moglie, ella ha un rimedio efficace anche nel caso in cui il marito voglia alienare il fondo).

[201] C.I. 5.13.1.15b.

[202] In proposito, v. le penetranti osservazioni di J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, cit., 116 ss.

[203] Dello stretto legame visto da Augusto tra dote e procreazione è testimonianza una sua decisione, presa extra ordinem, riferitaci da Valerio Massimo, con la quale negò che i beni apportati in dote da una donna che si era sposata con un vecchio, allo scopo di non lasciare i propri beni ai figli (verso i quali nutriva grande odio) potessero in effetti costituire un caso di dote, perché non vi era la possibilità di procreazione:

Val. Max. 7.7.4: Septiciam quoque mater Trachalorum Ariminiensium, irata fliis, in contumeliam eorum, cum iam parére non posset, Publicio seni admodum nupsit, testamento etiam utroque praeterito. A quibus aditus divus Augustus et nuptias mulieris et suprema iudicia improbavit: nam hareditatem maternam filios habere iussit, dotem, quia non creandorum liberorum causa coniugium intercesserat, virum retinere vetuit (trad.: Una tale Septicia, madre dei Tracali Riminesi, in collera con i figli, in odio ai medesimi, pur non potendo più avere figli, si sposò con un vecchio di nome Publicio, trascurando inoltre di menzionare nel testamento entrambi i figli. L’imperatore Augusto adito dai figli riprovò sia le nozze che le ultime volontà della madre: quindi ordinò che l’eredità fosse assegnata ai figli e vietò che il marito trattenesse la dote, perché non poteva esistere in quel matrimonio il fine della procreazione).

[204] Cfr. Wikipedia, al sito https://it.wikipedia.org/wiki/Prezzo_della_sposa : «Il prezzo della sposa (in inglese brideprice), presso talune società e culture, è la compensazione matrimoniale versata dallo sposo, o dal suo gruppo familiare, alla sposa o al suo gruppo familiare. È un tipo di transazione inversa rispetto alla dote: quest'ultima infatti implica il passaggio dei beni della sposa, o del suo gruppo familiare, allo sposo o al suo gruppo familiare».

[205] Nel mondo pre-islamico era il prezzo che il marito pagava al padre. Nella shari'a la dote è una somma che viene versata dal marito alla donna, secondo le parole del Profeta: «E date alle vostre spose la loro dote. Se graziosamente esse ve ne cedono una parte, godetevela pure e che vi sia propizia»; cfr. il sito: https://www.notaiobonomo.torino.it/guida-sul-diritto-musulmano-dei-paesi-islamici-2 / .

[206] Con l’art. 47, l. 19-5-1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia).

[207] V., MIRA SETH, Women and Development. The Indian Experience, Sage, New Delhi – London 2009, 332 ss.

[208] Dal 2016 in Polonia, è stato varato il piano Famiglia 500+ che prevede assegni per tutti i figli, a partire dai secondogeniti. Il sussidio, per il quale non è prevista tassazione, è di 500 zloty mensili (circa 130 euro) per figlio fino alla maggiore età, indipendentemente dai requisiti di reddito. Una cifra considerevole, se si tiene conto che il costo della vita in Polonia è piuttosto basso. Il programma Famiglia 500+ prevedeva sussidi anche per il primo figlio, nel caso in cui questo fosse disabile o il reddito familiare complessivo non fosse superiore agli 800 zloty. Alla fine di gennaio 2018, a meno di due anni dall’adozione del provvedimento, erano già 3 milioni e mezzo i minori che godevano della copertura, equivalenti al 53% dei bambini e dei ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Vanno evidenziate le ricadute positive del ‘piano’, esso ha prodotto da subito effetti positivi sulla crescita demografica. Alla fine del 2016, i nuovi nati in Polonia sono stati 382.300, quindi 12.900 in più rispetto all’anno precedente, con un aumento del tasso di fertilità da 1,31 a 1,36. Inoltre, le nuove politiche familiari polacche hanno avuto un impatto favorevole anche sull’economia, facendo registrare nel 2017 aumenti del 31% nell’acquisto di abbigliamento, del 29% nell’acquisto di scarpe, del 22% nella fruizione delle vacanze, del 22% nelle spese scolastiche e del 20% nelle spese extrascolastiche.

[209] L'assegno va da un minimo di € 50/mese a un massimo di € 175/mese per ogni figlio minorenne a carico. Per i figli a carico di età tra i 18 e i 21 anni, gli importi variano da un minimo di € 25/mese a un massimo di € 85/mese. Va anche detto che l’assegno unico universale sostituisce i benefici esistenti, tra cui gli assegni familiari e il premio alla nascita o adozione, e assorbe le detrazioni per figli a carico fino ai 21 anni.

[210] Della questione, che rappresenta una delle più pressanti tematiche del presente e, maggiormente, del futuro non posso occuparmi qui. Rinvio, tra i tanti, a J. KAPLAN; Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell'epoca dell'intelligenza artificiale – trad. I.V. Tomasello, Luiss University Press, Roma 2016.