ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione-Romana

 

shehuNatasha Shehu

Università di Tirana

 

Alle radici del codice civile albanese*

 

 

Sommario: 1. Particolarità dell’esperienza giuridica albanese. – 2. L’influenza del diritto romano. – 3. Il diritto di famiglia. – 4. L’avvento dei codici. – 5. Il ritorno alla democrazia – 6. Il nuovo codice civile.

 

 

1. – Particolarità dell’esperienza giuridica albanese

 

L’esperienza giuridica dell’Albania è particolare. La particolarità dipende dal modo con cui si è realizzata l’indipendenza del paese, il quale è passato dall’Impero ottomano a alla proclamazione di indipendenza nel 1912 e, subito dopo, alla condizione di Principato affidato ad un principe tedesco (Guglielmo di Wied).

Per queste vicende, che mi accingo a riassumere, l’Albania si è sempre vista assegnare forme giuridiche che non corrispondevano alle proprie tradizioni.

Questo ha provocato la persistenza dei diritti tradizionali accanto al diritto ufficiale.

In questo quadro ideologico e teorico il diritto romano, legato alle antiche tradizioni illiriche, fu visto come un importante punto di riferimento. Rivendicando l’origine dal diritto romano del proprio diritto (quello dei kanun) gli Albanesi intendevano sottolineare la propria differenziazione dagli slavi e dai musulmani.

Fu perciò stabilito un parallelismo tra kanun e diritto romano o, meglio, tra kanun e principi del diritto romano.

Per parte sua la creazione del Principato spinse anch’esso al recepimento del diritto romano. Il quale non era tanto il diritto dell’esperienza romano, ma quello accolto in Germania e, perciò in Albania si crearono due spinte. Quella dei kanun che guardavano addirittura al diritto romano dell’età arcaica, come, ad esempio, nel caso del Feud (la vendetta di sangue), dove vi è la reviviscenza della legge del taglione, presente nelle XII tavole (450 a.C.)[1], dall’altro del diritto romano elaborato dalla dottrina tedesca.

L’identificazione che ne seguì fu esaltata e strumentalizzata dal fascismo il quale per farsi accettare si propagandò come difensore contro eventuali invasori (in particolare i Serbi) e come ripristinatore del diritto degli Albanesi attraverso la valorizzazione delle radici comuni che risiedevano nel diritto romano.

 

2. – L’influenza del diritto romano

 

Da questa visione anche sorsero pagine nelle quali vengono evidenziati i legami tra kanun e diritto romano come base dell’identità albanese e come salvaguardia di essa.

In conclusione possiamo dire che la presenza o quanto meno l’influenza del diritto romano nell’esperienza e nel diritto albanese si realizzò attraverso una duplice via:

1.  attraverso l’influsso sul kanun;

2.  attraverso il peso della visione teutonica del diritto.

Riguardo ai kanun, che regolano soprattutto il diritto delle persone e della famiglia, ma anche l’appartenenza dei beni, occorrerebbe un’analisi articolata che non mi è possibile affrontare in questa sede, dove credo sufficiente fare notare che in realtà il costume albanese ha articolazioni molteplici e che, perciò, bisognerebbe esaminare ogni singolo kanun per un’analisi completa delle sue caratteristiche, che pur in un quadro di riferimento spesso omogeneo presentano aspetti e regole differenti da kanun a kanun.

In essi l’influenza del diritto e della tradizione romana sono ugualmente considerevoli per due motivi: al Sud per l’influenza della tradizione bizantina, conosciuta soprattutto attraverso l’opera di Harmenopoulos, al Nord per il collegamento con una tradizione di matrice anche romana conservata gelosamente nel costume locale, come indice della propria identità.

Al riguardo va evidenziato che la peculiarità del diritto albanese non venne meno neanche durante i cinque secoli di tradizione musulmana. Infatti il diritto e le visioni musulmane certamente penetrarono nel diritto degli albanesi ma non sino al punto di assorbirlo e di annientarne le peculiarità; le quali, invece, furono riconosciute ufficialmente dall’Impero Ottomano.

Il diritto romano, legato alle antiche tradizioni illiriche, fu visto come un importante punto di riferimento. Rivendicando l’origine dal diritto romano del proprio diritto (quello dei kanun) gli Albanesi intendevano sottolineare la propria differenziazione dagli slavi e dai musulmani[2].

Non a caso alcuni autori sottolineavano le coincidenze esistenti tra kanun e diritto romano, arrivando ad ipotizzare un collegamento diretto e mai interrotto tra il mondo illirico degli albanesi e la civiltà romana[3]. Civiltà che avrebbe consentito di mantenere la propria individualità resistendo alle invasioni slave[4] anche attraverso una giurisprudenza dei kanun, affine a quella romana[5].

 

3. – Il diritto di famiglia

 

Punto centrale delle coincidenze e/o delle identità di vedute appariva il ruolo del padre nella famiglia e, a monte, la concezione dell’uomo, come espressione della natura e non come costruzione del diritto o, peggio, dello Stato.

Significativa appare la coincidenza nella concezione del matrimonio. Anche gli albanesi concepirono il matrimonio in funzione della procreazione, sicché requisito essenziale fu ritenuta la capacità fisiologica e non quella psicologica. Singolare appare poi la coincidenza con la frequenza di matrimoni con fanciulle ancora bambine, diffusa in tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana. Secondo il costume albanese la donna prima del raggiungimento della pubertà poteva essere sposata e andare a vivere con il marito, però i rapporti maritali potevano essere instaurati solo dopo il raggiungimento della maturità sessuale e solo da quel momento il matrimonio veniva riconosciuto[6].

In altri casi la coincidenza si collegava al diritto romano attraverso la mediazione del diritto bizantino. Significativo è il caso del fidanzamento (fejesa), considerato come una forma anticipatrice del matrimonio e vincolante, la quale creava il vincolo tra i fidanzati a vivere in matrimonio, nel senso che la donna fidanzata era ritenuta ‘occupata’ e, quindi, non più libera di avere un altro marito [7].

 

4. – L’avvento dei codici

 

In quella realtà l’intento di modernizzazione e di inserimento nel contesto europeo, voluto dalla monarchia di re Zogu, approdò nel 1929 all’emanazione di un codice civile, modellato sul Codice di Napoleone, sul Codice civile italiano del 1865 e sul Codice svizzero, come venne espressamente dichiarato nel Progetto del codice civile, varato il 10 feb. 1928 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno n° 46 del 3 maggio 1928.

In esso il riferimento costante agli istituti provenienti dal diritto romano è evidente, ed appare:

 

                            dal riconoscimento della persona,

                            dal riconoscimento della potestà del padre e del marito,

                            dalla tutela della proprietà privata e dei diritti reali (di godimento e di garanzia),

                            dalla successione ereditaria,

                            dalla disciplina delle obbligazioni e dei contratti,

                            dall’istituto della dote, dalla distinzione dei beni dotali dai beni parafernali etc.

 

In essi l’assetto di base è quello delle fonti romane ed in particolare di quelle giustinianee. Parallela a questa impostazione del codice risulta l’introduzione del Diritto romano, come disciplina obbligatoria nella Facoltà di diritto.

 

5. – Il ritorno alla democrazia

 

La lunga parentesi del regime comunista mutò profondamente il quadro del diritto in Albania ed il diritto romano, visto come retaggio dell’occupazione straniera e non più come radice del proprio costume, fu bandito dall’insegnamento universitario. Inoltre la configurazione del diritto albanese all’interno del sistema socialista comportava la scomparsa di fondamentali istituti come l’eredità, le successioni e la stessa configurazione della persona.

Con il ritorno alla democrazia si è avvertita la necessità di ripristinare l’antico diritto e riproporre l’Albania all’interno della civiltà giuridica dell’Europa. In questo vi è qualcosa di indefinibile perché da un lato gli Albanesi sono gelosi della propria identità, dall’altro sono attanagliati dall’ansia di apparire conformi agli altri paesi dell’Europa o, meglio, di essere considerati da essi non diversi dalla civiltà europea.

Questo ha prodotto una costituzione che è stata quasi data dall’esterno e non sembra corrispondere alle visioni di fondo degli albanesi e, nel 1995, un codice civile modellato, come fu per il Codice Zogu, sui codici civili della tradizione della civil law. Il risultato è stato un codice ed una costituzione che anziché superare talora hanno aumentato la distanza tra il diritto ufficiale e il comune cittadino, dando spesso luogo alla reviviscenza di istituti degli antichi kanun, ancestrali e crudeli, come il’accennato Feud.

Qui occorre ritornare sui kanun e sulle loro vicende. Come si è detto, con la legislazione di re Zog I si era proceduto ad una graduale eliminazione dei feud di sangue; i quali sono poi stati ufficialmente soppressi del tutto durante il regime comunista. Dopo il 1991, con l’avvento della democrazia ed il vuoto di potere e di organizzazione che ne è conseguito, specie dove affioravano i nuovi problemi concernenti il possesso della terra, hanno generato molte dispute, le quali, in assenza di una adeguata risposta legislativa e da parte del sistema giudiziario, ha provocato il ritorno della gente all’antico kanun, attraverso una gestione personale della giustizia. Purtroppo, il ritorno di libertà individuale inoltre ha determinato la rinascita dei feud di sangue, specialmente nel nord del paese, dove la gente di montagna dipende moltissimo dalle risorse terriere ed è organizzata ancora in grandi famiglie (clans e tribù), le quali costituiscono la rete tradizionale della Comunità. Le cause di questa riapparizione del feud di sangue sono molteplici. Si possono indicare le seguenti circostanze: la risurrezione di feud molto vecchi non del tutto scomparsi durante il regime comunista; i nuovi conflitti sulla proprietà terriera causati dalla rassegnazione delle terre dopo 45 anni di comunismo che spesso è ritenuta non equa; la reviviscenza di situazioni non risolte, secondo la legge del sangue; la mancanza o la debolezza delle forze di polizia nazionale che, assieme alla inadeguatezza ed alla corruzione allontana la fiducia dalle istituzioni e spinge a farsi giustizia da sé; l’aumento della povertà congiunta alla mancanza generale di sicurezza che spingono a fare affidamento, per la protezione personale e delle proprie cose, sulla forza dell’organizzazione famigliare di appartenenza.

Il tutto si realizza in un quadro di aumento del crimine organizzato che origina nuovi feud di sangue i quali ora si vanno estendendo alle zone di pianura per via degli spostamenti delle genti di montagna, che, soprattutto per le difficoltà economiche, emigrano nelle città della pianura senza però rinunciare ai propri costumi. Il baricentro dei feud di sangue è la città di Shkodra. Per promuovere la pace e la riconciliazione sono sorte da poco tempo alcune associazioni senza scopi di lucro con l’intento di ridurre e, se possibile, eliminare la tradizione dei feud di sangue. Una di queste organizzazioni è la lega dei missionari di pace (LPM), un'associazione albanese locale sorta nel novembre del 1991, con ramificazione in tutti i distretti nordici ed in alcune parti del sud. I membri di LPM sono saggi che godono l'alta condizione all'interno della Comunità. Alcuni hanno perso un fratello o un figlio in un feud di sangue e desiderano assicurarsi che altri non saranno esposti a tali perdite di amati.

Secondo le informazioni fornite dalla lega, durante il primo semestre del 2002, nella prefettura di Shkodra, che ha una popolazione di 291.000 abitanti, sono stati consumati 29 omicidi. Diciotto di questi omicidi erano atti di vendetta ed hanno riguardato 54 nuove famiglie sottoposte a un feud di sangue. Per la spinta delle raccomandazioni dell’Avvocato del popolo e dell’opinione pubblica il 30 marzo 2004 il Presidente della Repubblica, Alfred Moisiu, ha organizzato una tavola rotonda sul feud di sangue con i rappresentanti del governo, del Parlamento, dell’Avvocato del popolo, della società, dei mezzi di comunicazione, della magistratura etc., per individuare le migliori e penetranti iniziative capaci di combattere la pratica del feud di sangue, considerato come una ferita grave ed un grandissimo ostacolo per il progresso del paese e dei processi di integrazione. Dalla riunione, alla quale è intervenuto anche il Primo Ministro, è nato un gruppo di lavoro per sradicare il fenomeno del feud di sangue, dichiarato con forza crimine contro la Costituzione ed i diritti dell’uomo; una minaccia inammissibile per il Paese e la sicurezza. Questo dimostra quanto il feud di sangue è visto come un crimine grave che ha perso i caratteri iniziali, i quali peraltro erano legati alla società feudale, e si presenta solo come un crimine che fa regredire la civiltà giuridica del Paese poiché ripropone la vendetta personale e riporta indietro facendo emergere la regola dell’occhio per occhio[8].

Il feud contempla la vendetta diretta a meno che non sia raggiunto un accordo, pare rispecchiare, come si è accennato, ancora il principio riflesso nelle XII tavole: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (Se commise un delitto contro una persona e non abbia raggiunto alcun accordo, si applichi il ‘taglione’).

Mi sono soffermata sul punto perché è uno degli esempi più evidenti di come l’aver dato normative lontane dalla mentalità e dalla vita reale degli albanesi non sta generando un diverso ordine giuridico e, invece, fa regredire la vita sociale e civile.

 

6. – Il nuovo codice civile

 

In questo contesto e senza sciogliere alcuni dei nodi indicati nel 1995 si ritenne opportuno emanare un nuovo Codice civile. Esso non doveva essere la riedizione del precedente Codice Zogu.

L’ottica con la quale si procedette alla redazione del Codice fu, tuttavia, quella di sempre: fare un testo normativo vicino ai codici dell’Europa continentale, senza tener conto della tradizione albanese, quasi che quei codici fossero l’espressione di un modello universale e buono. Espressamente i kanun furono ripudiati in blocco. Inoltre nella commissione chiamata a scrivere il nuovo codice non vi erano studiosi di diritto romano.

Il codice scaturitone da un lato ripristina istituti dell’esperienza mediterranea, dall’altro produce un’assimilazione con concezioni generali ed astratte, non sempre condivisibili. Rispetto alle quali il peso della tradizione e della cultura albanese, a volte, hanno imposto qualche correttivo.

A conforto di ciò in questa sede limiterò l’esame del codice a pochi aspetti, con la consapevolezza che tutto il codice merita un esame penetrante per evidenziare quanto assimilato e quanto no, contribuendo a quella estraneità tra diritto ufficiale e pratica del diritto che affligge la società odierna.

Cito quanto avvenuto in tema di persona. Gli artt. 1 e 2 si occupano dei soggetti del diritto. Già questa dizione è stata accolta acriticamente e deriva dalla discussa concezione della soggettività giuridica. Essa è articolata intorno alla concezione della capacità giuridica ed è di chiara derivazione germanica, come si può vedere leggendo il dettato:

 

Art. 1: «Ogni persona fisica, rispetto ai diritti ed obblighi civili, gode di pari capacità giuridica secondo le condizioni previste dalla legge».

 

Art. 2: «La capacità giuridica si acquista al momento della nascita della persona che nasca viva e termina con la sua morte. Il nascituro se nasce vivo gode della capacità giuridica sin dal momento del concepimento».

 

Appare evidente che il rilievo giuridico dell’uomo viene fatto dipendere dal riconoscimento della legge. Significativo e forse dovuto all’ascendente della visione albanese è il riconoscimento accordato al nascituro «sin dal momento del concepimento». In tal modo sembra che il concepito venga considerato ‘uomo’ e la rilevanza alla sua condizione giuridica non sia frutto di finzione, come si afferma da parte della dottrina italiana. Tuttavia poi la capacità giuridica del nascituro è subordinata alla nascita, così come per ogni persona.

Qui mi pare che vi sia quanto meno un’incertezza per il fatto che da un lato sembra si dia risalto al concepito, come essere vivente e titolare di diritti, dall’altro, subordinando il tutto al fatto che nasca vivo, si recepisce il pensiero che subordina il riconoscimento della persona alla nascita ‘viva’, dando ad intendere che prima della nascita non vi sia ‘vita’.

In proposito la condizione dalla quale si fa dipendere la capacità è che dopo il parto il nato manifesti in qualsiasi modo di essere vivo, non richiedendosi anche che sia ‘vitale’.

Sul punto va osservato che, invece, i kanun davano immediato e diretto risalto al concepito e, in virtù di esso, applicavano non solo le stesse regole della vendetta prevista (nel caso di uccisione) per i nati, ma sottraevano dal Feud la donna incinta.

Un aspetto certamente innovativo ed importante appare, poi, l’assimilazione degli ‘stranieri’ ai cittadini:

 

art. 3: «Gli stranieri godono pari diritti e obblighi riconosciuti ai cittadini albanesi, tranne le eccezioni previste dalla legge».

 

Questo orientamento rispecchia i kanun che davano ampio riconoscimento e protezione agli stranieri. Esso si avvicina alla visione romana del diritto riconosciuto agli stranieri (peregrini).

Si tratta, inoltre, di una dichiarazione di carattere generale importante, anche se poi occorre esaminare l’intera legislazione per vedere quanto peso abbiano le eccezioni introdotte a questo principio. Comunque esso va in controtendenza con l’orientamento europeo che sta creando barriere contro i non appartenenti all’Unione Europea. Le concezioni sembrano invertite: mentre l’Unione europea racchiude nei suoi confini i suoi cittadini, con una logica di esclusione degli altri, l’Albania, memore della tradizione romana, accoglie tutti e tenta di non far differenza tra cittadini e stranieri.

In questa sede sono costretta a fermarmi qui. Mi premeva dare un’idea della complessità del diritto albanese e dei problemi che l’apertura all’Europa (certamente positiva) può creare nella pratica del diritto di ogni giorno.

 

 



 

* Comunicazione presentata in forma scritta al XI Colloquio dei romanisti dell’Europa Centro-Orientale e dell’Asia “Persona e popolo nel sistema del diritto romano. Difesa dei diritti civili e difesa dei debitori. Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale. Necessità dell’insegnamento del diritto romano”, organizzato a Craiova, in Romania, nei giorni 1-3 novembre 2007, dalla Facoltà di Diritto e Scienze Amministrative “Nicolae Titulescu” dell’Università di Craiova, in collaborazione con l’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del CNR, l’Università di Roma “La Sapienza” e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano.

 

[1] L’accostamento al diritto delle XII tavole è fatto da un celebre scritto del 1941: ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano - Lezione tenuta presso il Reale Istituto di Studi Romani in Roma il 27 marzo 1942, in Studime e TeksteStudi e testi, Dega I – Serie I, Juridike, N. 1 – Giuridica N. 1, pubbl. dell’Istituti I Studimevet Shqiptare, 1943, 1-27. L’a., parlando del diritto consuetudinario albanese, sopravvissuto a secoli di sopraffazione, in riferimento alla fonte maggiore di esso, scrive «reggentesi invece con un suo proprio Kanun tradizionale, conosciuto sotto il nome, ormai celebre, di “Kanun di Lek Dukagjini”. Sarebbe però molto più opportuno chiamarlo Kanun delle montagne albanesi. In quello che esso ha di comune nelle varie tribù, tale Kanun consta specialmente di un sistema di principi, di morale civile e di diritto costituzionale, enunciati in forma più stringata ancora che non lo fossero le laconiche leggi delle XII tavole, e talmente vividi nella loro trasparente forma metaforica, da poter, gareggiare, all'effetto mnemonico, con le leggi metriche d'altri paesi. Esso non solo poté sopravvivere ai vari tentativi di unificazione amministrativa e legale dell'Impero turco nel suo ultimo secolo di vita, per effetto dell'interessamento delle potenze europee che vi vedevano un mezzo per fomentare l'autonomia locale, e soprattutto per la sua corrispondenza alla psicologia del popolo; ma, anche costituitosi lo stato albanese e dotatosi di codici e di leggi, le tribù della montagna seguitarono praticamente a reggersi secondo le norme del Kanun, e, dove non era possibile, a pensare e agire secondo lo spirito del Kanun in contrasto con le leggi».

 

[2] V. ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano cit. L’autore dà voce allo stato d’animo degli Albanesi ed alla loro radicata convinzione che la propria identità veniva espressa e salvaguardata dal kanun; con tutto l’articolo citato, nel quale esordisce (v. 7) in questi termini: «Quando, lo scorso anno 1941, all'epico aprirsi della primavera vittoriosa, su tutto l'immenso arco delle Alpi Albanesi s'addensarono minacciose e bene armate, fidenti sopratutto nelle posizioni e nel numero incomparabilmente superiori, le truppe Serbe, poche ma salde divisioni del nostro esercito, attestatesi sulla breve pianura fra Scutari e i monti e nella valle del Drin ne contennero l'impeto e poi le ricacciarono. Ma il fronte era immenso, le insidie vi si potevano celare innumerevoli, le infiltrazioni di bande potevano divenir pericolose. Allora venne finalmente soddisfatto il desiderio delle stirpi della montagna, e ad ogni uomo si concesse un pane e un fucile. Come per incanto in tre giorni, una popolazione primitiva che non ha telegrafo, radio, ferrovie, automezzi, strade, che non ha mai fatto prove di mobilitazione, si trovò in armi al comando dei suoi capi ereditari, pronta a battersi per i suoi confini; occupò i valichi, li difese arditamente, li bagnò ancora una volta del suo sangue ma molto più di quello del nemico secolare. Meraviglia? prodigio? - Nò, per chi conosce il saldo organamento delle stirpi della montagna albanese, la meravigliosa disciplina che le regge in caso di emergenza, lo spirito eroico di cui è informata la psicologia di quella gente. Tale organamento, tale disciplina, tale spirito eroico, con tutti i principi che ne sono come i canoni, con tutte le norme pratiche che ne determinano le attuazioni, nel laconico linguaggio albanese si comprendono in un solo termine: il Kanun, la legge tradizionale».

 

[3] Emblematico appare un articolo del 1942: ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano cit. In esso si trovano affermazioni come queste (9): «L'alta concezione morale e civica, lo spirito eroico che è l’anima di questa legge tradizionale, l'unica sopravvissuta in Europa, ci richiama spontaneamente i ricordi dell'antichità classica, e sopratutto quelli, degli “antiqui mores” romani e delle leggi che ne vennero ispirate, e ci invita a studiare quali relazioni e quali legami di dipendenza possono intercorrere fra essi. Quando il potere di Roma, definitivamente esteso alla costa orientale adriatica, dovette organizzare le varie popolazioni Illiriche che vi costituivano individue collettività, – determinate piuttosto come gruppi etnici a sede non del tutto costante che come provincie a confini precisi, – vi adottò”», ed ancora (10): «C'era un Prefetto per l'Illirico, c'erano colonie romane o castelli di cittadini romani, c'erano legioni, coorti, ali, con proprie sedi, ma l'organizzazione che noi oggi chiameremmo municipale e giudiziaria, fu quella che la sapienza ed equità romana aveva escogitata già almeno dai primi tempi della Repubblica per le province della Sicilia, dell'Africa, della Spagna, della Gallia, con la migliore possibilità di collaborazione fra le autorità proconsolari e quelle locali nel comune interesse, per la più solida garanzia per il buon diritto degli indigeni. Ogni regione che avesse suo centro commerciale nel capoluogo principale o secondario, era organizzata in “conventus iuridicus”, costituito dai nobili, notabili e giudici della regione, e nelle colonie o quasi colonie dove l'elemento romano si era in gran parte sostituito al precedente, “in conventus civium romanorum”. Il Prefetto metodicamente perlustrava la regione e, trattenendosi per ispezione nei vari capoluoghi, vi convocava il “conventus” col quale prendeva in esame le cause, specialmente di diritto civile, secondo norme che egli aveva predefinito con un “edictum” ma che si basavano sul diritto romano, su concetti locali e sullo “ius gentium”; in particolare per la procedura, vigeva ampiamente, se non forse esclusivamente, l'istituto della “recuperatio”: ogni cittadino locale che venisse chiamato in giudizio “in ius”) da un romano, o viceversa, come pure il membro di una comunità che venisse chiamato in giudizio dal membro di un'altra, aveva il diritto di scegliersi una specie di giuria di “recuperatores” che curavano il giusto scioglimento del processo nell'interesse dell'accusato. In seguito, cioè dal periodo degl'Imperatori Illirici in poi, e specialmente dal tempo di Costantino, il “conventus” andò acquistando sempre maggiore importanza tanto da venire a somigliare ad una specie di parlamento provinciale con diritto di presentare lagnanze e proporre migliorie al governo imperiale. Di tali “conventus” storicamente ne conosciamo tre di giuridici (Salona, Narona, Scardona) e uno “civium romanorum” (Lissus, l'odierna Alessio), ma è supponibile che altri ancora ne esistessero in altri centri. La decadenza dell'Impero romano bizantino portò veramente con sé un regime che andava facendosi sempre più di tipo feudale, naturalmente però soltanto nei centri, mentre la popolazione illirica ancora organata in tribù (fis), è presumibile andasse acquistando sempre maggiore autonomia fino a reggersi a sé secondo le tradizioni etniche, forse in parte modificate dalle consuetudini impiantate dai romani. La parola tribù suona male all'orecchio e non rende bene il significato di fis che è un aggruppamento di famiglie di comune origine. Il “fis” corrisponde perfettamente alla “gens” dei romani, come ben dimostra il prof. Carlo Tagliavini nella sua pregevole opera “L'Albanese di Dalmazia (Firenze, Olski, 1937.). Siamo costretti qui all'uso della parola tribù per seguire l'abitudine ormai invalsa negli albanologi».

 

[4] Op. cit., 11: «Le invasioni barbariche specialmente slave, d'altra parte fecero scomparire le popolazioni illiriche dalle pianure, dalle valli e dalle coste, dal nord fin sotto le Bocche di Cattaro, ed influenzarono la costituzione delle tribù illiriche immettendovi, com'è molto probabile, qualche cosa della loro costituzione che aveva già qualche affinità con essa, ma non è affatto da escludersi che anche le costituzioni slave abbiano risentito una forte influenza di quella illirica e, per mezzo suo, forse dei concetti giuridici romani. Venezia, stabilendosi nelle regioni della costa da Cattaro a Vonizza, vi trovò le città prevalentemente latinizzate, più o meno come quelle di Dalmazia, e alcune città albanesi nell'interno, e alcuni castelli con le regioni dipendenti reggentisi a regime feudale (Bizantino, Slavo, Napoletano), sotto signori albanizzati del tutto o quasi, o addirittura albanesi. Soltanto qui e là, nella documentazione di quest'epoca e della immediatamente precedente, affiorano vaghe notizie di tribù pastorali e guerriere che si reggono per conto proprio allo stesso modo che le compagnie di ventura della stessa epoca che in Italia costituivano vere comunità indipendenti e ambulanti le quali entravano liberamente al servizio dell'uno o dell'altro signore; così anche tali tribù, transumanti per necessità di sostentamento, sfuggivano ad ogni dominio governativo, e, avvezze ad una vita aspra e combattiva di liberi pastori, offrivano il proprio aiuto militare all'uno o all'altro governo. Nulla ne sappiamo di preciso dal punto di vista costituzionale e giuridico, ma è molto probabile che si reggessero con uno statuto e un codice tradizionale non scritto, ancora conforme, da una parte, alla psicologia della razza, e dall'altra alla costituzione già consentita da Roma. […] (19) Nel primo libro della Repubblica Cicerone affermava, per bocca di Scipione, che delle tre forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - nessuna gli pareva buona per sé stessa, e che preferibile a tutte era una quarta forma costituita col moderato temperamento di tutte e tre. Questa quarta forma egli trovava appunto nell'ordinamento della repubblica romana. E' per lo meno singolare come queste tre forme di governo si contemperino nel reggimento politico della tribù albanese, poiché troviamo il potere monarchico nel bajraktár, il potere oligarchico nel Consiglio degli anziani (pleq) e quello democratico nella “vogjlija” popolo minuto). […] (21) non poche sono le analogie fra i due diritti per quanto riguarda la libertà e dignità personale; pure nel sentimento di disciplina che è caratteristico del popolo romano, questi aveva vivissimo il sentimento della libertà, quella della patria soprattutto, ma anche quella individuale, come lo dimostrano le leggi che tutelavano i diritti del cittadino romano; ricordare per esempio le Verrine di Cicerone, e il diritto penale secondo il quale le condanne ammesse erano la multa, l'esilio, la morte, ma non le battiture, e solo raramente la prigione; la stessa morte poteva essere quasi sempre evitata andando in esilio. Il romano aveva in orrore l'autorità autocratica».

 

[5] «La giurisprudenza del Kanun è basata su una concezione morale tutta propria d'una stirpe, a quanto appare, nobile e altera, gelosa della propria personale dignità, indipendenza e onore - prerogative però che vengono intese non meno nel loro significato appariscente ed esterno che nel loro con tenuto sostanziale come vere e proprie virtù. E' sorprendente l'affinità di sentire che trova con la psicologia ereditata dai padri, il giovane albanese che si ponga a studiare tra gli elaboratissimi scritti di quel più nobile portavoce dell'onestà romana che fu Cicerone».

 

[6] Il che corrisponde appieno a quanto affermato dai giuristi romani: cfr. D. 36.2.30; D. 23.2.4; IJ. 1.10pr.

 

[7] Sul punto rinvio al mio saggio Donna e matrimonio in Albania – Profilo storico-giuridico, Bari, 1998.

 

[8] Occorre ricordare che la vendetta era assoggettata a minuziosa regolamentazione: Secondo il kanun l’omicida aveva l’obbligo di avvisare la famiglia dell’ucciso per evitare errori nell’individuazione del colpevole; anche questo oggi non avviene più. Il kanun chiedeva alla famiglia dell’ucciso di accordare una tregua (besa), se richiesta dalla famiglia dell’uccisore, di 24 ore, durante le quali l’assassino aveva il dovere di partecipare, senza venire toccato, al funerale della sua vittima. Del rispetto di queste regole e di altre oggi non vi è più osservanza e pertanto la vendetta si avvicina più ad una condotta barbarica che non all’applicazione dell’antico costume. Sul punto e, più in generale, sul problema cfr.: C. Boehm, Blood Revenge: The Anthropology of Feuding in Montenegro and Other Tribal Societies, ed. Lawrence: University Press of Kansas, 1984, 111-12; O. Bowcott, Thousands of Albanian Children in Hiding to Escape Blood Feuds, in The Guardian [UK], September 30, 1998; S. Capra, Albania proibita. Il sangue, l’onore e il codice delle montagne, Milano 2000; J. Perlez, Blood Feuds Draining a Fierce Corner of Albania, in The New York Times, April 15, 1998; M. Rodina, Blood Code Rules in Northern Albania, in Agence France-Presse dispatch, June 30, 1999.