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Tarwacka-Xiamen, pazdziernik-2010 347 - CopiaANNA TARWACKA

Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione

Università Cardinale Stefan Wyszyński di Varsavia

 

Appunti su requisiti, percorso ed effetti della manumissio censu

 

 

ABSTRACT: During the census the censors were able to conduct a manumission of a slave in the form of manumissio censu, which most frequently took place on the slave owner’s initiative (Ulp. 1.8). Nevertheless the magistrate was free to disagree. Censor's decision on entering a slave into the list of citizens had a constitutive nature, hence it resulted in granting citizenship, grounds for which was a decision of the assembly expressed in the lex centuriata, which included also a delegation of this competency. However the moment of acquiring the citizen's rights was the ceremony of lustrum, which made the census come into force (Cic., De or. 1.40.183; FD 17). Nonetheless it seems that the manumitted enjoyed freedom from the moment of receipt of his declaration.

 

 

Tanto la schiavitù quanto le manomissioni erano, per i giuristi romani, istituti iuris gentium[1]. Ogni società doveva regolamentare nel proprio ius civile la forma e gli effetti giuridici delle manomissioni. I Romani ricorrevano a metodi di manomissioni formali, collegati al conferimento della cittadinanza[2], nonché a metodi informali[3]. Questi ultimi portavano a una libertà soltanto di fatto, ma non giuridica. Fu soltanto la lex Iunia Norbana[4] a conferire ai liberti informali lo status civitatis di Latini giuniani.

 

Nel diritto romano, la manomissione formale si effettuava in tre modi: per testamento (manumissio testamentaria), nel procedimento in iure davanti a un magistrato con giurisdizione (manumissio vindicta) o in occasione del censo (manumissio censu)[5]. Tale catalogo trova conferma tanto nelle fonti non giuridiche[6] quanto in quelle giuridiche.

 

Cic. Top. 10: ...tum partium enumeratio, quae tractatur hoc modo: Si neque censu nec vindicta nec testamento liber factus est, non est liber; neque ulla est earum rerum; non est igitur liber.

 

Nei Topica, scritti dopo la morte di Cesare nel 44 a.C.[7], spiegando in cosa consista l’elencazione delle partes, Cicerone ricorre, a titolo di esempio, alle manomissioni. Osserva quindi che qualora uno schiavo non sia stato manomesso né durante il censo, né nel procedimento in iure, né per testamento, non è libero. Quanto all’elenco in oggetto, trattasi quindi di un numerus clausus. Soltanto il ricorso a una di queste tre manumissiones permette di acquisire la libertà.

 

G. 1.17: Nam in cuius personam tria haec concurrunt, ut maior sit annorum triginta et ex iure Quiritum domini et iusta ac legitima manumissione liberetur, id est vindicta aut censu aut testamento, is civis Romanus fit, sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit.

 

Nel primo libro delle Istituzioni Gaio discorre dell’acquisizione della libertà e della cittadinanza romana. Ritiene che al gruppo di iustae ac legitimae manumissiones appartengano proprio la manumissio censu, vindicta e testamento[8]. Aggiunge che per acquisire la cittadinanza il liberto, oltre ad essere stato liberato in uno dei tre modi suddetti, doveva aver compiuto, in virtù della lex Aelia Sentia[9], 30 anni ed aver ottenuto la libertà da un proprietario quiritario[10].

Dai brani in parola si evince quindi che la manumissio censu portava all’acquisizione della libertà e della cittadinanza romana. In merito a questa forma di manomissione si hanno alcune perplessità riguardo all’introduzione e al rapporto cronologico con le altre. In primo luogo occorre precisarne la procedura e i requisiti; quindi rispondere alla domanda quando il liberando acquisisse la libertà e la cittadinanza: con l’iscrizione del censore ovvero dopo il lustrum e se l’iscrizione fosse di carattere dichiarativo o costitutivo.

Alla manumissio censu si addiveniva in occasione del censo effettuato in epoca regia dal re, e dopo, in epoca repubblicana, dai consoli e probabilmente dal 443 a.C. dai censori. Stando alle fonti, l’istituto del censo sarebbe stato introdotto dal penultimo re Servio Tullio[11].

 

Liv. 1.42.5: Censum enim instituit, rem saluberrimam tanto futuro imperio, ex quo belli pacisque munia non viritim, ut ante, sed pro habitu pecuniarum fierent; tum classes centuriasque et hunc ordinem ex censu discripsit, vel paci decorum vel bello[12]

 

Narra Livio che il re introdusse il censo per ripartire in seguito i gravami, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, non indistintamente, ma proporzionalmente al patrimonio dei cittadini. Applicando il criterio patrimoniale, divise il popolo in cinque classi e centurie.

Dion. Hal. 4.22 [13]

 

@O de; Tuvllio" kai; toi'" ejleuqeroumevnoi" tw'n qerapovntwn - metevcein th'"

ijsopoliteiva" ejpevtreye. keleuvsa" ga;r a{ma toi'" a[lloi" a{pasin ejleuqevroi"

kai; touvtou" timhvsasqai ta;" oujsia", eij" fula;" katevtaxen aujtou;" ta;"  

kata; th;n povlin tevttara" uJparcouvsa". - kai; pavntwn ajpevdwke tw'n koinw'

aujtoi" metevcein, w|n toi'" a[lloi" dhmotikoi'".

 

Dionigi di Alicarnasso informa che Servio Tullio permise ai liberti di acquisire la cittadinanza e ordinò di censirli con gli altri cittadini e iscriverli nelle tribus. Il re non introdusse un nuovo modo di manomissione, ma acconsentì di conferire la cittadinanza a quelli che erano stati liberati in precedenza[14]. Se ne desume che fino ad allora i Romani avessero liberato i propri schiavi senza che questi potessero acquisire la cittadinanza[15]: una prassi assai diffusa nei paesi antichi i cui cittadini custodivano con gelosia i propri diritti politici.

C’è da chiedersi quali forme di manomissione fossero applicate nel periodo regio prima delle riforme serviane. Si ritiene che sin dai tempi di Romolo[16] si riunissero i comitia curiata che, pur avendo un ruolo politico probabilmente molto contenuto, assolvevano importanti funzioni di diritto privato: innanzitutto vi si proclamavano i testamenti calatis comitiis[17]. Stando al racconto di Gellio[18], ciò accadeva in populi contione dove potevano presentarsi anche i testamenti fatti dalle donne[19]. Un’altra forma primigenia del testamento era quella in procinctu[20]. Si discusse se la manomissione di schiavi vi fosse ammessa[21]. Si afferma che le forme arcaiche di testamento dovessero esaurirsi nella heredis institutio: non vi si poteva statuire altro, tanto più chiamare all’eredità uno schiavo e nel contempo liberarlo. Trattasi comunque di argomenti e silentio che non sembrano convincenti. Che il testamento fosse venuto a formarsi per permettere al testatore di istituire un erede unico cui trasmettere anche i sacra familiaria non esclude per nulla che ben per tempo si fosse cominciato ad aggiungere ai testamenti altre disposizioni. Le donne, infatti, non trasmettevano sacra, ma solo patrimoni, eppure sin dall’epoca regia potevano fare testamenta calatis comitiis[22]. Può supporsi che sin dai tempi più remoti si praticasse la liberazione testamentaria di schiavi[23], anche se, come si è già osservato, la libertà non si accompagnava in un primo tempo alla cittadinanza.

Difficile dire invece da quando si cominciò a ricorrere alla manumissio vindicta. Per alcune fonti, la cui attendibilità risulta però alquanto sospetta, all’inizio della repubblica. Cacciato da Roma, Tarquinio il Superbo prese parte a vari complotti per riprendere il potere. A uno di questi si accodarono giovani delle famiglie Vitelli, Aquilii e i figli del console Bruto. Uno degli schiavi, intercettate lettere compromettenti, le recapitò ai consoli. I giovani furono giustiziati.

 

Liv. 2.5.9-10: Secundum poenam nocentium, ut in utramque partem arcendis sceleribus exemplum nobile esset, praemium indici pecunia ex aerario, libertas et civitas data. Ille primum dicitur vindicta liberatus; quidam vindictae quoque nomen tractum ab illo putant; Vindicio ipsi nomen fuisse. Post illum observatum ut qui ita liberati essent in civitatem accepti uiderentur.

 

Lo schiavo che portò alla cattura dei congiurati era stato liberato vindicta, e poiché, a quanto pare, si chiamava Vindicius, si pensò che avesse ispirato il nome dell’istituto[24]. Vindicta era chiamata una pertica o bastone usata dall’attore nel processo legis actio sacramento in rem per confermare che la res gli apparteneva secondo il diritto dei Quiriti, e in seguito anche dall’adsertor libertatis[25] allorché affermava hunc hominem liberum esse aio. Gaio l’identificava con la festuca[26]. Ad ogni modo importa sapere che si riteneva che Vindicio fosse stato il primo ad essere stato liberato in questo modo e che oltre alla libertà avesse ottenuto pure la cittadinanza, il che porterebbe a pensare che dalle riforme di Servio Tullio un atto si accompagnasse di regola all’altro[27]. Secondo Plutarco a Vindicio fu pure concesso di votare in una tribù di sua scelta[28].

L’affrancamento di uno schiavo non era per lo Stato indifferente[29]. Diventando cittadino, lo schiavo rinfoltiva le schiere dei clienti del suo patrone, alterando gli equilibri in assemblea. Può supporsi che all’inizio lo Stato volesse, in merito, poter dire la sua. Nel caso di testamentum calatis comitiis l’esercizio delle funzioni di controllo assicurava la presenza del populus. Nel caso del testamentum in procinctu la dichiarazione di volontà del testatore, ancorché unilaterale e non soggetta ad approvazione, veniva fatta in presenza dei commilitoni e dopo gli auspici[30]. Parerebbe che la manumissio testamentaria fosse la prima forma di affrancamento, applicata già in epoca regia. Festo menziona anche la manumissio sacrorum causa[31], nella quale gli studiosi scettici riguardo alla possibilità di manomissione nel quadro delle più antiche forme di testamento vedono l’anello mancante[32], quindi una forma di manomissione vigente prima delle riforme di Servio Tullio. Sembra comunque che sacrorum causa non indichi la forma, ma lo scopo della manomissione: il proprietario si sarebbe avvalso di una delle manumissiones previste dal diritto civile per assegnare lo schiavo al servizio della divinità nel tempio[33].

Le fonti non chiariscono se la riforma di Servio abbia subito portato al formarsi della manumissio censu. A mio avviso fu applicata sin dall’epoca regia. Quel tipo di manomissione garantiva allo Stato di controllare il fenomeno in quanto l’iscrizione nell’elenco dei cittadini era subordinata alla decisione ed effettuata dal re, e successivamente dal magistrato.

Nel racconto di Livio, particolare importante, Vindicio viene liberato per volontà della civitas, e non del proprietario, già giustiziato per perduellio. Almeno in questo caso il parere dello Stato fu decisivo. Lo storico sembra attendibile: soltanto le manomissioni posteriori, sul modello della prima, si effettuavano in presenza del proprietario nelle vesti di privato cittadino. L’addictio, è vero, era di pertinenza di un magistrato con iurisdictio, ma questi non poteva prendere una decisione diversa al cospetto di un’azione concorde del dominus e dell’adsertor libertatis[34]. Alcuni studiosi[35] propendono per l’anteriorità della manumissio vindicta rispetto a quelle testamentarie e legate al censo. Ma a me sembra che, in ordine cronologico, fu terza. In primo luogo perché in occasione di tali manomissioni il controllo dello Stato risultava assai contenuto. C’è da considerare, poi, che si trattava di una forma più semplice e comoda delle altre, cui si poteva riccorrere ad ogni momento, e non soltanto ogni cinque anni in occasione del censo o mortis causa, ove l’effetto si produceva dopo la morte del manomettente. Parrebbe quindi che la forma più semplice sia posteriore e che gradualmente abbia scalzato le altre, più complesse.

Meritevoli di attenzione sono senz’altro le modalità e i requisiti della manumissio censu. Da considerare, in particolare, le figure del proprietario, del censore (o di altri incaricati del censo) nonché dello stesso schiavo.

 

Ulp. 1.8: Censu manumittebantur olim, qui lustrali censu Romae iussu dominorum inter cives Romanos censum profitebantur.

 

Il brano è tratto da una compilazione postclassica, Tituli ex corpore Ulpiani; in quanto opera di carattere antiquario, probabilmente ci è pervenuto inalterato. Il giurista informa che, in passato, liberati censu erano coloro che in occasione del censimento chiedevano, su ordine dei proprietari, di venire iscritti tra i cittadini romani[36].

Munito dal proprietario dell’apposito iussum[37], lo schiavo[38] si presentava al censore ed effettuava la professio. David Daube[39] rileva a ragione una marcata differenza semantica tra iussum in occasione di manumissio censu e la forma verbale iubere nella dizione Stichum servum meum liberum esse iubeo usata nel fare testamento. Nel primo caso il proprietario ordinava di presentarsi al censore, non rinunciando in principio del diritto di proprietà; nel secondo era il proprietario stesso a concedere allo schiavo una libertà soggetta soltanto a termine (dies a quo). Vale pure notare una possibile analogia con l’actio quod iussu, elaborata nel diritto pretorio, che supponeva la responsabilità del proprietario per i debiti contrattuali dello schiavo contratti per iussum. Tale ingiunzione del proprietario doveva essere noto al contraente dello schiavo. Forse in caso di manumissio censu il proprietario non dava ordini allo schiavo – peraltro, come si sarebbe  potuto verificarlo? – ma si rivolgeva direttamente al censore. Ciò poteva succedere a censimento già avviato, allorché il pater familias notificava sé e la sua familia: informato dal pater, il censore avrebbe in seguito accolto la notifica dello schiavo.

In tal caso la presenza del proprietario in occasione dell’iscrizione dello schiavo nell’elenco dei cittadini sembrerebbe piuttosto ovvia[40]. Lo confermerebbe un appunto su una legge e un editto del console C. Claudio del 177 a.C.

 

Liv. 41.9.9-12: Legem dein de sociis C. Claudius tulit <ex> senatus consulto et edixit, qui socii [ac] nominis Latini, ipsi maioresve eorum, M. Claudio T. Quinctio censoribus postve ea apud socios nominis Latini censi essent, ut omnes in suam quisque civitatem ante kal. Novembres redirent. Quaestio, qui ita non redissent, L. Mummio praetori decreta est. Ad legem et edictum consulis senatus consultum adiectum est, ut dictator, consul, interrex, censor, praetor, qui nunc esset <quive postea futurus esset>, apud eorum quem <qui> manu mitteretur, in libertatem vindicaretur, ut ius iurandum daret, qui eum manu mitteret, civitatis mutandae causa manu non mittere; in quo id non iuraret, eum manu mittendum non censuerunt. Haec in posterum cauta iussique edicto C. Claudi cons. * * * Claudio decreta est.

 

Livio si riferisce al problema dell’acquisizione della cittadinanza dei Latini prisci in virtù del ius migrandi. Per potersene avvantaggiare un Latino doveva lasciare nella propria città natale un figlio. Il requisito veniva aggirato sottoponendosi alla potestas di un Romano che in seguito effettuava una manumissio che portava all’acquisizione della cittadinanza. La legge e l’editto del console Claudio vietavano un tale prassi in fraudem legis e obbligavano i Latini che figurassero in tali elenchi a ritornare nelle loro civitates, nonché istituivano un apposito tribunale presieduto dal pretore[41]. Il Senato vi aggiunse un senatoconsulto in virtù del quale il proprietario che volesse liberare uno schiavo doveva professare lo iusiurandum, dichiarando di non manomettere allo scopo di permettere l’acquisizione della cittadinanza: in caso contrario il magistrato era obbligato a negare la manomissione. A quanto pare, tale regola riguardava sia la manumissio censu che vindicta, poiché non si indirizzava soltanto a censori in carica e futuri, ma anche a dittatori, consoli, interré e pretori[42]. Al proprietario era chiesto di prestare giuramento: se ne evince che di regola presenziasse all’atto dell’iscrizione dello schiavo nell’elenco dei cittadini.

Resta ancora da stabilire chi decidesse la manumissio censu. Lo schiavo si presentava su ordine del proprietario, ma l’iscrizione veniva effettuata dal censore, il cui ruolo, pertanto, sembrerebbe determinante[43].

 

G. 1.140: Quin etiam invito quoque eo, cuius in mancipio sunt, censu libertatem consequi possunt, excepto eo, quem pater ea lege mancipio dedit, ut sibi remancipetur; nam quodam modo tunc pater potestatem propriam reservare sibi videtur eo ipso, quod mancipio recipit. Ac ne is quidem dicitur invito eo cuius in mancipio est censu libertatem consequi, quem pater ex noxali causa mancipio dedit, veluti quod furti eius nomine damnatus est, et eum mancipio actori dedit; nam hunc actor pro pecunia habet.

 

Gaio si era occupato dello statuto delle persone in mancipio che potessero essere liberate in virtù di manumissio censu, vindicta o testamento e diventare pertanto sui iuris (G. 1.138)[44], ma nel brano in parola dimostrava che alla liberazione censu di una tale persona si potesse addivenire anche senza il consenso di colui che l’avesse nel suo potere. Ciò risultava escluso allorché il pater familias avesse preteso l’obbligo di remancipatio del dato in mancipium, nonché in noxae datio. Togliere al danneggiato il diritto di decidere la sorte della persona in mancipio sarebbe stato ingiusto poiché l’autore del delitto gli era stato dato a ricompensa del danno subito. Dal brano può evincersi che poiché nel caso in oggetto la manumissio censu poteva effettuarsi senza il consenso del detentore del potere, la decisione spettasse al censore, e il iussum non costituisse una conditio sine qua non.

Gli studiosi si sono chiesti se l’iscrizione effettuata dal censore fosse dichiarativa o costitutiva. Mommsen[45] asseriva che il censore ricorresse a una finzione: iscrivendo lo schiavo nell’elenco dei cittadini, assumeva per vero che questi fosse da tempo cittadino romano. I sostenitori di questo punto di vista richiamano anzitutto un brano di un’orazione ciceroniana del 62 a.C. in difesa del poeta Archia[46].

 

Cic., Pro Arch. 11: ...quoniam census non ius civitatis confirmat, ac tantum modo indicat eum qui sit census [ita] se iam tum gessisse pro cive.

 

Per l’oratore l’iscrizione nell’elenco non confermava il diritto di cittadinanza, ma indicava unicamente che l’iscritto agiva da cittadino. Nel prosieguo Cicerone notava che Archia aveva più volte fatto testamento in accordo con il diritto romano ed era stato erede. Il brano indicherebbe che per essere iscritto nell’elenco dei cittadini occorreva aver già conseguito la cittadinanza. Lo schiavo quindi avrebbe dovuto essere trattato dal censore come se fosse già diventato cittadino.

La mia interpretazione delle parole di Cicerone è un po’ diversa. Il cittadino, la cui non iscrizione nell’elenco risultasse giustificata[47] (come nel caso di Archia che durante gli ultimi censimenti si trovava con Lucullo nelle sue province), conservava il suo status civitatis, che veniva soltanto notificato. Il brano di Cicerone non permette invece di asserire che l’iscrizione nell’elenco confermasse sempre uno status civitatis già esistente. Nel caso di uno schiavo la decisione di inserirlo nell’elenco, e quindi di conferirgli la cittadinanza, veniva presa dal censore, la cui competenza in materia sembra scaturire da una specie di mandato[48] datogli dai comitia centuriata, che l’avevano eletto, poiché, nel periodo repubblicano, il diritto di conferire la cittadinanza spettava unicamente ai comizi[49]. Altri soggetti potevano agire in materia soltanto per delega. Non sembra quindi necessario, né utile, ricorrere per la manumissio censu alla finzione di cittadinanza[50]. Un ulteriore argomento può rinvenirsi in Dionigi di Alicarnasso (4.22) che informa che la cittadinanza romana dei vecchi liberti era contemporanea all’iscrizione nell’elenco dei cittadini.

Non ci sono invece ragioni per arguire che l’iscrizione del censore avesse carattere assoluto: se errata, era invalida e non produceva l’acquisizione della cittadinanza.

Gli antichi discussero animatamente sul momento in cui la manumissio censu producesse i suoi effetti.

 

Cic., De orat. 1.40.183: Quid? De libertate, quo iudicium gravius esse nullum potest, nonne ex iure civili potest esse contentio, cum quaeritur, is, qui domini voluntate census sit, continuone, an, ubi lustrum sit conditum, liber sit?

 

Commentando nel De officiis, opera ultima, scritta poco prima della morte, le astrusità del ius civile, Cicerone annoverava tra i quesiti più contorti quello di stabilire se uno schiavo, iscritto per volontà del proprietario tra i cittadini, diventasse libero immediatamente o soltanto a conclusione del lustrum[51].

Perplesso in merito fu anche un giurista del periodo classico in cui ci si imbatte nel Fragmentum Dositheanum, parte di un manuale di latino scritto da Pseudo-Dositeo[52] all’inizio del III sec. a.C. e probabilmente composto di 12 libri, di cui il quinto, concernente le manomissioni degli schiavi, è databile al 207 o poco prima. Dell’opera si conservano due manoscritti, oggi a Leida e a Parigi, suddivisi in due colonne parallele, con il testo latino e a fronte la traduzione in greco.

Si è dibattuto dell’autore, cui Pseudo-Dositeo ha largamente attinto, e dell’epoca in cui è stata scritta. Nel convincente ragionamento di Honoré[53] si tratta dell’autore di Regulae, un’opera della seconda metà del II secolo, forse Gaio[54].

 

FD 17: Et qui censu manumittitur, si triginta annos habeat, civitatem Romanam nanciscitur. Census autem Romae agi solet et peracto censu lustrum conditur: est autem lustrum quiquennale tempus quo Roma lustratur. Sed debet hic servus ex iure Quiritium manumissoris esse, ut civis Romanus fiat. Magna autem dissensio est inter peritos, utrum eo tempore vires accipiant omnia, in quo census, an eo tempore, quo lustrum conditur. Sunt enim qui existimant non alias vires accipere quae in censu aguntur, nisi haec dies sequatur, qua lustrum conditur; existimant enim censum descendere ad diem lustri, non lustrum recurrere ad diem census. Quod ideo quaesitum est, quoniam omnia quae in censu aguntur lustro confirmantur. Sed in urbe Roma tantum censum agi notum est; in provinciis autem magis professionibus utuntur.

 

Per l’autore del brano il manomesso censu acquisiva la cittadinanza romana a condizione che avesse compiuto 30 anni e il manomettente ne fosse il proprietario quiritario. Il giurista continuava spiegando che dopo il completamento del censo si procedeva al lustrum, come si chiamava il tempo in cui, ogni cinque anni, Roma si purificava con il sacrificio. Al censo si procedeva nella sola Roma; nelle province si effettuavano le professiones. Tra i periti, notava l’autore, v’era un gran dibattere sull’efficacia di quanto fosse annotato durante il censo: diventava efficace nel corso del censimento o soltanto dopo il lustrum? Non manca chi sostenga che ogni atto compiuto durante il censo non sia efficace sino al giorno del lustrum.

 

Censorin., De die nat. 13-14: Idem tempus anni magni Rom anis fuit, quod lustrum appellabant, ita quidem a Servio Tullio institutum, ut quinto quoque anno censu civium habito lustrum conderetur; sed non ita a posteris servatum. Nam cum inter primum a Servio rege conditum lustrum et id, quod ab imperatore Vespasiano V et T. Caesare III cons. factum est, anni interfuerunt paulo minus DCL, lustra tamen per ea tempora non plura quam LXXV sunt facta et postea plane fieri desierunt.

 

Censorino, grammatico e antiquario della prima metà del III sec d.C., in De die natali scrisse che Servio Tullio decise che ogni cinque anni, a conclusione del censo, si procedesse a Roma al lustro[55]. La volontà del re non fu rigorosamente rispettata, perché nei 650 anni trascorsi dai tempi di Servio (566 a.C.) a quelli di Vespasiano (l’ultimo lustro fu effettuato nel 74 d.C.) non si ebbero più di 75 lustri, che poi non ebbero più luogo.

Le perplessità sul rapporto tra gli effetti del censo e il lustro potevano risalire al fatto che quest’ultimo venisse celebrato alquanto di rado. Non tutti i censimenti terminavano con le offerte sacrificali[56], il che poteva suscitare confusione e incertezza.

Stando alle fonti, non si pervenne a risolvere il problema. Alcuni volevano le decisioni prese durante il censimento efficaci soltanto dopo il lustrum, altri con ogni probabilità ribattevano puntando sui disagi di quella soluzione, forse riuscendo, nella prassi, ad avere la meglio, come si deduce dall’indiretta testimonianza di un brano di Festo.

 

Fest. 454 L. (s.v. senatores): ...et nunc cum senatores esse iubentur “quibuscumque in senatu[m] sententiam dicere licet”; quia hi, qui post lustrum conditum ex iunioribus magistratum ceperunt, et in senatu sententiam dicunt, et non vocantur senatores ante quam in senioribus sunt censi.

 

Al senato potevano pure prendere la parola coloro che erano stati chiamati a ricoprire incarichi che dopo il lustro li avrebbero autorizzati a entrare nell’assemblea. Ma fino all’iscrizione, da effettuarsi durante il censimento successivo, tra le centurie dei seniores, non venivano chiamati senatori[57]. Il titolo di senatore risultava quindi contemporaneo all’iscrizione e non doveva essere confermato dal lustro. Non più di un indizio, ma alquanto eloquente, che autorizza a collegare l’efficacia non al lustro, ma alla sola iscrizione.

Non può neanche escludersi che nel momento dell’iscrizione il liberto fosse già trattato da libero, ma che cominciasse a godere dei privilegi di cittadino soltanto dopo il lustro. Gli effetti della manumissio censu possono dividersi in privati e pubblici. Per il diritto privato, il libertus si trovava da subito sotto il patronato; ma le facoltà di diritto pubblico gli venivano assegnate dopo. Tale soluzione avrebbe autorizzato il patrono alla revocatio in servitutem qualora il liberto avesse dimostrato ingratitudine. In teoria, anche il censore poteva modificare l’iscrizione fino al sacrificio purificatore[58].

Cicerone informa di un requisito supplementare cui erano soggette le manomissioni compiute durante il censimento.

 

Cic., Pro Caec. 99: Iam populus cum eum vendit qui miles factus non est, non adimit ei libertatem, sed iudicat non esse eum liberum qui, ut liber sit, adire periculum noluit; cum autem incensum vendit, hoc iudicat, cum ei qui in servitute iusta fuerunt censu liberentur, eum qui, cum liber esset, censeri noluerit, ipsum sibi libertatem abiudicavisse.

 

Coloro che si trovassero in servitute iusta, diventavano liberi tramite l’iscrizione nell’albo dei cittadini. Il brano è tratto dal discorso Pro Caecina, in cui Cicerone ha affrontato il problema della perdita della libertà da parte dei renitenti alla leva e degli incensi trattandogli come persone che asserissero di aver voluto rinunciare alla libertà. Per contrasto, l’oratore si sofferma su coloro che avessero conseguito la libertà durante il censimento sottolineando che si trattava di persone in iusta servitus.

 

G. 1.11: Ingenui sunt, qui liberi nati sunt; libertini qui ex iusta servitute manumissi sunt.

 

Anche a detta di Gaio liberti dovevano ritenersi coloro che fossero stati schiavi per legge[59]. Ragionando a contrario, colui che non fosse iustus servus non poteva diventare liberto di diritto civile anche in caso di manumissio[60]. Pertanto, a dispetto di una manomissione liber homo bona fide serviens[61], non avrebbe conseguito la cittadinanza romana tramite manumissio censu. Ciò farebbe pensare che l’iscrizione del censore avesse valore costitutivo soltanto qualora alla manumissio censu fosse soggetta una persona in iusta servitus.

Fino a quando si continuò ad applicare la manumissio censu? Legata al censimento, non poté sopravvivervi. Gli ultimi censori furono chiamati, per volontà di Augusto[62], nel 22 a.C.; dopo, della censoria potestas s’incaricavano gli imperatori. Talvolta, prendendo possesso dell’ufficio di censore, il princeps si sceglieva un collega[63]. Riguardo al principato non si hanno notizie di manumissio censu, ma Gaio e il giurista citato da Pseudo-Dositeo ne scrissero come di un istituto ancora vigente. Soltanto nelle Regulae Ulpiani fu usata la parola olim, adatta a un istituto ormai abbandonato. Può supporsi pertanto che, sempre più di rado, la manumissio censu si applicasse ancora nel I-II e fors’anche nel III sec. d.C. Poi non vi si fece più ricorso[64].

Sembrerebbe che la manumissio censu, una delle tre forme di manomissioni civili, si manifestò a Roma a seguito delle riforme di Servio Tullio. Dapprima il conferimento della cittadinanza fu posteriore alla manomissione, poi – probabilmente ancora in epoca regia, l’iscrizione nell’albo significò nel contempo libertà e cittadinanza. La manumisso censu parrebbe posteriore alla manumissio testamentaria, ma anteriore alla manumissio vindicta. L’atto di conferimento della cittadinanza e di manomissione spettava al censore in virtù della delega dei comitia centuriata rilasciata nel momento dell’elezione nonché del iussum del proprietario; del iussum però poteva farsi a meno. Nella prassi, si conseguiva la libertà contemporaneamente all’iscrizione all’albo; per taluni dopo il lustrum. Quanto all’acquisizione dei diritti cittadini, probabilmente avveniva dopo che il censore aveva concluso i sacrifici purificatori. L’efficacia era inoltre subordinata alla iusta servitus del liberando, sebbene la manumissio censu fosse accessibile anche alle personae in mancipio. Si legge in alcuni giurisperiti che le manomissioni in occasione del censimento si praticassero ancora nel II sec. d.C,, ma c’è da credere che all’epoca l’istituto fosse ormai pressoché disapplicato.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Così Ulpiano nelle Istituzioni, D. 1.1.4.

 

[2] Questo era molto sorprendente per gli stranieri. Cfr. I. Bieżuńska-Małowist, M. Małowist, Niewolnictwo [Schiavitù], Warszawa 1987, 194; F. Reduzzi Merola, ‘Servo parere’. Studi sulla condizione degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli 1990, 37-38; C. Masi Doria, ‘Civitas, operae, obsequium’. Tre studi sulla condizione giuridica dei liberti, Napoli 1999 (ristampa), 1-4.

 

[3] Cfr. E. Weiss, Manumissio, RE 14.2, Stuttgart 1930, coll. 1366-1377; W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908, 437 ss.; A.M. Duff, Freedmen in the Early Roman Empire, Cambridge 1958, 23 ss.; S. Treggiari, Roman Freedmen during the Late Republic, Oxford 1969 (ristampa London 2000), 20 ss.; O. Robleda, Il diritto degli schiavi nella Roma antica, Roma 1976, 105 ss.; A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, 185 ss.; Idem, Roman Slave Law, Baltimore-London 1987, 24 ss.; C. Masi Doria, ‘Civitas, operae, obsequium’..., 1 ss.; P. López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma. De los orígenes a los Severos, Madrid 2007, 16-37. Vedi anche A. Tarwacka, Prawne aspekty urzędu cenzora w starożytnym Rzymie [Aspetti giuridici della magistratura censoria nell’antica Roma], Warszawa 2012, 195-214.

 

[4] Cfr. G. Rotondi, ‘Leges publicae populi Romani, Milano 1912, 463-464; M. Zabłocka, Przemiany prawa osobowego i rodzinnego w ustawodawstwie dynastii julijsko-klaudyjskiej [Trasformazioni del diritto delle persone e della famiglia nella legislazione della dinastia Giulio-Claudia], Warszawa 1987, 14-16.

 

[5] Nel diritto postclassico fu introdotta inoltre la manumissio in ecclesia.

 

[6] Cfr. Plaut., Cas. 504: Tribus non conduci possum libertatibus. Ma vedi anche O. Fredershausen, De iure Plautino et Terentiano, Göttingen 1906, 34.

 

[7] Cfr. K. Kumaniecki, Cyceron i jego współcześni [Cicerone e i suoi contemporanei], Warszawa 1959, 484.

 

[8] Cfr. FD 5: Antea enim una libertas erat et manumissio fiebat vindicta vel testamento vel censu et civitas Romana competebat manumissis; quae appellatur iusta manumissio. Sul Fragmentum Dositheanum vedi infra.

 

[9] Cfr. G. Rotondi, op. cit., 455-456. Vedi anche W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery. The Condition of the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1908, 542; M. Zabłocka, Przemiany..., 13-14. Si deve anche notare che la lex Fufia Caninia non limitava le manomissioni censu – G. 1.44: Itaque licet iis, qui vindicta aut censu aut inter amicos manumittunt, totam familiam suam liberare, scilicet si alia causa non inpediat libertatem.

 

[10] Cfr. FD 17, di cui infra.

 

[11] Cfr. H. Last, The Servian Reforms, «JRS» 35/1945, 30-48, a parere del quale l’introduzione del censo era connesso con la ristrutturazione dell’esercito romano in formazione di hoplites nel V secolo a.C.

 

[12] Il frammento viene inserito nella ricostruzione delle leges regiae (Serv. Tull. 5; FIRA). Cfr. G. Franciosi (a cura di), ‘Leges regiae’, Napoli 2003, 160-161. Vedi anche G. Poma, Dionigi d'Alicarnasso e la cittadinanza romana, «MEFRA» 101.1, 1989, 192-197.

 

[13] Leg. reg. Serv. Tull. 3. Cfr. G. Franciosi (a cura di), ‘Leges regiae’, 159-160.

 

[14] Cfr. A. Watson, Roman Slave Law, Baltimore, MD 1987, 24.

 

[15] E. Volterra, Manomissione e cittadinanza, [in:] Studi in onore di Ugo Enrico Paoli, Firenze 1956, 695-699 argomenta che un libero senza cittadinanza era nell’antichità inimmaginabile; pertanto il conferimento della sola libertà, disgiunto dal conferimento della cittadinanza, era di fatto impossibile. Vedi però H. Chantraine, Zur Entstehung der Freilassung mit Burgerrechtserwerb in Rom, «ANRW» I.2, Berlin-New York 1972, 59-63, il quale nota che il costume romano di conferire la cittadinanza ai liberti era ritenuto singolare. Lo studioso osserva inoltre che i Romani non conoscevano categorie del popolo quali per esempio i metechi, privi di cittadinanza, ma integrati, ancorché non uguali, alla società. Cfr. anche Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 3a ed., III, rist. Graz 1952, 58-64, secondo il quale alle origini avevano la cittadinanza soltanto i patrizi, ma non i plebei ed i clienti. M. Kaser, Die Anfänge der ‘manumissio’ und das fiduziarisch gebundene Eigentum, «ZSS» 61, 1941, 153-186, pensa che soltanto la manumissio testamento garantiva lo status del cliente e le altri la cittadinanza. Cfr. C. Masi Doria, ‘Civitas’ ‘operae’ ‘obsequium’. Tre studi sulla condizione giuridica dei liberti, Napoli 1993, 9-15.

 

[16] Dion. Hal. 2.12.14 (= leg. reg. Rom. 3). Cfr. G. Franciosi (a cura di), op. cit., 11.

 

[17] Cfr. J. Zabłocki, Kompetencje ‘patres familias’ i zgromadzeń ludowych w sprawach rodziny w świetle ‘Noctes Atticae’ Aulusa Gelliusa [Le competenze dei patres familias e delle assemblee popolari nelle questioni familiari alla luce delle `Noctes Atticae’ di Aulo Gellio], Warszawa 1990, 115-119; Idem, Le più antiche forme del testamento romano, [in:] ‘Ius romanum’. ‘Schola sapientiae’. Pocta Petrovi Blahovi k 70. narodeninám, Trnava 2009, 554-556.

 

[18] Gell. 15.27.3.

 

[19] Cfr. J. Zabłocki, Kompetencje...., 122-124; Idem, Appunti sul ‘testamentum mulieris’, «BIDR» 94-95, 1991-1992, 157-179.

 

[20] Cfr. J. Zabłocki, Kompetencje..., 119-121; Idem, Le più antiche forme del testamento..., 142-145.

 

[21] Cfr. C. Cosentini, rec. (M. Lemosse, Affranchissement, clientèle, droit de cité, «RIDA» 3/1979, 37-68 e M. Lemosse, L’affranchissement par le cens, «RHD» 27, 1949, 161-203), «Iura» 1, 1950, 532-534. L’autore ritiene che la manumissio testamento fosse stata resa possibile dal testamentum per aes et libram. Concordando, si dovrebbe concludere che, prima fra tutte, si elaborò la manomissione indiretta, fondata di fatto su due azioni giuridiche inter vivos e, pertanto, il familiae emptor era impegnato a liberare lo schiavo dopo la morte del testatore. Questo non mi sembra probabile. Cfr. F. Wieacker, Hausgenossenschaft und Erbeinsetzung. Über die Anfänge des römischen Testaments, [in:] Festschrift der Leipziger Juristenfakultät für Heinrich Siber, I, Leipzig 1940, 3-57.

 

[22] Cfr. J. Zabłocki, Appunti..., passim.

 

[23] Cfr. Th. Mommsen, op. cit., III, 58; U. Coli, ‘Regnum’, «SDHI» 17, 1951, 140.

 

[24] Cfr. Plut. Publ. 7.8. Tale etimologia sembra però assai approssimativa. Dovrebbe piuttosto supporsi che tra i posteri il nome non si sia conservato e che sia stato chiamato Vindicio per dare ulteriore smalto al racconto.

 

[25] Questo ruolo poteva essere ricoperto dal littore. Cfr. P. Meylan, L’individualité de la ‘manumissio vindicta’, [in:] Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, IV, Napoli 1953, 472-473.

 

[26] G. 4.16. Cfr. M. Staszków, Le commentaire de Gaius sur la ‘vindicta’, «Labeo» 8.3, 1962, 315-329; Tenże, ‘Vim dicere’ im altrömischen Proceß, «ZSS» 80, 1963, 92-108.

 

[27] R. Danieli in alcuni contributi quali: In margine a un recente studio sulla ‘manumissio censu’, «SDHI» 15, 1949, 198-202 e Contributi alla storia delle manomissioni romane, Milano 1953, argomenta che sino alla riforma di Appio Claudio del 313 a.C. soltanto la manumissio censu permetteva di acquisire anche la cittadinanza, mentre le altre manomissione davano allo schiavo la libertà, ma non lo rendevano cittadino. Lo studioso ritiene inoltre che durante il censimento si conferisse la cittadinanza soltanto ai liberti che avessero già raggiunto la libertà in altro modo. Il ragionamento viene confutato da C. Cosentini, Ancora sull’origine e l’efficacia delle forme civili di manumissione, [in:] Miscellanea romanistica, Catania 1956, 185-220.

 

[28] Plut., Publ. 7.7. Plutarco continua asserendo che altri liberti avessero conseguito il diritto di voto soltanto durante la censura di Appio Claudio nel 312 a.C. Probabilmente cade in errore. Vindicio fu liberato dallo Stato, quindi non poté essere assegnato alla curia del suo patrono: da qui, probabilmente, la concessione del diritto di voto in una tribù scelta da lui.

 

[29] Si deve ricordare il pensiero di Marciano. D. 40.5.53 pr.: ...libertas non privata sed publica res est. Cfr. W. Wołodkiewicz, ‘Libertas non privata sed publica res est’, «Index» 39, 2011, 216-221.

 

[30] Cfr. J. Zabłocki, Kompetencje..., 115-121.

 

[31] Fest. 149 L.: Manu mitti servus dicebatur, cum dominus eius, aut caput eiusdem servi, aut aliud membrum tenens dicebat: ‘Hunc hominem liberum esse volo’, et emittebat eum manu. La descrizione è tratta dal riassunto di Paolo Diacono, nel Codice Farnesiano si è conservata invece una versione molto ridotta del testo (Fest. 148 L.), dalla quale si evince tuttavia che la manomissione venisse effettuata sacrorum <causa> (Cfr. Fest. 296 L.) e che il proprietario dovesse inoltre pagare la tassa, forse considerando l’eventualità che il liberto si allontanasse dal tempio. Cfr. C. Cosentini, rec. (M. Lemosse)..., 533-534;  O. Robleda, op. cit., 109-110.

 

[32] M. Bartošek, «Iura» 1, 1951, 469, recensendo il libro di C. Cosentini, Studi sui liberti. I. Contributo allo studio della condizione giuridica dei liberti cittadini, Catania 1948, è del parere che le tre note forme di manomissione, dal punto di vista giuridico, siano eccessivamente evolute per poterle radicare in epoca arcaica. L’affermazione pare tropo categorica e sorretta soltanto da argomenti di ordini ideologico.

 

[33] L’espressione sacrorum causa può spiegarsi altrimenti. Forse si voleva permettere allo schiavo di officiare i sacra. Più convincente, comunque, la tesi legata al servizio nel tempio.

 

[34] Cfr. P. López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma..., 22-23. Invece H. Lévy-Bruhl, L’affranchissement par la vindicte, [in:] Studi in onore di Salvatore Riccobono, III, Palermo 1936, 1-19 asserisce che la manumissio vindicta esigesse soltanto la cooperazione tra il pretore e il proprietario, e non dell’adsertor libertatis, presente unicamente in occasione di autentiche causae liberales. Se così fosse, il ruolo della magistratura sarebbe stato ben più rilevante e confermerebbe una forte ingerenza dello Stato nell’atto di manomissione. Cfr. Idem, Il processo di libertà in Roma, «Labeo» 8, 1962, 404-407.

 

[35] Cfr. C. Gioffredi, Libertà e cittadinanza, [in:] Studi in onore di Emilio Betti, II, Milano 1962, 526; E. Gintowt, Rzymskie prawo prywatne w epoce postępowania legisakcyjnego (od decemwiratu do ‘lex Aebutia’) [Il diritto privato Romano all’epoca del processo per legis actiones (dal decemvirato alla lex Aebutia)], a cura di W. Wołodkiewicz, Warszawa 2005, 48-51. P. Meylan, op. cit., 475 individua nella manumissio sacrorum causa il prototipo della manumissio vindicta, a suo parere la forma di manomissione più importante.

 

[36] Cfr. Boeth., Ad Cic. Top. 2.10: Si quis ergo consciente vel iubente domino nomen detulisset in censum, civis Romanus fiebat et a servitutis vinculo solvebatur. P. López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma..., 32, interpreta la parola olim come un’alterazione postclassica. Secondo lui ancora nei tempi di Ulpiano la manumissio censu era un’istituto vigente. 

 

[37] Cicerone scrisse della voluntas domini (De orat. 1.40.183), e Teophilo di kevleusi" (1.5.4).

 

[38] Vedi J.F. Gardner, Women in Roman Society and Law, London 1986 (ristampa 1995), 222, che ritiene impossibile la manomissione censu di una schiava.

 

[39] D. Daube, Two Early Patterns of Manumission, «JRS» 36, 1946, 63-66.

 

[40] Diversamente D. Daube, op. cit., 66-68. Cfr. anche S. Treggiari, op. cit., 27, secondo cui il proprietario abitante fuori di Roma poteva mandare in città lo schiavo da solo. Ma se il proprietrio stesso si doveva presentare davanti ai censori, questa opinione non sembra fondata.

 

[41] Cfr. P. Frezza, Note esegetiche di diritto pubblico romano, [in:] Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano 1956, 204-206.

 

[42] Cfr. F. Cancelli, Studi sui ‘censores’ e sull’‘arbitratus’ della ‘lex contractus’, Milano 1960, 44-46. Secondo questo Autore anche i censori potevano effettuare la vindicatio in libertatem. Livio non sembra però parlare soltanto delle manomissioni vindicta.

 

[43] Cfr. W.W. Buckland, op. cit., 440; H. Last, op. cit., 37-38. Vedi anche la interessante analisi di P. López Barja de Quiroga, La fundación de Carteya y la ‘manumissio censu’, «Latomus» 56.1, 1997, 83-93. Sulla base di Liv. 43.3.1-4 l’Autore formula l’opinione che in Spagna il preside poteva in questo caso manomettere censu certi dediticii.

 

[44] Cfr. S. Solazzi, ‘Manumissio ex mancipatione’, [in:] Scritti di diritto romano, III, Napoli 1960, 199-218. Con tale manomissione si poteva pure voler conseguire gli effetti propri di un atto emancipatorio.

 

[45] Th. Mommsen, op. cit., 58-59; Cfr. C. Cosentini, Studi sui liberti..., I, 15-16; P. Frezza, op. cit., 206.

 

[46] Cfr. K. Kumaniecki, op. cit., 227-230; G. Polo Toribio, La pretendida prueba material en la defensa del poeta Arquías, «Diritto@Storia» 8, 2009, http://www.dirittoestoria.it/8/Tradizione-Romana/PoloToribio-Defensa-poeta-Arquias.htm .

 

[47] Cfr. Schol. Bob. 177 St. Incensus, ovvero cittadino che colpevolmente si fosse sottratto al censo, poteva essere reso schiavo e venduto. Cfr. Dion. Hal. 4.15 (=leg. reg. Serv. Tull. 2); Cic. Caec. 99. Cfr. E. Volterra, Sull’’incensus’ in diritto romano, [in:] Scritti giuridici, II, Napoli 1991, 433-447; A. Tarwacka, The Consequences of Avoiding ‘census’ in Roman Law, «Revista General de Derecho Romano» 21, 2013, 1-16.

 

[48] Cfr. F. De Visscher, De l’acquisition du droit de cité romaine par l’affranchissement, «SDHI» 12, 1946, 72.

 

[49] Cfr. M. Zabłocka, Nadawanie obywatelstwa rzymskiego [Il conferimento della cittadinanza romana], «PK» 36.1-2, 1993, 217.

 

[50] Cfr. G. Pieri, L’histoire du cens jusqu’à la fin de la République romaine, Sirey 1968, 41-42. 

 

[51] Cfr. S. Treggiari, op. cit., 25.

 

[52] Cfr. P. Jörs, Dositheanum fragmentum, RE 10, Stuttgart 1905, col. 1603-1605; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 528-529; A.M. Honoré, The ‘Fragmentum Dositheanum’, «RIDA» 12, 1965, 301-323.

 

[53] A.M. Honoré, op. cit., 301-323.

 

[54] Le Regulae di Gaio sono state ricostruite da O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Graz 1960, col. 251.

 

[55] Cfr. Varr., Ling. Lat. 6.2.

 

[56] Non ci furono lustri nel 459 e nel 214 a.C. Cfr Liv. 3.22; 24.43; Ja.V. Melničuk, ‘Lustrum’ en su aspecto marcial, «Diritto@Storia» 4, 2005, http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Melniciuk-Lustrum.htm .

 

[57] Sul significato di quibus in senatu sententiam dicere licet vedi F.X. Ryan, Rank and Participation in the Republican Senate, Stuttgart 1998, 72-87.

 

[58] Sull’aspetto sacrale vedi M. Lemosse, L’affranchissement par le cens, «RHD» 27/1949, 178-179, cfr. R. Danieli, Contributi..., 52.

 

[59] Per iusta servitus possono ritenersi i casi in cui diventava schiavo colui il quale fosse stato catturato di nemici; o fosse nato da madre schiava (ambo i casi derivavano dal ius gentium); ovvero, se avesse compiuto 20 anni, si fosse fatto vendere per ingannare l’acquirente e trarne profitto (schiavitù iure civili). Cfr. D. 1.5.5.1 (Marc. 1 inst.). Vedi anche A. Watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford 1967, 162; M.F. Cursi, ‘Captivitas’ e ‘capitis deminutio’. La posizione del ‘servus hostium’ tra ‘ius civile’ e ‘ius gentium’, [in:] ‘Iuris vincula’. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli 2001, 300-301. Diversamente E. Volterra, Manomissione..., 708-709.

 

[60] Cfr. A. Tarwacka, Romans and Pirates. Legal Perspective, Warszawa 2009, 91-92.

 

[61] Cfr. R. Reggi, ‘Liber homo bona fide serviens’, Milano 1958.

 

[62] Suet., Aug. 37; Dio Cass. 54.2. Cfr. J. Suolahti, The Roman Censors. A Study on Social Structure, Helsinki 1963, 539-540; A. Tarwacka, Prawne aspekty..., 317 ss.

 

[63] Claudio condivise l’ufficio con Vitellio: Suet., Claud. 16; Cfr. F.X. Ryan, Some Observations on the Censorship of Claudius and Vitellius, A.D. 47-48, «AJP» 114.4/1993, 611-618. Vespasiano esercitò la censura con Tito (Suet., Vesp. 8; Tit. 6), mentre Domiziano assunse il titolo di censor perpetuus (Dio Cass. 53.18). Cfr J. Suolahti, op. cit., 540; A. Tarwacka, Prawne aspekty..., 330-340.

 

[64] A.M. Duff, op. cit., 24-25 pensa che durante il principato la manumissio censu non fu più usata e le informazioni dei giuristi non trattavano della realtà ma del passato. Questa opinione mi sembra esagerata.