Contributi

 

 

Lobrano-1onidaRAPPRESENTANZA O/E PARTECIPAZIONE.

FORMAZIONE DELLA VOLONTÀ «PER» O/E «PER MEZZO DI» ALTRI.

NEI RAPPORTI INDIVIDUALI E COLLETTIVI, DI DIRITTO PRIVATO E PUBBLICO, ROMANO E POSITIVO *

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GIOVANNI LOBRANO

PIETRO PAOLO ONIDA

Università di Sassari

 

 

 

INDICE: Premessa. – I. RAPPRESENTANZA: PROBLEMA GENERALE E ATTUALE DEL DIRITTO. – I.1. STATO DELLA DOTTRINA. – I.1.a. Rilevanza e centralità della categoria/istituzione “rappresentanza” ed esigenza di non farsene condizionare. – I.1.b. “Agire per altri” o/e “agire per mezzo di altri”. – I.1.c. Essenza “sostitutiva” della rappresentanza: una questione di “potere” … – I.1.d. … espressa nel “divieto di mandato imperativo”. – I.2. PROBLEMATICITÀ. – I.2.a. Negazione risalente (XVIII secolo) e recente (XX secolo) della rappresentabilità della volontà. – I.2.b. Domanda politica di “partecipazione” volitiva ma dichiarazioni scientifiche di impossibilità a realizzarla. – II. IPOTESI DI SOLUZIONE ATTRAVERSO IL DIRITTO ROMANO: PARTECIPAZIONE VOLITIVA. – II.1. PER LA COMPRENSIONE DELLA RAPPRESENTANZA. – II.1.a. Binomio feudale di concezione e regime unitari della pluralità di uomini: persona giuridica e rappresentanza. – II.1.b. Costruzione medievale (XIII secolo). – II.1.c. Prima sistemazione moderna (XVII secolo). – II.1.d. Sovrapposizione contemporanea sul Diritto romano (XIX secolo). – II.2. PER LA RI-COSTRUZIONE DELLA PARTECIPAZIONE. – II.2.a. Dal Diritto romano: un binomio integralmente altro di concezione e regime unitari della pluralità di uomini. – II.2.b. Corpus societario. – II.2.c. Partecipazione e “cooperazione”. – Conclusioni e prospettive.Abstract.

 

 

 

Premessa

 

Lo stato generale della dottrina e parte della dottrina stessa chiedono – come sùbito vedremo – la formulazione di una ipotesi di lavoro per la ri-costruzione di un “sistema” (logica e strumentazione) alternativo a quello della “rappresentanza” della volontà[1], il sistema – cioè – della “partecipazione” volitiva.

Soltanto alla luce di un ‘sistema alternativo’ (il quale comprenda sia la positio studii di diritto pubblico sia la positio studii di diritto privato) sarà, quindi, possibile il ri-esame analitico (cioè su singoli punti) delle fonti (e della dottrina); ‘esame’ il quale continua – altrimenti – a ripetere (salve eccezioni e con variazioni irrilevanti) la dottrina ottocentesca della continuità “rappresentativa” tra Diritto romano e diritto “heutig”.

Secondo la ipotesi di lavoro, il ‘sistema’ della “partecipazione” volitiva è reperibile presso il Diritto romano e, quindi, ri-proponibile “für die Gegenwart”.

Formuleremo tale ‘ipotesi’ ri-ordinando, in una nuova visione d’insieme, elementi già presenti presso la scienza giuridica.

 

 

I. RAPPRESENTANZA: PROBLEMA GENERALE E ATTUALE DEL DIRITTO

 

I.1. STATO DELLA DOTTRINA

 

I.1.a. – Rilevanza e centralità della categoria/istituzione “rappresentanza” ed esigenza di non farsene condizionare

 

Nella scienza giuridica contemporanea, la “rappresentanza” ha grandissima rilevanza dogmatica e centralità sistematica[2].

Per lo studio (comprensione e gestione scientifiche) di questa categoria-istituzione dinamica devono essere usate le medesime qualità e intensità di attenzione già – esemplarmente – usate per lo studio di una altra categoria/istituzione di grandissima rilevanza dogmatica e centralità sistematica: la categoria/istituzione statica di “persona giuridica” (di cui “Stato” è accezione particolare ma fondamentale)[3] e che con “rappresentanza” ha un nesso strettissimo.

Per lo studio della “rappresentanza” occorre, dunque, compiere le medesime due operazioni, una negativa e una positiva – le quali si postulano vicendevolmente – già compiute per lo studio della “persona giuridica”.

La ‘operazione negativa’ è stata liberarsi dalla necessità dell’uso della ‘parola’, meglio: della ‘espressione’ “persona giuridica” (in particolare nella sua accezione “Stato”). Evidentemente, si è trattato – e così dovrà essere anche per l’uso della parola ‘rappresentanza’[4] – di fare fronte a una esigenza non filologica ma dogmatica: liberarsi dal vinculum necessitatis di interpretare e realizzare con la categoria-istituzione ‘Stato’ il genus di “enti” (insiemi organizzati di uomini) oggi nominati/individuati con quella ‘espressione’.

Tale elementare ‘operazione negativa’ sarebbe stata, dunque, puramente illusoria e addirittura ingannevole se non fosse stata compiuta – contestualmente – una invece composita ‘operazione positiva’. Questa ulteriore ‘operazione’ è consistita nel cogliere il significato della espressione ovverosia l’elemento essenziale della categoria-istituzione con quella espressione evocata, in modo da potere: sia definire perifrasticamente, senza restarne inconsciamente condizionati, il genus di enti così nominato/individuato e interpretato-realizzato, sia trovare una espressione nonché categoria-istituzione altra, con cui innovativamente nominare/individuare e interpretare-realizzare quel ‘genus’.

Più precisamente: per nominare/individuare «l’insieme dei cittadini romani» è stato rifiutato l’uso della parola ‘Staat’. Tale parola è stata evitata in quanto evocatrice di una entità «astratta». Quell’ «insieme» è stato, invece, definito con la perifrasi «unione o riunione di uomini», la quale lo indica come «concreto», e, per esso, si è proposto il ritorno alla espressione nonché categoria-istituzione di ‘populus Romanus Quirites’ (o, ‘tout court’, alla parola ‘popolo’).

 

 

I.1.b. – “Agire per altri” o/e “agire per mezzo di altri”.

 

Il genus di atti giuridici, oggi nominati/individuati nonché interpretati-realizzati (senza – possibilità di – alternativa) con la parola e categoria-istituzione “rappresentanza”, è ampio e composto di atti tra loro anche molto diversi ma aventi in comune una specifica complessità.

Nel definire tale genus con una perifrasi, occorre cogliere questa ‘specifica complessità’, scansando la trappola – appena ricordata – di riprodurre precisamente la interpretazione-realizzazione il cui condizionamento si vuole evitare.

Di regola, nella letteratura giuridica odierna, la perifrasi per “rappresentanza” è il «compimento di atti (di volontà / negoziali) per conto e (se la “rappresentanza” è “diretta”) in nome di altri».

In attesa di individuare il significato della parola ovverosia l’elemento essenziale della categoria-istituzione “rappresentanza”, ci appare sùbito evidente che questa perifrasi è espressione di una precisa scelta istituzionale: porre al centro e a protagonista della scena e della azione giuridiche il ‘commesso’ e relegare ai margini o sullo sfondo e a comparsa colui il quale, invece, continuiamo a chiamare – con espressione coniata dai romanisti medievali ma destituita oggi di senso – “dominus negotii”. Appartiene alla medesima ‘scelta’ e consegue il medesimo effetto il ricorso – per indicare questi due ‘attori’ – alle parole “gerente” e “gerito”.

La perifrasi alternativa che proponiamo è: “iter volitivi perfezionati mediante intermediari” o perifrasi simile. Per esprimerci in maniera più sintetica (e citando il titolo di una recente raccolta di scritti) proponiamo – cioè – se non contro almeno a integrazione della odierna prospettiva dell’Agire per altri[5] il recupero della opposta prospettiva dell’ “agire per mezzo di altri”. Corrispondentemente, preferiamo parlare di “mandante” e “mandatario”.

In questo modo non ci precludiamo e – anzi – ci apriamo la strada per la costruzione e la verifica della ipotesi di lavoro; ovverosia, come abbiamo detto, una interpretazione-realizzazione diversa/alternativa di tale genus di atti, ravvisabile presso la esperienza giuridica romana e ri-proponibile oggi. Possiamo, infatti, sùbito osservare (senza troppo anticipare il ragionamento il quale sarà svolto più innanzi) che la terminologia romana mette al centro della scena e della azione giuridica precisamente il “dominus negotii”. La nota negazione ulpianea in D. 45.1.38.17 (alteri stipulari nemo potest)[6] è la negazione dell’ «agire per altri», non dell’ “agire per mezzo di altri”, e tale ‘negazione’ deve essere letta (come, peraltro, già è fatto) insieme alla altrettanto nota precisazione gaiana in Inst. 2.95 (per extraneam personam nobis adquiri non posse) e alla sua ‘variante’ giustinianea (“per liberam personam”)[7]. Nell’importantissimo testo di apertura del titolo 4 (“Quod cuiuscumque universitatis nomine vel contra eam agatur”) del libro 3 del Digesto, Gaio e Giustiniano-Triboniano scrivono che l’ “actor sive syndicus” della societas o collegium cui è stato permesso di “corpus habere” è colui «per quem […] agatur» e il titolo 27 del libro 4 del Codice suona “Per quas personas nobis adquiritur”.

Appare allora, evidente che la prima e potissima esigenza è non rispondere alla neppure proponibile questione se la “rappresentanza” fosse «già» nota ai Romani e – se sì – in quale grado di «evoluzione» ma mettersi nella condizione di cogliere la prospettiva romana del rapporto tra dominus da una parte e servus e/o procurator dall’altra, con la posizione protagonica e dominante del primo, senza farci abbagliare o addirittura accecare dalla prospettiva ‘rappresentativa’, dove la posizione protagonica e dominante è, invece, attribuita al “rappresentante”.

Gli “iter volitivi mediante intermediari” possono essere individuali e collettivi, di diritto privato (in particolare commerciale) e di diritto pubblico (in particolare costituzionale). Per lo svolgimento della vita ‘associata’, tutti questi “iter volitivi” sono rilevanti o rilevantissimi se non ‘tout court’ necessari.

Per essi – oggi – si parla, si pensa e si opera in termini di “rappresentanza”: “legale”[8], “diretta” (ma anche “indiretta”), “istituzionale” od “organica” e “politica”. Corrispondentemente, la categoria-istituzione “rappresentanza” appare – oggi – rilevante, rilevantissima oppure ‘tout court’ necessaria, in particolare, per la questione – sempre politicamente incandescente – della “democrazia”.

 

 

I.1.c. – Essenza “sostitutiva” della “rappresentanza”: una questione di “potere” …

 

Per la categoria-istituzione “rappresentanza” (proprio in funzione della sua collocazione o meno nel Diritto romano) già è stato messo in guardia dall’«attribuir[l]e […] un significato diverso da quello riconosciuto» ed è stato proposto di coglierne il «significato tecnico» in quello della «rappresentanza diretta», quale emerge dagli artt. 1387-1400 del Codice civile italiano[9]. La modalità proposta, in sé assolutamente valida, ci appare – almeno per gli obiettivi posti alla ricerca – individuare un significato al contempo troppo stretto e troppo ampio. Troppo stretto perché (come anche già è stato osservato in dottrina) per intendere la categoria-istituzione della rappresentanza occorre considerarne la «unità concettuale delle forme»[10] ivi comprese (precisiamo noi) quelle di diritto pubblico. Troppo ampio perché ci appare non cogliere l’ ‘elemento essenziale’ della moderna-contemporanea categoria-istituzione “rappresentanza”.

Secondo la nostra ipotesi e nella linea della nostra riflessione, tale elemento è la ‘natura’ di “sostituzione”, “presa sul serio”.

Anche qui ricorriamo a considerazioni già svolte in dottrina.

Nel 1946, Pasquale Voci, scrivendo di Diritto romano, afferma «Si ha rappresentanza quando una persona, detta rappresentante, compie uno o più negozi in sostituzione di un’altra detta rappresentatato»[11].

In data decisamente più recente (nel 1991) il giurista positivo Paolo D’Amico, con una chiarezza non comune nella odierna riflessione dottrinaria (abbondante e tuttavia – ci sembra – non ancora adeguata alla portata della questione), va oltre, rilevando che, in dottrina, alla “rappresentanza” è riconosciuta in maniera «prevalente» natura di «sostituzione», in contrapposizione con la natura di «cooperazione» o «collaborazione»: «Il rappresentante piuttosto che come collaboratore, viene […] qualificato come un “sostituto” del rappresentato». Tale contrapposizione dipende, secondo D’Amico, dal valore attribuito al «rapporto di gestione», cioè al mandato, il quale risulta particolarmente svalutato dalla dottrina che intepreta la “rappresentanza” come “sostituzione” [12].

La ricostruzione ‘dialettica’ dello stato della dottrina, proposta da D’Amico, non è isolata. La troviamo, con elementi di identità e di diversità entrambi interessanti, presso i contributi di altri autori; ad esempio: quelli precedenti di Werner Flume (1965) e Hasso Hofmann (1974) e quello successivo di Mario Campobasso (2010).

Flume (1908-2009: influente romanista, civilista, tributarista e storico del diritto) nella più significativa delle sue opere (il trattato di diritto civile, parte generale) articola la materia della rappresentanza in una contrapposizione dottrinaria tra “Geschäftsherrntheorie” e “Repräsentationstheorie” sulla base delle opposte valutazioni del rapporto gestorio: importante per la prima “Theorie” e svalutato dalla seconda. Flume attribuisce la “Geschäftsherrntheorie” a Savigny e la “Repräsentationstheorie” a Windscheid, collocando, dunque, la ‘contrapposizione’ all’interno del percorso pandettistico[13].

Anche Hofmann registra in termini soltanto contingentemente diversi la medesima contrapposizione: «nel dibattito giuridico-costituzionale tedesco degli anni Venti [scilicet: del secolo XX] è venuta alla luce la distinzione tra la rappresentanza di tipo privatistico, indicata con il termine di Vertretung e la rappresentanza politica espressa per l’appunto dal termine Repräsentation. Mentre la prima è strettamente legata al mandato, la seconda è da questo svincolata, o, in ogni caso, appare eccedere la volontà determinata che si esprimerebbe nel mandato»[14].

Infine Campobasso, il quale critica (in maniera che ci appare convincente) la dottrina corrente della “profonda diversificazione” tra le varie forme di rappresentanza (in particolare: negoziale e organica), pone sostanzialmente tra gli stessi poli e per le medesime ragioni il «processo evolutivo comune alle varie forme di rappresentanza di cui la rappresentanza delle società costituisce il punto più avanzato. Si tratta della progressiva affermazione dell’autonomia del potere di rappresentanza dal contenuto di potere gestorio che lega il rappresentante al rappresentato. Uno sviluppo di cui si possono rintracciare le lontane origini fin dal XIX secolo, nell’insegnamento del LABAND secondo cui la procura è negozio autonomo dal mandato [P. Laband, “Die Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen deutschen Handelsgesetzbuch” in ZHR - Zeitschrift für Handelsrecht, 10, 1866, 183 ss.]»[15].

Dal nostro punto di vista, merito della formulazione di D’Amico è (come già si è detto) la chiara contrapposizione tra “sostituzione” e “cooperazione”. Il limite (assolutamente non soltanto suo) è il mantenerla all’interno della categoria-istituzione “rappresentanza”. Meriti della formulazione di Flume sono la contrapposizione alla “Repräsentationstheorie” della “Geschäftsherrntheorie” (cioè la contrapposizione alla “teoria della rappresentanza” della “teoria del dominus negotii” !) e la collocazione della contrapposizione nel corso del secolo XIX. Suo limite è non cogliere la presenza proprio nell’insegnamento di Savigny (vedi, infra, § II.1.d) della impostazione la quale porterà all’insegnamento di Windscheid, in un rapporto di ‘progresso’ ovvero di ‘sviluppo’, dentro una logica comune. Merito della formulazione di Hofmann (la cui percezione è condizionata dalla specificità anche linguistica del dibattito tedesco) è rilevare il nesso della contrapposizione in materia di “rappresentanza” con quella tra diritto privato e diritto pubblico d’inizio del secolo XX. Suo limite è farle coincidere, con effetti riduttivi sulla portata della prima. Meriti della formulazione di Campobasso sono la affermazione della sostanziale unitarietà della categoria-istituzione della “rappresentanza” al di là delle sue molteplici applicazioni, la menzione del ruolo di Laband nel processo di autonomizzazione della procura dal mandato e la affermazione che tale processo è tutt’ora in corso. Elemento costante della contrapposizione è la valutazione del mandato.

In prima sintesi, ripetiamo che, secondo la nostra ipotesi, quella di “sostituzione” è la vera e unica natura della “rappresentanza”, e precisiamo che tale ‘natura’ – come appena osservato a proposito della perifrasi “agire per altri” – è espressa nella enfasi posta sulla figura del rappresentante, mettendo in ombra la figura del rappresentato. Tale ‘natura’ appare (non ‘nascere’, come vedremo) ma ‘imporsi’ durante il secolo XIX per progredire durante il secolo XX e sino ai giorni nostri: a partire dalle esigenze di diritto pubblico (costituzionalismo “elitista”)[16] ma cercando le necessarie conferme dogmatiche e producendo le inevitabili ricadute normative[17] nel diritto privato. La progressiva ‘imposizione’ contemporanea è diretta contro la logica – preesistente ma resa recessiva – di un mandatario-procuratore la cui natura è di “cooperante” del mandante; pertanto, quella ‘imposizione’ è ottenuta operando su (cioè: svalutando) mandato e mandante (Paul Laband) ovvero iussum e dominus (Bernhard Windscheid) (vedi, infra, § II.1.d).

La conseguenza (ma ancora prima lo scopo, il fine) della “sostituzione” è la subordinazione del “rappresentato” al “rappresentante”; subordinazione la quale – secondo Max Weber (1922) – fa, in questa centrale materia, la differenza dei Moderni rispetto agli Antichi[18].

Di questo vero e proprio rovesciamento di prospettiva tra Antichi e Moderni, denunziato da Weber, ci appare manifestazione particolarmente chiara la collocazione della tutela-curatela nel genus medievale-moderno di “rappresentanza”, come sua species: la “rappresentanza legale”. Questa collocazione è, infatti, perfettamente in linea con la logica medievale-moderna, la quale (come abbiamo visto: § I.1.b) ha nel rappresentante l’attore protagonista della scena giuridica. La tutela-curatela non può, invece, assolutamente trovare collocazione nella logica antica dell’ ‘iter volitivo mediante intermediari’, la quale ha il proprio protagonista in quell’attore puntualmente definito dominus e, comunque, caratterizzato dalla titolarità del potere. Nel rapporto di tutela, infatti, il potere è in capo al tutore: Paul. D. 26.1.1 pr. e 1 Tutela est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero […] 1. Tutores autem sunt qui eam vim ac potestatem habent […]).

 

 

I.1.d. – … espressa nel “divieto di mandato imperativo”

 

La ‘natura’ di “sostituzione” della “rappresentanza” ha, dunque, la propria ‘chiave’ nel depotenziamento sino all’annullamento dello iussum-mandatum. Il “divieto di mandato imperativo” ne è nient’altro che una manifestazione.

Tale ‘divieto’ è stato formulato ed è correntemente impiegato a proposito della “rappresentanza politica”[19], anche per quanto concerne il regime (e, quindi, la concezione)[20] dei sistemi federali e/o autonomistici[21].

Esso, però, vale anche per la rappresentanza “istituzionale” od “organica”[22] e per quella “diretta”[23]. Per la rappresentanza “legale” il ‘divieto’ è addirittura pleonastico.

 

 

I.2. – PROBLEMATICITÀ

 

I.2.a. – Negazione risalente (XVIII secolo) e recente (XX secolo) della rappresentabilità

 

Una contraddizione profonda si è stabilita tra il fondamento degli ordinamenti istituzionali e la connessa fede scientifica nella “rappresentanza”, da una parte, e la negazione risalente (XVIII secolo)[24] e attuale (XX secolo)[25] della rappresentabilità della volontà, d’altra parte.

Tale negazione, formulata a proposito della “rappresentanza” politica, delegittima le costruzioni costituzionali odierne, fondate sulla “rappresentanza” del Popolo ovverosia dei Cittadini[26].

Tale negazione colpisce anche la “rappresentanza” istituzionale od organica e diretta (vedi ancora, infra, § II.1.d).

 

 

I.2.b. – Domanda politica di “partecipazione” volitiva ma dichiarazioni scientifiche di impossibilità a realizzarla

 

Una contraddizione ulteriore e particolarmente attuale si è stabilita tra la – conseguentemente – diffusa e crescente domanda politica di “partecipazione”, cioè di “Democrazia”[27], precisamente ed esplicitamente in alternativa alla- o, quanto meno, a integrazione della “rappresentanza”, e la coscienza scientifica della incapacità/impossibilità a realizzarla.

Le asserzioni o denunzie ‘politiche’, della «no alternative» ovverosia della «Alternativlosigkeit» al regime della “rappresentanza”[28], sono parallele alle dichiarazioni scientifiche/giuridiche, di «défaut de moyen technique»[29] per costruire il richiesto regime della partecipazione e, quindi, al riconoscimento, sempre da parte della scienza giuridica, del proprio «blocage théorique»[30].

In questa contraddizione si colloca anche il fenomeno della dislessia terminologica-dogmatica[31], nella materia ‘di vertice’ ovvero ‘di sintesi’, quale è la materia della concezione e del regime dei sistemi federali e/o autonomistici[32]. Presso tale materia la assenza della nozione di “partecipazione” emerge a contrario già dal lessico adoperato: “federalismo centralista”[33], “decentramento dalla periferia”[34] / “cooperazione decentrata”.

 

 

II. – Ipotesi di soluzione attraverso il Diritto romano: partecipazione volitiva

 

II.1. PER LA COMPRENSIONE DELLA RAPPRESENTANZA

 

II.1.a. – Binomio feudale di concezione e regime unitari della pluralità di uomini: persona giuridica e rappresentanza

 

La costruzione teorica e pratica della “rappresentanza diretta” appare non precedere ma seguire quella della “rappresentanza istituzionale” (od “organica” e “politica”).

La categoria e, quindi, la istituzione della “rappresentanza” della volontà compaiono durante il XIII secolo, nell’àmbito del diritto pubblico, per le esigenze della volizione collettiva, cioè come regime volitivo unitario della pluralità di uomini: in corrispondenza ad una loro concezione unitaria come “persona fittizia”, il cui nesso con la più recente categoria di “persona giuridica” appare certo, sebbene se ne discutano i particolari[35].

Questo fenomeno è manifestazione storica del nesso logico tra il regime e la concezione unitari della pluralità di uomini: un binomio, i cui termini si postulano e si causano vicendevolmente, fornendosi reciprocamente senso e funzione. La frequente trattazione separata dei due ‘termini del binomio’, come questioni tra loro indipendenti[36], ne ostacola la comprensione.

Già nella costruzione medievale della “rappresentanza” si trovano riferimenti indiretti e diretti al Diritto romano ma – in realtà – essa è il frutto totalmente nuovo delle combinate esigenze di due specifiche organizzazioni: ecclesiale[37] e feudale[38]. Tale ‘combinazione’ marca lo Stato moderno nella sua prima formazione[39] e nei suoi rivisitazione e rilancio contemporanei[40].

 

 

II.1.b. – Costruzione medievale (XIII secolo)

 

La teoria della “rappresentanza” compare in prima – ancora esile – ideazione/formulazione a proposito dell’ordinamento ecclesiale cattolico – più che specifico, speciale anche o proprio nella materia-chiave della volizione[41] – presso la opera scientifica del ‘canonista’ Sinibaldo dei Fieschi (1250). A riprova della esistenza, della forza logica e del ruolo del ‘binomio’ di concezione e regime unitari della pluralità di uomini, nel noto passo di Sinibaldo dei Fieschi (Pontefice con il nome di Innocenzo IV) ove da tempo è stata colta la prima apparizione della nozione di “persona ficta”, emerge anche la nozione (seppure non ancora la parola) della sua rappresentanza, in una relazione di reciproci rinvii: «cum collegium in causa universitatis fingatur una persona, dignum est, quod per unum iurent»[42].

La particolare destinazione alla specifica/speciale organizzazione ecclesiale di tale ‘teoria’ appare meglio percepibile se si considera la opposta teoria – che sarà detta – della “sussidiarietà”, contestualmente elaborata, nel medesimo àmbito, a proposito però di ordinamenti che possiamo definire ‘laici’[43]. Tuttavia, la teoria della “rappresentanza” è rapidamente ripresa a proposito degli ordinamenti ‘laici”: esemplarmente, nella opera scientifica del ‘civilista’ Jacques de Revigny (sembra precisamente a proposito del “municipium”)[44].

La prassi della “rappresentanza” appare in prima – invece sùbito consistente – applicazione nel governo del Regno d’Inghilterra da parte del Re Eduard I, con la convocazione e per il funzionamento del cosiddetto “Model Parliament” (1295). La istituzione parlamentare era sorta in Spagna, da circa un secolo, come stampella dell’ordinamento feudale (già manifestante segni di insufficienza economica se non ancora di crisi conclamata) mediante l’inserimento di delegati delle Città-Comuni nella istituzione centrale di quell’ ‘ordinamento’: la curia o consilium regis dei baroni laici ed ecclesiastici[45]. Anche al “Model parliament” le Città-Comuni possono/devono mandare proprî delegati: sulla base – esplicitamente richiamata da Eduard I – del principio democratico romano/giustinianeo (C. 5.59.5.2 quod omnes similiter tangit ab omnibus comprobari debet). Ora però – questa è la novità – i delegati delle Città/Comuni devono essere (e sono) senza “mandato imperativo” ovverosia sciolti dalla obbligazione della esecuzione – nella propria attività ‘di governo’ – del mandato ricevuto dalla Comunità civica-comunale[46]. L’inserimento inglese del “divieto di mandato imperativo” nella secolare istituzione parlamentare è reso possibile dalla nuova dottrina canonista della persona ficta e fa compiere a quella istituzione il decisivo salto di qualità, che la renderà “madre” di tutti – o quasi – i Parlamenti odierni (Mater Parliamentorum)[47].

 

 

II.1.c. – Prima sistemazione moderna (XVII secolo)

 

Il ‘Libro dello Stato’ di Thomas Hobbes (Leviathan, 1651) non ha certamente la statura del ‘Libro del Diritto’ di Giustiniano (Corpus Iuris Civilis, 533) tuttavia, con il trattato di Hobbes, la esperienza giuridica feudale, da secoli alternativa a quella giuridica romana, compie un salto di qualità, dotandosi di una base teorica, la quale le permette di sfidare apertamente il “sistema giuridico” romano.

Con il ‘Libro dello Stato’, immediatamente successivo alla “Pace di Westphalia” [1648] espressione pratica della medesima logica statualistica[48], ovverosia nel momento della auto-affermazione e della presa di coscienza di sé da parte di tale logica, la categoria/istituzione della “rappresentanza” conquista valenza sistemica.

Nella trattazione hobbesiana, il ‘binomio’ di concezione e regime unitari della pluralità di uomini è più che evidente, è macroscopico: la ‘concezione’ è la persona giuridica e il ‘regime’ è la rappresentanza. Sono fondamentali i capitoli XVI (“Of Persons, authors, and things personateds”, l’ultimo della prima parte: “Of Man”) e il capitolo XVII (“Of the causes, generation, and definition of a Common-Wealth”, il primo della seconda parte: “Of Common-Wealth”).

Nel capitolo XVI, il ricorso alla “rappresentanza” è giustificato dalla affermazione che la “moltitudine” diventa “unità” esclusivamente per mezzo del suo “rappresentante” «c’est l’unité du représentant, non l’unité du représenté qui [en] fait une la personne»[49].

Nel capitolo XVII è descritta questa “persona” unitaria/unica, il “Leviathan”: «la multitude ainsi unie en une seule personne est appelée une RÉPUBLIQUE, en latin CIVITAS. C’est là la génération de ce grand LÉVIATHAN»[50].

Nella nuova costruzione giuridica hobbesiana, «le peuple) n’a pas d’existence hors du jeu de l’acteur»[51] ovverosia «Chez Hobbes […] la représentation est bel et bien une substitution»[52].

 

 

II.1.d. – Sovrapposizione contemporanea sul Diritto romano (XIX secolo)

 

I Giuristi tedeschi del XIX secolo convengono sulla esigenza oggettiva e sul dovere soggettivo (“Beruf”[53], “Aufgabe”[54]) di produrre un “sistema di diritto” funzionale alla nuova era post-Rivoluzione. Anche questi Giuristi, per adempiere a tale dovere, ricorrono al Diritto romano: attraverso una sua esplicitamente nuova e profonda nonché complessiva interpretazione. Pertanto, essi sono tutti “romanisti”.

Il ‘binomio’ della concezione e del regime unitari della pluralità di uomini è al centro di questo ‘lavoro’ e costituisce oggetto privilegiato di riflessione lungo tutto l’ ’800.

I risultati di tale riflessione (‘nuances’ a parte) sono tutt’altro che uniformi[55]. Prevale, però, nettamente la dottrina formulata – sopra tutti, nelle sue grandi linee – da Friedrich von Savigny, come System des heutigen römischen Rechts (8 volumi, 1840-49). Nel volume II (1840), è presente la concezione unitaria della pluralità di uomini come “juristische Person”[56] e, nel volume III (sempre 1840), il suo regime unitario come “Stellvertretung”[57]. È la formulazione “pandettistica” della versione già medievale-moderna del ‘binomio’ di concezione e regime unitari della pluralità di uomini; versione ora resa funzionale al ceto uscito vittorioso dalla Grande Rivoluzione: la “borghesia”[58].

La attenzione al ‘binomio’ di “juristische Person” e di “Stellvertretung”, presso la dottrina di Savigny, ci aiuta a non farci condizionare dalla intepretazione di questa ultima proposta da Flume[59], come “Geschäftsherrntheorie” contrapposta alla “Repräsentationstheorie”. In realtà, Savigny imbocca con decisione la strada della “rappresentanza/sostituzione” necessaria per la vita della “persona giuridica”. Ciò che, piuttosto, deve osservarsi è che, nel System savignyano, il ‘regime’ è ancora in fieri e la sua elaborazione potrà considerarsi conclusa soltanto due decenni dopo. Ciò avviene con la aggiunta o la precisazione del ‘dettaglio’, che ne è la ‘chiave di volta’: la puntuale affermazione della intrinseca debolezza/irrilevanza della volontà del dominus negotii e, quindi, della altrettanto intrinseca “autonomia” della volontà del ‘procuratore/Stellvertreter’ rispetto a quella.

Tale estremamente importante aggiunta o precisazione è operata – da angoli prospettici distinti ma in maniera assolutamente convergente – da Bernhard Windscheid e da Paul Laband. Oggetto ma meglio sarebbe dire ‘vittima’ delle cure di questi due giuristi è la volizione del dominus negotii: colta nella sua manifestazione come iussum, da parte di Windscheid, e nella sua manifestazione come mandatum, da parte di Laband. Windscheid (nel 1866) re-imposta la interpretazione dei negozi sottesi alle actiones adiecticiae qualitatis agendo sullo «iussus», interpretato non più come “comando” ma come “autorizzazione”[60]. Paul Laband (anche egli nel 1866) re-imposta la interpretazione della sequenza “mandante - mandatario/procuratore - terzo” separando (= “autonomizzando”) la procura dal mandato (esattamente al contrario di Giustiniano)[61]. Possiamo dire che il “sistema” costruito da Savigny ha una ‘falla’ fintanto che in esso resta presente, con la sequenza dello iussum/comando del dominus negotii al proprio subordinato e la conseguente negoziazione di questo, uno scandaloso ‘esempio’ di iter volitivo non-sostitutivo[62].

La applicazione della rappresentanza/sostituzione ai rapporti di diritto sostanziale sottesi al rimedio processuale delle actiones adiecticiae qualitatis (a partire dalla actio quod iussu) non è (come induce a credere la dottrina prevalente, di ascendenza ottocentesca)[63] il punto di partenza storico-antico della categoria della rappresentanza ma è il punto di arrivo storicista-contemporaneo della sua invenzione medievale-feudale e del suo sviluppo moderno-statuale. Possiamo dire che la interpretazione windscheidiana dello iussum non come “comando” ma come “autorizzazione” e quella labandiana della “autonomia” della procura dal mandato sono la traduzione privatistica del divieto di mandato imperativo sorto in àmbito pubblicistico/politico. Possono confermare questo percorso i prevalenti interessi giuspubblicistici di Laband (Das Staatsrecht des deutschen Reiches, 3 voll., 1876-82, 5a ed., 4 voll., 1911-14; sintetizzati nel volume Deutsches Reichsstaatsrecht, 1883, 7a ed., post., 1919)[64].

L’avallo storico e la puntuale formulazione dogmatica della dottrina della “rappresentanza” da parte della scienza romanistica (“pandettistica”) ne determinano la forza acquisita (in tutte le sue manifestazioni, di diritto privato e di diritto pubblico). Infatti, la idea della sua “Alternativlosigkeit” è, in definitiva, ascrivibile a quella scienza, la quale proietta la “rappresentanza” anche sulla esperienza giuridica romana: immediatamente nella sua pienezza oppure (come ora si preferisce) in radice e per parte importante del suo sviluppo («evoluzione»)[65]. Inoltre, la ‘messa a fuoco’ della “rappresentanza” non soltanto nell’àmbito del diritto privato ma anche a proposito della volizione individuale, consegue l’effetto ‘trompe l’oeil’ di sganciare la “rappresentanza-sostituzione” dalla propria storica e logica strumentalità ‘politica’ al prevalere dell’uno o dei pochi rappresentante/i sui molti rappresentati, concorrendo a farla, invece, apparire la categoria/istituzione puramente ‘tecnica’, definitrice e realizzatrice in maniera assoluta (“senza alternativa”) in tutte le sue molteplici manifestazioni dell’ “iter volitivo mediante intermediari”, stravolto in “negoziazione per conto [e in nome] di terzi”.

La (oramai perfezionata) formulazione pandettistica della versione feudale del ‘binomio’ (concezione e regime unitari della pluralità di uomini) domina, quindi, sia in àmbito gius-pubblicistico sia in àmbito gius-privatistico. Al primo ‘àmbito’ provvede Theodor Mommsen (Römisches Staatsrecht, 1a ed. 1871, e Abriss des römischen Staatsrechts, 1893) secondo il quale, “con [la parola] popolo si intende [il concetto di] Stato”[66] perché il Diritto romano come ogni diritto “presuppone lo Stato”, e “atto della comunità è ogni atto compiuto dal magistrato” in quanto “rappresentante della comunità”[67]. Al secondo ‘àmbito’ provvede, inizialmente nel “diritto civile”, il BGB (1900). In questo codice la “société”[68] del Code Napoléon [1805] è trasformata in “Juristische Person” e ne è spezzato il nesso tra mandato e procura [cfr. l’art. 1984 del Code Napoléon e il § 185, 1° co. del BGB]). Quindi, nel “diritto commerciale”, l’ ‘Aktiengesetz’ (Germania nazista, 1937) applica anche alle “Società per azioni” il divieto di mandato imperativo[69].

Con pochissime eccezioni, durante tutto il XX secolo e ancora in questi primi anni del XXI, i Giuristi seguono la strada tracciata dalla dottrina ‘pandettistica’. A ciò appare concorrere anche il fatto che, di questi, i Romanisti sperimentano il fatto della ‘registrazione’ di tale dottrina nel BGB (cioè la codicizzazione dell’ “heutiges römisches Recht”) come la propria mutazione (“Verwandlung”) di status in “storici del diritto”[70], e ai non-Romanisti mancano gli strumenti (ri-lettura e re-interpretazione delle fonti del Diritto romano, in particolare del CJC) necessari per revocare in discussione la operazione dei Pandettisti.

 

 

II.2. – Per la ri-costruzione della partecipazione

 

II.2.a. – Dal Diritto romano un binomio integralmente altro di concezione e regime unitari della pluralità di uomini

 

In epoca contemporanea, il ‘binomio’ medievale-moderno, della concezione unitaria della pluralità di uomini come “astratta persona giuridica”[71] e del suo regime unitario come “rappresentanza-sostituzione”, è dunque divenuto più che assolutamente dominante: l’unico pensabile.

Riconoscere la contingenza storica e dogmatica (infra, § II.2.b) della dottrina – formulata in termini anselmiani – della necessità della “astrazione” o “smaterializzazione” della pluralità di uomini, per la conquista della loro “unità”, e della connessa necessità della rappresentanza, per la unificazione della loro volontà, significa liberarsi di tale dottrina e accedere alla dottrina della possibilità:

α) della concezione unitaria della pluralità di uomini, conservandone la concretezza, e

β) del loro regime unitario, consentendone la partecipazione volitiva.

Una volta che non siamo più obbligati a credere il ‘binomio’ medievale-moderno proprio anche del Diritto romano (neppure in modo evolutivo cioè in sue fasi[72] prodromiche agli sviluppi medievale, moderno e contemporaneo) siamo liberi di vedere e riconoscere quegli elementi i quali ci consentono di credere e ci impongono di verificare che il Diritto romano abbia prodotto e possa ancora consegnarci un ‘binomio’ integralmente altro.

 

 

II.2.b. – Corpus societario

 

Anche per formulare la pars construens della nostra ipotesi di ricerca, ovvero per la formulazione ipotetica del ‘binomio’ alternativo, ci basiamo – dunque – su contributi già noti della dottrina giuridica, in particolare romanistica.

Per quanto concerne la concezione unitaria della pluralità di uomini senza transitare attraverso la loro “astrazione” o “smaterializzazione”, la ‘dottrina di base’ è – come già detto – quella di Catalano (1974). Si tratta della confutazione della concezione pandettistica del populus romano quale astratta “persona giuridica - Staat”[73], con la ri-costruzione della sua concezione invece “concreta”,

Della dottrina di Catalano ci sono alcune ‘componenti’ – oltre la già menzionata impostazione – sulle quali ci appare opportuno richiamare analiticamente la attenzione.

La prima è la menzione (per quanto incidentale) del ‘binomio’ di “concezione e regime della pluralità di uomini”, quando egli ricorda il rapporto tra «La concezione del populus (e quella connessa del magistratus[74].

La seconda è lo spazio dedicato a Rudolf von Jhering, quale esponente di spicco di una (minoritaria ma importante) linea non-pandettistica nella riflessione giuridica tedesca dell’Ottocento. La dottrina di Rudolf von Jhering è contrapposta a quella pandettistica di (Joseph Rubino e) Theodor Mommsen, sia in ordine alla concezione del populus (di cui Jhering rifiuta la astrazione) sia al “connesso” regime volitivo mediante i magistrati.

La terza è la indicazione metodologica di recuperare il franco confronto (instaurato, sul Diritto romano e sul suo uso, nella Francia pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria del XVIII secolo) tra le tesi del ‘partito’ elitista (specialmente espresse da Montesquieu) contrarie a questo Diritto e le tesi del ‘partito’ democratico (specialmente espresse da Rousseau) ad esso favorevoli.

Proseguire, su questa ‘base’, lo studio della esperienza giuridica romana (dottrina e prassi) e soprattutto della sua summa giustinianea può, ora, consentirci una rinnovata comprensione della concezione unitaria della pluralità di uomini (da entrambi i punti di vista: del diritto privato e del diritto pubblico)[75] come «corpus[76] societario»[77], caratterizzato dalla sintesi di unità e concretezza[78].

 

 

II.2.c. – Partecipazione e “cooperazione”

 

Alla concezione unitaria della pluralità di uomini come non “astratto” né “smaterializzato” «corpus societario» corrisponde o, quanto meno, può corrispondere il regime unitario della loro partecipazione volitiva.

Tale regime è – semplicemente – la “democrazia”[79]; il cui esercizio, però, costituisce problema in sé.

La inadeguatezza operativa del “corpo sociale”, a esprimere atti volitivi di tipo negoziale e/o in grande quantità, e la corruzione della sua unità, nell’esprimere atti volitivi aventi ad oggetto proprie parti[80], sono ovviate con il ricorso a “mandatari” (Tac. ann. 11.24 magistratus mandare) per il compimento di tali atti. Può, dunque, sembrare che la “rappresentanza”, espulsa dalla porta della non più “astratta” concezione unitaria della pluralità di uomini, rientri dalla finestra delle loro esigenze operative, ovverosia ‘di regime’.

Però, secondo la nostra ipotesi, questi mandatari non sono assolutamente “rappresentanti” perché la natura loro e della loro azione non è “sostitutiva”. La presenza di questi mandatari non comporta (né come presupposto né come conseguenza) la assenza/sostituzione dei mandanti. I mandanti (“concreti”) sono presenti e partecipano (anzi, con un ‘peso’ proporzionalmente preponderante) all’iter volitivo per il quale devono ricorrere (per varie ragioni di opportunità) al mandatario.

Presso la scienza romanistica, il regime volitivo mediante mandatario – prima di essere interpretato come “sostituzione” del mandante da parte del mandatario[81] – è, infatti, inteso come “cooperazione” (“Mitwirkung”) con il mandante da parte del mandatario cioè come “partecipazione” del mandante a un unico iter volitivo (“Verhältnis”) articolato in due “lati, interno ed esterno” (“innere - äussere Seite”). Il “lato interno” è costituito dal rapporto tra mandante e mandatario, il “lato esterno” dal rapporto con il terzo. È la dottrina di Rudolf von Jhering: “Mitwirkung für fremde Rechtsgeschäfte”, 1857[82].

La attenzione e la posizione dottrinali di Jhering, a proposito della volizione individuale nei “fremde Rechtsgeschäfte”, confermano la sua individuazione – da parte di Catalano – come l’esponente più importante, tra i Giuristi dell’ ’800, di una linea interpretativa e propositiva diversa/opposta (perché rispettosa della logica antica) rispetto a quella dominante nella complessiva materia (il ‘binomio’) della concezione del popolo e del suo modus operandi mediante i magistrati. Queste attenzione e posizione dottrinali di Jhering confermano, inoltre, il punto dogmatico/sistematico saliente della contrapposizione nella interpretazione dello iussum e del nesso mandato - procura. La dottrina di Jhering non è intermedia tra quella di Savigny e quella di Windscheid-Laband[83] ma alternativa a quella di Savigny e di Windscheid-Laband, ovvero impostata da Savigny e completata da Windscheid-Laband.

Proseguire, su questa base, lo studio della esperienza giuridica romana può, ora, consentirci una rinnovata comprensione del regime unitario della pluralità di uomini (da entrambi i punti di vista: del diritto privato e del diritto pubblico) come “partecipazione e cooperazione”.

In ipotesi, la soluzione romana di questo ulteriore problema (la partecipazione mediante [la “cooperazione” di] intermediari) è la scansione di quella sorta di ‘atomo’ del diritto che è l’atto volitivo ovverosia la sua articolazione in un ‘iter’ volitivo composto da due – diciamo – ‘semi-atti’ volitivi tra loro complementari, attribuiti a due ‘soggetti’ altrettanto tra loro complementari. La partecipazione volitiva del dominus-mandante appare, infatti, integrata dalla cooperazione volitiva del subalterno-mandatario-procuratore.

Nella esperienza giuridica romana, questo regime (della partecipazione e cooperazione) appare, con particolare evidenza, nell’iter volitivo composto dal comando signorile-generale (lex = iussum generale)[84] del Popolo (“corpo” dei “molti associati”) emanato (a maggioranza)[85] dalla loro Assemblea, e dalla sua esecuzione servile-particolare, operata (quindi con un quoziente adeguato di discrezionalità ovvero con potere[86]) dai loro Magistrati. Non deve qui sfuggire né essere sottovalutata la assimilazione, operata da fonti romane particolarmente qualificate, dei magistrati a «servi pubblici» (rei publicae vilici) in quanto «nella potestà del popolo»[87]. Crediamo di potere affermare che in questo iter volitivo risiede e si manifesta la essenza della specificità repubblicana[88].

Sempre nella esperienza giuridica romana, questo ‘regime/iter’ appare, però, non circoscritto all’àmbito della volizione collettiva pubblica ma coprire tutto l’àmbito di utilizzazione del diffuso meccanismo dello “iussum[89]; ‘meccanismo’ adoperato per le volizioni collettiva e individuale, familiare e civile, di diritto privato e pubblico (nonché di diritto processuale[90]). Anzi (al contrario del processo logico medievale-moderno-contemporaneo, nel quale il regime della rappresentanza/sostituzione è introdotto per la volizione unitaria della pluralità di uomini e quindi esteso alla volizione individuale) nel processo logico antico, il regime della partecipazione e cooperazione appare nato per la volizione individuale (precisamente in àmbito familiare: attività amministrative/negoziali del pater-dominus mediante il filius o il servus) e quindi utilmente esteso alla volizione unitaria della pluralità di uomini.

Questo ‘regime/iter’ appare, inoltre, oggetto di elaborazione secolare in entrambi gli ‘àmbiti’ (gius-privatistico e gius-pubblicistico), come dimostrano le vicende parallele (laddove non si tratti di una vicenda unica) da un lato, della formazione delle cosiddette actiones adiecticiae qualitatis e delle relazioni di diritto sostanziale ad esse sottese (tra cui quelle del mandato e della procura)[91] e, da altro lato, della circoscrizione della nozione di lex publica - iussum populi al solo iussum generale con il divieto di rogazione di privilegia[92].

Tra le caratteristiche di questo ‘regime/iter’ rientra e non può non essere menzionato il suo nesso con due istituzioni – non casualmente – entrambe «dimenticate» dalla scienza romanistica (e, quindi, giuridica) contemporanea: le istituzioni municipale[93] e tribunizia[94].

Nella particolare materia della “rappresentanza politica”, la riflessione critica (sia quella ‘risalente’ del XVIII secolo, sia quella ‘recente’ del XX secolo) ne cerca la alternativa partecipativa presso la (piccola) Città, soltanto attraverso la quale è pensabile/sperimentabile in maniera partecipativa (= democratica) la federazione[95]-[96]-[97].

La istituzione tribunizia (di estrema importanza[98] e attualità[99] per la volizione collettiva non soltanto dal punto di vista del diritto pubblico ma anche dal punto di vista del diritto privato[100]) trova la propria collocazione soltanto nello snodo della articolazione volitiva della partecipazione e cooperazione[101]. È còmpito insostituibile dei Tribuni/Sindaci vegliare sulla congruità, nell’atto di governo del magistrato, della volizione di questo con la volizione del Popolo[102].

 

 

Conclusioni e prospettive

 

Secondo la nostra ipotesi, il genus di iter volitivi mediante intermediari (genus che, oggi, chiamiamo e interpretiamo come “rappresentanza” e che – sia pure come inizialmente “soltanto indiretta” e magari mai veramente “perfezionata” – attribuiamo al / proiettiamo sul Diritto romano) nel Diritto romano, in particolare nella sua sintesi giustinianea, è non soltanto chiamato con parole ma anche interpretato e utilizzato con logica e modalità più che diverse, opposte rispetto a quelle della “rappresentanza”.

Per poterci avvicinare alla comprensione di tali opposte logica e modalità gius-romane, dobbiamo, infatti, letteralmente rovesciare la prospettiva odierna della “rappresentanza”, ciò che – in ultima analisi – possiamo fare osservando in queste forme di volizione (come fa Weber)[103]chi comanda” nonché (aggiungiamo) “come comanda”.

Già al primissimo livello di accostamento, quello della indicazione degli attori sulla scena giuridica, dobbiamo passare dalla formula della “negoziazione in nome e per conto di un terzo” alla formula “negoziazione mediante un intermediario” ovvero dall’ “agire per altri” all’ “agire per mezzo di altri”. Dobbiamo, cioè, rimettere al centro della azione – ovvero al posto di comando – il “dominus negotii”, il quale nel diritto feudale (dalla origine medievale agli sviluppi statali moderni e contemporanei) è stato e continua ad essere vieppiù “detronizzato” a favore del “rappresentante”.

Al livello successivo, della analisi della loro azione, si deve passare dalla “sostituzione” del “rappresentato” ad opera del “rappresentante” alla “cooperazione” del mandatario-procuratore con la azione del mandante - dominus negotii.

Nel Diritto romano, infatti, i negozi mediante intermediari appaiono resi possibili connettendo mandato (del quale occorre recuperare il significato di combinazione di “comando” e di trasmissione di potere)[104] e procura in un rapporto a “due lati”: uno “interno” (dove il mandante stabilisce in maniera parziale ma importante [“generale”] il contenuto della attività negoziale da compiersi mediante il mandatario) e l’altro “esterno” (dove il mandatario esegue-integra, con il terzo, il mandato). Il negozio compiuto dal mandatario-procuratore è, dunque, il risultato di una “cooperazione” volitiva asimmetrica di questi con il mandante. Il mandatario-procuratore (privato e pubblico) è il discendente del servus, destinatario dello iussus domini, e ne conserva il DNA istituzionale[105].

Tale meccanismo è – come si è detto nonché ovviamente – più che inadatto, contrario allo scopo ‘politico’ per il quale viene, inizialmente, costruita nel XIII secolo e, quindi, sviluppata sino ai giorni nostri la “rappresentanza”. Lo scopo medievale-moderno (ovverosia feudale-statuale) è rendere domini i mandatari-procuratori e servi i mandanti. Esso è stato perseguito, inizialmente, con la «astrazione/smaterializzazione» del mandante collettivo, il quale – pertanto – deve essere «sostituito» dal mandatario “rappresentante”. Quando – nel XIX secolo – ci si è resi conto della esigenza di transitare attraverso il Diritto romano[106], la “sostituzione” è stata perfezionata con due contestuali operazioni. Una è la trasformazione/degradazione dello iussum (anche) individuale – attestato presso le fonti di questo Diritto – da “comando” rivolto al subalterno a vaga “autorizzazione” rivolta a qualunque potenziale interessato; l’altra è la “autonomizzazione” della procura dal mandato, la quale continua a caratterizzare dinamicamente la ‘nostra’ esperienza giuridica[107].

La confutazione, durante gli anni ’70, della astrazione/smaterializzazione del populus e la connessa affermazione della sua presenza operante hanno aperto prospettive di partecipazione, per la cui valutazione scientifica e politica difficilmente si possono adoperare aggettivi esagerati.

Ciò che resta da fare e intendiamo ora fare[108] è comprendere la logica della conquista della unità nella concretezza (cioè, in ipotesi, la logica del corpus societario) e ri-costruirne il “moyen technique” della partecipazione (cioè, sempre in ipotesi, il meccanismo della partecipazione mediante cooperazione). Per fare ciò è necessario ma non sufficiente tornare alla dottrina romanistica precedente la svolta operata su base savigniana da Windscheid e Laband (cioè, in particolare, tornare alla dottrina di Jhering). Ri-partendo da quella dottrina, occorre ri-leggere le fonti romane per ri-costruire la logica e il meccanismo, i quali consentono alla “democrazia” la grande dimensione (la crescita in inmensum [Liv. a.u.c. 4.4]) e la ‘longue durée’ (Virg. aen. 9.448 s.). Crediamo, infatti, questi logica e meccanismo certamente proprî della scienza giuridica romana[109]. Può restare, invece, opinabile (ma è questione filosofica) se è quel meccanismo che apre la strada alla logica per la quale «i Romani sono abituati a pensare democraticamente»[110] ovvero se è quella logica che conduce a trovare il meccanismo senza il quale essa non è praticabile.

 

 

Abstract

 

La noción jurídica de “representación” nace y tiene sentido come parte de una específica forma del binomio constituido por la concepción y el régimen unitarios de la pluralidad de hombres.

Esta ‘forma específica’ es “persona jurídica y representación”. La “abstracción” de la pluralidad de hombres, conseguida con la noción de “persona jurídica”, es instrumental para su “substitición” volitiva (es decir, substitución en el ejercicio de su poder) por parte del “uno” o de los “pocos”, obtenida con la noción de “representación”.

El ‘binomio’ recibe esta ‘forma específica’ en aplicación de la lógica organizativa feudal: inicialmente durante la edad media avanzada y luego durante la época moderna y la contemporánea, en una progresión científica, que continúa.

La Pandectística ha reforzado el binomio feudal a nivel de verdadero postulado de razón, sobrescribiendolo en la lógica jurídica romana, que se “olvida”. Al refuerzo contribuye la aplicación de la noción de representación también a la categoría de los actos de volición individual con intermediarios (mandatum - procura). El resultado se resume con la fórmula “actuar por otros”, la cual expresa el protagonismo del “representante” (sujeto de la acción) y la eclipse del “representado” (“otros”).

A pesar de las voces críticas (en particular contra la “representación política”, más expuesta a ellas como “hierro de lanza” de la parte operativa del binomio feudal), este sigue apareciendo sin alternativas, justo en virtud de su superposición al Derecho romano durante el siglo XIX; superposición que, en el curso del siglo XX no se niega sino que se historiza.

Por lo tanto, parece necesaria y se propone una relectura de las fuentes romanas, la que, contra la lógica del “actuar por otros”, pueda recuperar la lógica del “actuar por medio de otros”, propia del “dominus negotii”; y, contra el binomio feudal de la “desmaterialización” de la pluralidad de hombres en la “persona jurídica” y de su consiguiente “substitución” volitiva con el “representante”, pueda recuperar el binomio republicano del “cuerpo societario concreto” y de su consecuente “participación” en la volición, a la que “colabora” un “encargado subalterno”.

 

 

La nozione giuridica di “rappresentanza” nasce e ha senso come parte di una specifica forma del binomio costituito dalla concezione e dal regime unitari della pluralità di uomini.

Tale ‘specifica forma’ è “persona giuridica e rappresentanza”. La “astrazione” della pluralità di uomini, ottenuta con la nozione di “persona giuridica”, è strumentale alla loro “sostituzione” volitiva (alla sostituzione cioè nell’esercizio del loro potere) da parte dell’ “uno” o dei “pochi”, ottenuta con la nozione di “rappresentanza”.

Tale ‘specifica forma’ è data al ‘binomio’ in applicazione della logica organizzativa feudale; inizialmente durante la epoca medievale avanzata e quindi durante le epoche moderna e contemporanea, con una progressione scientifica tuttora in corso

La Pandettistica ha potenziato il ‘binomio feudale’ a postulato di ragione, sopra-scrivendolo sulla logica giuridica romana, la quale è “dimenticata”. Al ‘potenziamento’ concorre la applicazione della nozione di “rappresentanza” anche alla categoria degli atti di volizione individuale per mezzo di intermediari (mandatum - procura). Il risultato è sintetizzato con la formula “agire per altri”, la quale esprime il protagonismo del “rappresentante” (soggetto della azione) e la eclisse del “rappresentato” (“altri”).

Nonostante le voci critiche (in particolare contro la “rappresentanza politica”, più esposta ad esse in quanto ‘ferro di lancia’ della parte operativa del binomio feudale) questo continua ad apparire privo di alternative, proprio in forza della sua sovrapposizione ’800esca sul Diritto romano, la quale durante il ’900 è stata storicizzata, non negata.

Pertanto, appare necessaria e si propone una rilettura delle fonti romane, la quale, contro la logica dell’ “agire per altri”, recuperi la logica dell’ “agire per mezzo di altri”, propria del “dominus negotii”, e, contro il binomio feudale della “smaterializzazione” della pluralità di uomini nella “persona giuridica” e della loro conseguente “sostituzione” volitiva con il “rappresentante”, recuperi il binomio repubblicano del concreto corpo societario e della sua conseguente “partecipazione” alla volizione, cui “coopera” un preposto in posizione subordinata.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

* Giovanni Lobrano ha scritto la “Premessa”, la parte I e le “Conclusioni e prospettive”. Pietro Paolo Onida ha scritto la parte II.

 

[1] Di regola, negli odierni testi normativi e di dottrina, la precisazione ‘della volontà’ è superflua e quindi omessa. Vedi, ad es., la sezione “Della rappresentanza” nel CC italiano (libro IV “Delle obbligazioni”, titolo II “Dei contratti in generale”, sezione VI: art. 1387-1400) e le voci “Rappresentanza” presso le enciclopedie giuridiche (il NNDI, la EdD, la Enciclopedia giuridica Treccani etc.) Tuttavia, in considerazione della distinzione operata da Jean-Jacques Rousseau, tra rappresentanza della volontà e rappresentanza del potere (sulla quale torniamo più avanti, vedi nt. 18), precisiamo preliminarmente che – per restare nel sistema semantico delle odierne normativa e dottrina – anche noi useremo la parola “rappresentanza” senza specificazione nel senso tecnico-giuridico della “rappresentanza della volontà”, nelle sue varie forme.

 

[2] Nel 1840, Friedrich von Savigny, nel proprio System, al § dedicato alla “Stellvertretung”, aveva consacrato la rappresentanza come importante progresso giuridico («wichtige Förderung in den gesammten Rechtsverkehr» (vedi, infra, nt. 57). Nel 1934, Ernst Rabel, fondatore e primo direttore del Max-Planck-Institut für Ausländisches und Internationales Privatrecht di Hamburg, aveva definito la “rappresentanza” un “juridisches Wunder”. Nel 1969, Karl Loewenstein (Verfassungslehre, Tübingen, 35) scriveva a proposito della politica “Repräsentation” essere stata (in combinazione con la “Gewaltenteilung”) una «Erfindung» la quale «für die politische Entwicklung des Westens und damit der Welt ebenso entscheidend war wie die technischen Erfindungen des Dampfes, der Elektrizität, des Verbrennungsmotors oder der Atomkraft». Nel 1974, Hasso Hofmann, nella “Einleitung” alla propria monografia sulla rappresentanza, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins 19. Jahrhundert, afferma che nella dottrina giuridica tedesca contemporanea «steht die Bedeutsamkeit dieser Kategorie auβer Frage» (di questa monografia è disponibile la edizione italiana: Rappresentanza-rappresentazione: parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, tr. di C. Tommasi a cura di Duso G. dalla 4a ed. ted., Milano 2007). Tale affermazione può essere estesa senza difficoltà (vedi la “Introduzione” di Duso, VII) alla intera dottrina giuridica contemporanea.

 

[3] A proposito – ma non soltanto – del populus romano: P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, su cui torneremo, infra, § II.2.b. Di Catalano, su questa materia, si veda anche Diritto e persone, I, Torino 1990, in part. il cap. V. “Alle radici del problema delle persone giuridiche”, 163 ss.

 

[4] Si può qui ripetere – senza sopravvalutarla – la osservazione filologica – già di Schnorr von Carolsfeld – che il verbo “repraesentare” e i suoi derivati non compaiono nella terminologia del Diritto romano (in particolare privato e delle obbligazioni) (S. v. Carolsfeld, Repraesentatio. Eine Untersuchung über den Gebrauch dieses Ausdrucks in der römischen Literatur, 1939; Cfr. Ha. Hofmann, Rappresentanza - Rappresentazione, cit., 173, nt. 144).

Questi autori confermano ciò che Rousseau scrive già nel 1762 «Dans les anciennes républiques & même dans les monarchies, jamais le peuple n’eut des représentants; on ne connoissoit pas ce mot-là» (CS, 3.15 “Des Députés ou Représentans”; cfr, infra, nt. 24).

 

[5] Agire per altri è il titolo di una raccolta di scritti (dei quali buona parte romanistici) a cura di A. Padoa Schioppa, Napoli 2010.

Si può anche osservare in prima approssimazione che la espressione “communiter gerere” è riservata, presso le fonti giuridiche, alla gestione di res communes in assenza di societas o, quanto meno, di contratto di societas (Pia Storace, Sulla tutela processuale del communiter gerere. Intorno a D. 17.2.62, Bari 2015).

 

[6] Cfr. I. 3.19.19 Alteri stipulari […] nemo potest; Paul. D. 44.7.11 Quaecumque gerimus, cum ex nostro contractu originem trahunt, nisi ex nostra persona obligationis initium sumant, inanem actum nostrum efficiunt: et ideo neque stipulari neque emere vendere contrahere, ut alter suo nomine recte agat, possumus; Q. M. Scaev. D. 50.17.73.4. Nec paciscendo nec legem dicendo nec stipulando quisquam alteri cavere potest.

 

[7] Nei §§ 4 s. del titolo 9 “Per quas personas nobis adquiritur” del libro 2 delle Istituzioni. Cfr. C. 4.27 [Per quas personas nobis adquiritur] 1 Excepta possessionis causa per liberam personam, quae alterius iuri non est subdita, nihil adquiri posse indubii iuris est; Paul. D. 45.1.126 per liberam personam quae neque iuri nostro subiecta est neque bona fide nobis servit, obligationem nullam adquirere possumus; Gai. inst. 3.103 Praeterea inutilis est stipulatio, si ei dari stipulemur, cuius iuri subiecti non sumus; I. 3.19.4. ei, qui tuo iuri subiectus est, si stipulatus sis, tibi adquiris, quia vox tua tamquam filii sit, sicuti filii vox tamquam tua intellegitur in his rebus quae tibi adquiri possunt; Paul. sent. 5.2.2 Per liberas personas quae in potestate nostra non sunt, adquiri nobis non potest; Theoph. parafr. 2.9.5.

 

[8] Presso Savigny, la istitituzione della rappresentanza/Stellvertretung è precisamente connessa alla incapacità naturale o giuridica del rappresentato (vedi, infra, nt. 57).

Ripete la dottrina di Savigny Mario TALAMANCA (ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi) nel proprio manuale di Istituzioni di Diritto romano, Milano 1990, § 66 “La rappresentanza”, 264 ss. Talamanca scrive della “rappresentanza” presso il Diritto romano nella accezione di «rappresentanza necessaria o legale», precisando che «Alla rappresentanza legale viene usualmente riportata, nella romanistica, anche l’attività di quelle persone che, avendo la cura o la tutela di persone parzialmente incapaci, si sostituiscono ad esse nel compimento di negozi, anche se esse potrebbero agire personalmente etc

Dal nostro punto di vista, non è difficile capire che la tutela e la curatela possono farsi rientrare nella categoria-istituzione della “rappresentanza” per la stessa speculare ragione per la quale non vi si possono fare rientrare gli atti compiuti “per mezzo di altri” (vedi, infra, § I.1.c, in fine).

 

[9] F. Briguglio, Studi sul procurator. I, L’acquisto del possesso e della proprietà, Milano 2007, 521 s.

 

[10] Vedi, infra, nt. 15.

 

[11] P. Voci, Istituzioni di Diritto romano, 6a ed. Milano 2004 (1a ed. 1946) § 39 “Negozio giuridico. Rappresentanza”, 137.

Negli anni 2000, presso Giovanna Coppola Bisazza, Lo iussum domini e la sostituzione negoziale nell’esperienza romana, Milano 2003, 1, nt. 3, troviamo la equazione di «rappresentanza diretta» e di «sostituzione diretta» dalla quale emerge che la essenza “sostitutiva” è riconosciuta all’intero genus “rappresentanza” e non soltanto alla sua species “diretta”. Coppola Bisazza, tornando cinque anni dopo sul tema (Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della Rappresentanza, Milano 2008, 9) scrive di una preferenza all’uso della «espressione sostituzione negoziale» in luogo del «termine rappresentanza»: «Pur evitando accuratamente di usare il termine rappresentanza, preferendo ad essa l’espressione più idonea di sostituzione negoziale, si è tuttavia ugualmente giunti alla conclusione che “ciò che, in definitiva, sarebbe rimasto rigorosamente inammissibile in diritto romano classico sarebbe stata soltanto la possibilità di ammettere la efficacia acquisitiva diretta [il corsivo è nostro] in favore del dominus negotii dell’operato dell’intermediario …”» (citazione di A. Corbino, “Forma librale e intermediazione negoziale” in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, Napoli 1984, 2271, nt. 50). Peraltro, secondo Coppola Bisazza: «è proprio in questa impostazione ‘moderna’ della rappresentanza che è possibile cogliere il retaggio dell’originaria concezione romana» (Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della Rappresentanza, cit., § “Considerazione conclusive” 365).

Per il diritto pubblico, vedi A. Lalande, Vocabulaire technique et critique de la philosophie, Paris 1991, 922 «Représenter en politique, c’est tenir la place de être substitué à quelqu’un dans l’exercice de ses droits ou pour la défense de ses intérêts» ripreso da E. Sena Avonyo, “La représentation démocratique” in L’atelier des concepts des semaines à venir. L’Academos, 15/03/10.

 

[12] P. D’Amico, “Rappresentanza, I. Diritto civile” in Enciclopedia giuridica Treccani, XXIX, Roma 1991, § 1. “Nozione, struttura, funzione” (2). Secondo la esposizione di D’Amico (la quale, tra le molte anche blasonate di tale questione, ci appare una delle più ordinate e, pertanto consistenti) si trovano, presso la dottrina, entrambe le interpretazioni della “rappresentanza”: “sostitutiva” e “cooperativa” ma la prima è “prevalente”: «si discute ancora se la rappresentanza sia da ricondurre nell’ambito della cooperazione o della sostituzione […] le due concezioni [] sembrano essere il riflesso delle due filosofie ispirate alla cosiddetta giurisprudenza degli interessi od alla giurisprudenza dei concetti []. Così una parte della dottrina attribuisce rilevanza preminente (e dunque anche esterna) al rapporto di gestione che vincola rappresentante e rappresentato […] in questa prospettiva il fenomeno rappresentativo viene costruito in termini unitari e la procura non assume rilievo autonomo rispetto al rapporto di gestione sottostante [citazz. di S. Pugliatti e U. Natoli]. L’opinione prevalente ritiene però che tale rapporto abbia una rilevanza meramente interna [citazz. di E. Betti, F. Santoro Passarelli e L. Carraro]. Secondo tale concezione l’attuazione degli interessi del rappresentato costituisce allora un connotato frequente ma non necessario della rappresentanza, mentre l’accento viene posto sul “potere” del rappresentante svincolato dal rapporto di gestione. Il rappresentante, piuttosto che come collaboratore, viene così qualificato come un “sostituto” del rappresentato [citazz. di E. Betti e F. Santoro Passarelli] il cui potere (ma da taluno si ritiene preferibile parlare di “legittimazione” [citazz. di U Natoli, G. Mirabelli e C.M. Bianca) viene conferito allo stesso rappresentante con una “autorizzazione” (procura) [citazz. di F. Santoro Passarelli e A. Trabucchi <critico> …] si osserva che il concetto di autorizzazione, pur riconosciuto in altri ordinamenti positivi, non è presente nel nostro dove, anzi, viene avversato dalla dottrina prevalente [citaz. di A. Luminoso …] Una tesi che appare intermedia precisa però che l’attribuzione del potere avviene sempre in funzione dell’interesse del titolare [… citazz. di R. Scognamiglio e C.M. Bianca …] Pur senza entrare nel merito delle opposte concezioni [] sembra però importante rilevare la difficoltà a costruire uno schema unitario di rappresentanza …».

Come esempio (autorevole e non isolato) di trattazione disattenta della relazione tra “sostituzione” e “cooperazione” in materia di “rappresentanza”, può essere citata la trattazione di Angelo Luminoso, “Il mandato e la commissione” (in P. Rescigno, dir., Trattato di diritto privato, vol. 12, Obbligazioni e contratti, Tomo IV, Torino 1985), ove, sin dalla prima pagina, le due categorie sono usate frequentemente senza formulare una distinzione chiara tra loro. Tuttavia, dalla esposizione di Luminoso (in particolare i 4 §§ iniziali: 5-19) la quale è un ottimo esempio della dottrina dominante, possono ricavarsi alcune indicazioni utili per la nostra linea di ricerca. Luminoso: α) sostiene senza l’ombra del dubbio la natura sostitutiva della rappresentanza, β) la concepisce nettamente distinta da quello che chiama “rapporto gestorio”, γ) ne distingue due interpretazioni, una (definita «rappresentanza degli interessi» e caratterizzata dalla rilevanza prevalente assegnata all’ «interesse del sostituito») che rifiuta categoricamente e un’altra (di impostazione «giuridico-formale» incentrata sulla contemplazione della attività negoziale del rappresentante «svalutando in maniera pressoché totale il momento economico della cooperazione gestoria» !) che ritiene da accogliere cum grano salis.

Non possiamo qui omettere un riferimento al lungo saggio di Fracanzani sulla rappresentanza (M.M. FRACANZANI, Il problema della rappresentanza nella dottrina dello Stato, Padova 2000) il cui esame è circoscritto alla relazione di questa con la dottrina dello Stato ma fa frequenti riferimenti al diritto privato. L’autore non affronta la questione della natura sostitutiva e/o cooperativa della rappresentanza ma la tesi da lui sostenuta (che la natura della rappresentanza è “dualista”, comporta cioè la presenza di due volontà, quella del rappresentato e quella del rappresentante [v., ad es., p. 47]) lo colloca su una posizione opposta a quella espressa da D’Amico. Fracanzani sostiene che tale (“dualista”) rappresentanza è propria del diritto privato ma incompatibile con il “monismo” della “sovranità” statale, per la quale – quindi – neppure è corretto usare la categoria di rappresentanza. Non è qui il luogo per discutere la tesi di Fracanzani la quale è, peraltro, caratterizzata da alcuni non comprensibili silenzi. Questo A., pure citando il Diritto romano (talvolta) e la dottrina di Rousseau (molte volte), ne tace la relazione, quale, oramai molti anni or sono, è stata – per così dire – riscoperta da Jean Cousin e approfondita da Pierangelo Catalano (J. COUSIN, «J.-J. Rousseau interprète des institutions romaines dans le Contrat social» in Aa.Vv., Etudes sur le Contrat social de Jean Jacques Rousseau: actes des journées d’études organisées à Dijon pour la commémoration du 200e anniversaire du Contrat social, Paris 1964, 13-34; P. CATALANO, Tribunato e resistenza, Torino 1971, e Populus Romanus Quirites, Torino 1974) cui rinvio. Così (ad es.) Fracanzani, pure ponendosi il problema del “controllo” della corrispondenza tra la volontà del rappresentante e quella del rappresentato, mai accenna all’istituto romano del “tribunato”, ripreso e riproposto da Rousseau (ma non soltanto!) proprio per “conservare” il corretto rapporto volitivo tra Popolo e magistrati. Ancora è assente, nel saggio in esame, ogni riferimento al filone (aperto dalla ‘Aktiengesetz’ tedesca del 1937 e oggi planetariamente dilagato) di allineamento della rappresentanza di diritto privato a quella di diritto pubblico. Tuttavia, non si può non concordare con Fracanzani quando egli conclude la propria esposizione (p. 430) affermando la esigenza di “ricostruire gli istituti giuridici” su base “partecipativa” e “dualista”.

 

[13] W. Flume, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, Bd. II. Das Rechtsgeschäft (1. Aufl. 1965 - 4. Aufl. 1992) 2. Auf. Berlin - Heidelberg - New York 1975, Kap. X. “Stellvertretung und Vollmacht”, 1. Absch. “Die Stellvertretung”, § 43 “Grundsätzliches zur Rechtsfigur der Stellvertretung”, 751 s. «Die sogennante Geschäftsherrentheorie (begründet von Savigny). Danach ist bei der Stellvertretung der rechtgeschäftlich Handelnde allein der Vertretene. Der Vertreter ist nur der Träger des Willens des Vertretenen und somit der Vertretene selbst der Wollende der Stellvertretergeschäfts. […] Die sogennante Repräntationstheorie [la cui paternità è attribuita a Windscheid]. Sie geht davon aus, daß der Stellvertreter den Vertretenen vorstelle, repräsentiere. Der Vertreter sei zwar der Handelnde der Rechtsgeschäfts, die Rechtswirgungen träfen aber den Vertretenen.» Per la precisione dobbiamo aggiungere che anche Flume menziona altre “teorie”: una sostanzialmente non influente («Die Stellvertretung sei als allgemeines Institut nicht anzuerkennen» [Puchta]) e una sostanzialmente di mediazione (la «Vermittlungstheorie» [Mitteis, Lenel]).

La contrapposizione proposta da Flume è stata ripresa da H. Wieling, “Drittwirkungen des mandats und ähnlicher Rechtsverhältnisse” in D. Nörr, Sh. Nishimura, Hrsg., Mandatum und Verwandtes. Beiträge zum römischen und modernen Recht, Berlin etc. 1993, 244. Vedi anche G. Priori Posada, “La representación negocial. Del derecho romano a la codificación latinoamericana” in Ius et Veritas, vol. 10, núm. 20, 2000, 364 nt. 113 e D. Leenen, BGB Allgemeiner Teil: Rechtsgeschäftslehre, 2. Auf., Berlin Boston 2015, § “Die Repräsentationstheorie als Grundlage der Gesetzlichen Regelung des Handelns in fremden Namen” (1: “Geschäftsherrntheorie und Repräsentationstheorie”).

È degno di nota immediata che Flume fa risalire la “teoria della rappresentanza” a Windscheid, e D’Amico connette la interpretazione della rappresentanza come sostituzione alla “giurisprudenza dei concetti” (la quale è considerata appunto riconducibile a Bernhard Windscheid) e la interpretazione della rappresentanza come cooperazione alla “giurisprudenza degli interessi” (la quale è considerata riconducibile a Rudolf von Jhering, sul cui apporto estremamente importante apporto alla nostra questione, vedi, infra, il § II.2.b. e la nt. 76 del § II.2.c).

 

[14] Ci riferiamo a quanto sostenuto nel saggio Repräsentation, cit., come sintetizzato da Giuseppe Duso: “Introduzione” alla ed. it. 2007.

Scrive Ha. Hofmann, op. cit., 19 «Bei aller Vielfalt im einzelnen fällt innerhalb der jüngeren deutschen staatstheoretischen Behandlung des Repräsentationsbegriffs im Gegensatz dazu die negative Übereinstimmung in dem Bestreben auf, den Mandatsgedanken beiseite zu schieben oder ganz zu eliminieren. […] Rechtlich ist der Wille des Parlaments allein dem Staat (und nur politisch-ideologisch dem Volke) zuzurechnen» = ed. it., 6 s. «Ciò che caratterizza, e nel contempo accomuna tutte le trattazioni dedicate al concetto della rappresentanza dalla più recente dottrina dello Stato tedesca è il ripudio dell’idea di mandato e lo sforzo che ogni autore conduce al fine di accantonarla o persino di eliminarla. […] Dal punto di vista giuridico la volontà del parlamento va riferita unicamente allo Stato, mentre concerne il popolo solo nella prospettiva politico-ideologica».

Cfr. op. cit., 118: «Die Frage […] ist, in welchem Kontext und Kraft welcher Momente dem Wort repraesentatio der Sinn rechtlicher Stellvertretung zugewachsen ist […] Stellvertetung im weitesten und ursprunglichen Verstände Ersetzung ist» = ed. it. 136: «Occorre […] stabilire in che contesto e attraverso quali passaggi al termine “repraesentatio” sia divenuto congeniale il significato della “vicarietà” […] “vicarietà”, nella concezione più ampia e originaria, equivale a “sostituzione”».

Occorre qui osservare – seppure soltanto incidentalmente – che il saggio di Hofmann, più filologico che giuridico, non è premiato dalla ondivaga traduzione italiana. I titoli del capitolo 4 e del paragrafo 12 della ed. ted. sono perfettamente uguali: “Repräsentation und Stellvertretung”; essi, però, sono tradotti il primo come “Repraesentatio e luogotenenza”, il secondo come “Rappresentazione e vicarietà” e il tutto ha qualche difficoltà a conciliarsi con la osservazione di Duso riportata, supra, in questo testo.

Si veda anche Valeria De Lorenzi, “La rappresentanza nel diritto tedesco. Excursus storico su/la dottrina” in Giovanna Visintini, a cura di, Rappresentanza e gestione, Padova 1992, 72-93.

 

[15] M. Campobasso, “Il potere di rappresentanza degli amministratori di società di capitali nella prospettiva dell’unità concettuale delle forme di rappresentanza negoziale e organica” in Amministrazione e controllo nel diritto delle società. Liber amicorum Antonio Piras, Torino 2010, 452 ss. (cfr. Id., L’imputazione di conoscenza nelle società, Milano 2002, 172 ss.)

 

[16] Sulla nozione di costituzionalismo ‘elitista’, vedi Lucia Corso, I due volti del diritto: élite e uomo comune nel costituzionalismo americano, Torino 2016, passim, in part. il cap. II “Costituzionalismo giuridico: tre tappe storiche di elitismo costituzionale”.

 

[17] Vedi, infra, nt. 22.

 

[18] Il ‘romanista’ Max Weber (autore della Römische Agraargeschichte in ihrer Bedeutung für das Staats und Privatrecht, 1891), nel famoso saggio Wirtschaft und Gesellschaft, la cui prima edizione (postuma) è del 1922, pone nella “schärfste Gegensatz” la “gebundene Repräsentation” (per la quale usa come sinonimi “gebundenes”- o “imperatives Mandat”) e la “freie Repräsentation”. A proposito della prima, Weber scrive che «Diese “Repräsentanten” sind in Wahrheit: Beamte der von ihnen Repräsentierten» e che «sie Surrogat der in Massenverbänden unmöglichen unmittelbaren Demokratie ist». A proposito della seconda, egli scrive, invece, che «Der Repräsentant, in aller Regel gewählt (eventuell formell oder faktisch durch Turnus bestimmt), ist an keine Instruktion gebunden, sondern Eigenherr über sein Verhalten. Er ist pflichtmäßig nur an sachliche eigene Ueberzeugungen, nicht an die Wahrnehmung von Interessen seiner Deleganten gewiesen […] der von den Wählern gekorene Herr derselben, nicht: ihr “Diener”, ist. Diesen Charakter haben insbesondere die modernen parlamentarischen Repräsentationen angenommen» e che «Repräsentativ-Körperschaften sind nicht etwa notwendig “demokratisch” […]. Im geraden Gegenteil wird sich zeigen, daß der klassische Boden für den Bestand der parlamentarischen Herrschaft eine Aristokratie oder Plutokratie zu sein pflegte (so in England)». Weber precisa, inoltre, che «Nicht die Repräsentation an sich, sondern die freie Repräsentation und ihre Vereinigung in parlamentarischen Körperschaften ist dem Okzident eigentümlich», mentre ciò che si trova «in der Antike» sono «Delegiertenversammlungen bei Stadtbünden, grundsätzlich jedoch mit gebundenen Mandaten». (M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, 5a ed., hrsg v. J. Winckelmann, Tübingen 1976, lib. I cap. III § 21).

Confermata la riserva metodologica sull’uso della categoria rappresentanza per la comprensione della esperienza antica, dobbiamo positivamente osservare il nesso della riflessione strettamente tecnicamente giuridica svolta da Weber sul rapporto padrone-servo (Herr-Diener) nella “rappresentanza”, con la omologa e più nota riflessione svolta da Friedrich Hegel sul medesimo rapporto (“Herrschaft und Knechtschaft”, vedi Id., Fenomenologia dello spirito, 1806, ed. it. a cura di E. Arrigoni, rist. Roma 2007, 55 s., in particolare 74 s.) ed espressamente ripresa da Karl Marx.

 

[19] Come noto, la formazione dei Parlamenti medievali (a partire dalle “Cortes” di León, convocate nel 1188 da Alfonso IX, Re di León e di Galizia e considerate le prime convocazione e riunione di un Parlamento moderno) fu ottenuta mediante l’inserimento dei delegati dei “Comuni” nei ‘vecchi’ Consilia Regis feudali. I delegati erano vincolati da mandato imperativo, così come ancora il Parlamento ribelle, convocato in Inghilterra dal barone Simon de Montfort nel 1265. La – grande – novità del primo Parlamento legale inglese, riunito nel 1295, è, precisamente, il ‘divieto del mandato imperativo’ ossia la introduzione della rappresentanza/sostituzione dei Comuni. Questi così sono espulsi dal processo decisionale, il quale così si concentra nel Consilium/Parlamento (J.F. Costanzo, S.J., “Juridic Origins of Representation. II” in Fordham Law Review, Volume 23, Issue 3, 1954, 296 ss.)

Il ‘divieto’ si manifesta, quindi, nella Francia del secolo immediatamente successivo (Y. Krynenl, L’État de justice. France, XVIIIe-XXe siècle. I. L’idéologie de la magistrature ancienne, Paris 2009, ch. 3 “De la représentation à la dépossession du roi”, 62 ss.) e diviene la vera chiave di volta del ‘sistema parlamentare’ contemporaneo sino ai giorni nostri, quando è la regola – quasi senza eccezioni – delle Costituzioni (in quella italiana, del 1948, il ‘divieto’ è inserito all’art. 67 [vedi, infra, nt. 26]).

Questo ‘divieto’ feudale appare resistere ad ogni tentativo di eliminazione. In Italia, sono falliti due tentativi di abrogarlo. Il primo tentativo è stato la legge n. 81 del 1993, la quale obbliga i candidati Sindaci (e candidati Presidenti delle Province) alla sottoposizione al voto dei Cittadini elettori del proprio programma amministrativo. Tale legge è stata immediatamente, sostanzialmente annullata dai giudici amministrativi (sentenze del Consiglio di Stato V Sezione, 6 luglio 1994, n. 732. [Conferma della sentenza TAR Abruzzo - Pescara, 5 novembre 1993, n. 537] e del Consiglio di Stato V Sezione, 25 maggio 1998, n. 688 [Conferma della sentenza del TAR Campania - Napoli: II Sezione, 15 febbraio 1997, n. 357]) i quali hanno “giudicato” quella obbligazione una mera, vuota formalità. Il secondo tentativo è stato la «Proposta di legge costituzionale n. 5923 [presentata al Parlamento italiano il 20 aprile 1999 da 21 deputati] “Modifica dell’articolo 67 della Costituzione, in materia di divieto di mandato imperativo”», nella cui “Relazione” di presentazione si sostiene che «una disposizione del genere aveva fatto ormai il suo tempo […] Perciò oggi il divieto di mandato imperativo è una norma tralatizia» nonché in «irriducibile contrasto con l’articolo 1, secondo comma, della Costituzione, in base al quale la sovranità appartiene al popolo» (è la tesi di Mortati!) e con il diritto dei cittadini «a concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale [art. 49]». La proposta di legge costituzionale del ’99 non è stata approvata. Restano straordinari sia il fatto di due attacchi – almeno tendenzialmente – mortali alla rappresentanza politica, attraverso la abrogazione della sua regola-chiave, sia il fatto che tali attacchi non abbiano suscitato nessuna reazione: né scientifica né politica.

Sull’istituto della revoca dei mandatari (presente in alcune esperienza costituzionali, ad es. Stati Uniti [“recall”] Portogallo [art. 160.1] Costituzione “bolivariana” del Venezuela) vedi R. Scarciglia, Il divieto di mandato imperativo. Contributo ad uno studio di diritto comparato, Padova 2005.

 

[20] Sul nesso del regime unitario della pluralità di uomini con la loro concezione unitaria, vedi, infra, § II.2.a.

 

[21] Nel dibattito sviluppatosi in Italia, a margine della riforma costituzionale per il “Senato delle Autonomie”, c’è stato chi ha provato a rimettere in discussione – almeno per questa materia – il “mandato imperativo”. Così, sia pure rapidamente, F. Bilancia, “Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del d.d.l. Renzi. Sfidando il divieto di una discussione pubblica” in www.costituzionalismo.it, 2 aprile 2014, 5. Appaiono però maggioritarie le voci di coloro i quali (non possedendo la distinzione romana tra lex - iussum generale e privilegium) neppure riescono a concepire la possibilità di coniugare uno spazio significativo di discrezionalità del mandatario con la presenza del mandato imperativo.

 

[22] Nella Germania nazista, l’Aktiengesetz (Gesetz über Aktiengesellschaften und Kommanditgesellschaften auf Aktien) riforma, il 30 gennaio 1937, l’HGB (Handelsgesetzbuch) risalente al 10 maggio1897. Il § 70 della AktG recita: «Der Vorstand hat unter eigener Verantwortung die Gesellschaft so zu leiten, wie das Wohl des Betriebs und seiner Gesellschaft und der gemeine Nutzen von Volk und Reich es fordern. Der Vorstand kann aus einer oder mehreren Personen bestehen. Ist ein Vorstandsmitglied zum Vorsitzer des Vorstand ernannt, so entscheidet dieser, wenn die Satzung nichts anderes bestimmt, bei Meinungsverschiedenheiten im Vorstand.»

La riforma del 1937, nonostante la esplicita coloritura nazionalsocialista (applicazione del “Führerprinzip”) si limita a tradurre normativamente, sul piano del regime operativo e dal punto di vista del diritto privato, gli orientamenti scientifici pandettistici dell’‘heutiges römisches Recht’ ’800esco.

L’Aktiengesetz è approdato anche in Italia soltanto con il D.L. 6/2003. In proposito, vedi G. Guerrieri, Assemblea di s.p.a., in EdD - Annali, IV, Milano 2011, in part. 120; F. Galgano, Diritto commerciale, II., Le società, 18a ed., ristampa agg., Bologna 2013, 151-156 cfr. 161-164 e Lex mercatoria, 4a ed., Bologna, 2001, 159 ss. (il quale descrive il precedente regime come «democrazia azionaria» retta dal principio della “sovranità” della assemblea» venuta meno con la riforma); G. Cottino, Introduzione. Dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ diritto azionario: con qualche avviso ai naviganti, in Società per azioni. Costituzione e finanziamento, a cura di G. Cottino - M. Sarale, Asiago 2013, § 5 ‘Al cuore del governo (e della sovranità) societaria: gli amministratori’ § 5.1 (il quale scrive anche lui di ‘sovrano detronizzato’: «Ho già accennato […] a quanto profonde siano state le modifiche introdotte dal legislatore del 2003 nella disciplina della gestione della società per azioni: a come si sia appannato, se non proprio spento, il ruolo “sovrano” dell’assemblea, al suo graduale trasferirsi verso il consiglio di amministrazione, facendone, se non proprio il nuovo organo sovrano della società in luogo di quello detronizzato, quello entro cui, ad usare una metafora meno in contrasto con la visione formalmente conservata del riparto delle prerogative istituzionali tra assemblea, consiglio e collegio sindacale (e revisore o società di revisione) si concentra e si esercita il potere di adottare le decisioni strategiche e operative dell’impresa»).

Alla riforma italiana ha lavorato il collega romanista Andrea Di Porto, coautore di un corso di ‘Diritto commerciale romano’ (P. Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci, Diritto commerciale romano. Profilo storico, 2a ed., Torino 2004). Sui lavori di preparazione del D.L. 6/2003 vedi M. Stella Richter, “Antecedenti e vicende della società a responsabilità limitata” in S.r.l. Commentario dedicato a G. B. Portale, Milano 2011, § IV. ‘La società a responsabilità limitata nella riforma organica del diritto delle società di capitali e le conseguenze della introduzione della nuova disciplina’.

 

[23] Vedi, infra, § II.2.c, i richiami ai contributi di Windscheid e Laband.

 

[24] Famosa la invettiva rousseauiana contro l’inganno della «rappresentanza della volontà»: «La souveraineté ne peut être représentée, par la même raison qu’elle ne peut être aliénée; elle consiste essentiellement dans la volonté générale, & la volonté ne se représente point: elle est la même, ou elle est autre; il n’y a point de milieu. Les députés du peuple ne sont donc ni ne peuvent être ses représentants, ils ne sont que ses commissaires; ils ne peuvent rien conclure définitivement. Toute loi que le peuple en personne n’a pas ratifiée est nulle; ce n’est point une loi. Le peuple Anglois pense être libre; il se trompe fort, il ne l’est que durant l’élection des membres du Parlement; sitôt qu’ils sont élus, il est esclave, il n’est rien. Dans les courts momens de sa liberté, l’usage qu’il en fait mérite bien qu’il la perde. L’idée des représentants est moderne: elle nous vient du Gouvernement féodal, de cet inique & absurde Gouvernement dans lequel l’espèce humaine est dégradée, & où le nom d’homme est en déshonneur. Dans les anciennes républiques & même dans les monarchies, jamais le peuple n’eut des représentants; on ne connoissoit pas ce mot-là. Il est très-singulier qu’à Rome où les tribuns étoient si sacrés, on n’ait pas même imaginé qu’ils pussent usurper les fonctions du peuple, & qu’au milieu d’une si grande multitude, ils n’aient jamais tenté de passer de leur chef un seul plébiscite. Qu’on juge cependant de l’embarras que causoit quelquefois la foule, par ce qui arriva du tems des Gracques, où une partie des citoyens donnoit son suffrage de dessus les toits. […] à lʼinstant quʼun peuple se donne des représentans, il nʼest plus libre; il nʼest plus» (CS, 3.15 “Des Députés ou Représentans”; cfr. 2.1 “Que la Souveraineté est inaliénable” «le Souverain, qui nʼest quʼun être collectif, ne peut être représenté que par luimême, le pouvoir peut bien se transmettre, mais non pas la volonté»; 4.6 “De la Dictature” «la suspension de lʼautorité législative ne l’abolit point; le magistrat [il Dittatore] qui la fait taire ne peut la faire parler, il la domine sans pouvoir la représenter; il peut tout faire, excepté des loix»).

 

[25] «È dal 1895 che Orlando ci avverte che quello della rappresentanza è un concetto problematico ed in crisi» scrive Laura Buffoni (“Appunti per una semantica della rappresentanza politica. Note ‘libere’ dall’incontro sassarese su «La rappresentanza nel diritto pubblico»” in Diritto@Storia, 12, 2014 < http://www.dirittoestoria.it/12/innovazione/Buffoni-Semantica-rappresentanza-politica-Note-diritto-pubblico.htm >) la quale però aggiunge «ma la sua problematicità lo ha forse avvalorato. Lungi dal disincantare la politica, la rappresentanza “infiamma il teatro della politica”». L’autrice fa riferimento a V.E. Orlando, “Del fondamento giuridico della rappresentanza politica”, 1895, ora in Id., Diritto pubblico generale, Milano, 1954, 417 ss. e cita L. Ornaghi, “Atrofia di un’idea. Brevi note sull’ ‘inattualità’ odierna della rappresentanza politica” in Riv. dir. cost., 1998, 3 ss.

La critica novecentesca è alimentata dalla riflessione ‘costituzionale’ immediatamente successiva alla prima guerra mondiale.

Negli stessi anni di Weber (vedi, supra, nt. 18) Hans Kelsen scrive «Eine Fiktion ist die Auffassung des Parlaments als Repräsentant des Volkes, als “Volksvertretung”, nicht etwa in dem Sinne, als ob der Gedanke der Repräsentation an und für sich eine Fiktion wäre, wie man nicht selten mit ROUSSEAU annimmt. […] Die Fiktion der Volksrepräsentation durch das Parlament hat offenbar einen politischen Grund. Das Dogma der Volkssouveränität spricht dem Volk - neben anderen - auch die gesetzgebende Gewalt zu. Die Repräsentationsfiktion erhält den Schein dieses Dogmas auch dann, wenn Arbeitsteilung die Gesetzgebung einen speziellen Apparat übertragen hat. Und zu diesem Zweck wird die Repräsentationsfiktion auch in jenen Fällen verwendet, wo sie sich nicht auf das – immerhin vom Volk gewählte – Gesetzgebungsorgan, sondern auf einen anderen Machtfaktor bezieht, der seine Funktion im Sinne der Volkssouveränität zu rechtfertigen wünscht.», Vom Wesen und Wert der Demokratie, Tübingen 1920; 2., überarbeitete und erweiterte Auflage 1929; Neudruck der 2. Auflage: Scientia, Aalen 1981, passim, in part. cap. II, nt. 13). Ancora Kelsen denunzia il «tentativo di mascherare la riduzione non lieve che la idea democratica subisce per il fatto che la volontà statuale è formata non dal popolo ma da un organo, il parlamento, assai diverso, anche se eletto dal popolo» (Id., Il primato del parlamento, tr. it. [dalla ed. Wien – Leipzig del 1925, Das Problem des Parlamentarismus] a cura di C. Geraci, con “presentazione” di P. Petta, Milano 1982, 176; cfr. A. Oliet Pala, “El principio político formal de identidad en el ordenamiento español”, in Revista de derecho político, 23, verano 1986, 118, che rinvia a H. Kelsen, Esencia y valor de la democracia, Ed. Nacional México 1973, 48).

Poco dopo, nel 1931, Carré de Malberg scrive che «l’idée de souveraineté de la volonté générale a été exploité en vue de fonder la puissance souveraine du Parlement lui-même. Une telle contradiction paraîtra difficilement acceptable à tout homme qui n’est pas résigné à se payer de mots». Infatti, «Comment admettre que, dans notre droit public, les décisions émanées du Parlement aient pu être présentées comme des productions de la volonté populaire, alors que la Constitution tient systématiquement les citoyens à l’écart de leur formation?» (La Loi, expression de la volonté générale, ried. in fac-simile della ed. 1931, con “Préface” di G. Bourdeau, Paris 1984, 215). Carré de Malberg si riferisce alla costituzione francese, allora vigente, del 1875.

Nel secondo dopo-guerra e nella seconda metà del secolo XX, filosofi del diritto e giuristi positivi tornano alla constatazione esplicita e rotonda della inesistenza stessa dell’istituto della rappresentanza politica.

Tra gli anni ’50 e gli anni ’70, nel quadro di una riflessione critica sulle istituzioni dello Stato moderno, Hanna Arendt, ‘scopre’ la inconsistenza logica della dottrina della rappresentanza politica. Secondo Arendt, il fenomeno della «trasmissione» dello spirito politico dei cittadini ai capi dello Stato per il tramite delle istituzioni moderne rappresentative è «altamente misterioso» (Arendt, Le origini del totalitarismo,1951, tr. it. 1989; Id., La lingua materna, testi del 1954 e del 1964, tr. it. a cura di A. Dal Lago, Milano 1993; Id., Vita activa. La condizione umana, 1958, tr. it. Milano 1964; Id., Sulla rivoluzione, 1965, tr. it. Milano 1983; Id., La disobbedienza civile e altri saggi, 1970-1972, tr. it. Milano 1985). Sulla critica di Arendt al sistema rappresentativo vedi Adriana CAVARERO, “La libertà come bene comune” in Democrazia e diritto, 5-6, 1991, quindi in Eugenia Parise, a cura di, La politica tra natalità e mortalità. Hannah Arendt, Napoli 1993, 40 «il concetto di rappresentanza implica l’assenza dei rappresentati, ossia tutto il contrario di quell’agire che è tale solo in atto e solo alla presenza di altri. La rappresentanza (…) sarà dunque apparato di dominio di alcuni uomini su altri, organizzazione della forza dei governanti, disciplinamento centralizzato della decisione.

Nel 1965 il politologo canadese trapiantato negli Stati Uniti, David Easton, definisce il sistema politico odierno, in quanto produttore di decisioni, “scatola nera” e “vaso di Pandora” (A systems analysis of political life, 1965, tr. it. a cura di G. Pasquino, L’analisi sistematica della politica, Casale Monferrato 1984, cfr. D. Fuchs - H.-D. Klingemann, “La teoria politica dell’analisi dei sistemi: David Easton” in Rivista italiana di scienza politica, n. 3, dicembre 2003, 427 ss.

Nel 1972, il costituzionalista Vanossi definisce la rappresentanza politica un «mistero» (J.R. Vanossi, El misterio de la representación política, Buenos Aires 1972).

Nel 1975, Costantino Mortati afferma durissimamente, a proposito della Costituzione italiana, che nessuna delle condizioni necessarie a consentire l’esercizio popolare della sovranità (pure solennemente affermato all’art.1 della stessa Costituzione) si realizza in Italia, con la conseguenza grave che «il regime di poliarchia effettivamente vigente viene a realizzare una forma di sovranità del Parlamento» (C. Mortati, “Art. 1” in G. Branca, a cura di, Commentario della Costituzione I Principi fondamentali: Art. 1-12, Bologna 1975, 23 e 36).

Nel 1982, Torres del Moral afferma che «La teoría de la prohibición del mandato imperativo asentada en el principio de soberanía nacional […] es histórica y actualmente insostenible, desde el punto de vista rigurosamente teórico. De manera que no puede sorprender nos en absoluto que en la práctica política [el mandato imperativo] se haya mantenido vigente» (A. Torres del Moral, “Crisis del mandato representativo en el Estado de partidos”, in Revista de Derecho político, 14, verano 1982).

Nel 1983, il giurista e parlamentare italiano, Fisichella accede alle affermazioni del politologo nord-americano Heinz Eulau, secondo il quale (1978) «Se [...] con qualche sforzo siamo in grado di indicare con sufficiente approssimazione ciò che la rappresentanza non è, malgrado molti secoli di impegno teoretico non possiamo dire cosa la rappresentanza è». Fisichella non segue, però, Eulau nella affermazione che la crisi riguarda «la teoria della rappresentanza e non delle istituzioni rappresentative» in quanto egli considera la crisi teorica proiezione della crisi istituzionale, sebbene la maggiore ‘velocità’ della crisi della teoria rispetto alla crisi dell’istituto può far sì che «la prima emerga quando la seconda è ancora poco visibile» (H. Eulau, “Changing Views of Representation” in H. Eulau - J.C. Wahlke (Eds.), The Politics of Representation. Continuities in Theory and Research, Beverly Hills, 1978, 32; citato da D. Fisichella, La rappresentanza politica, Milano 1983, 5; cfr. Id., Elezioni e democrazia: un’analisi comparata, Bologna 1982. Vedi anche G. Pasquino, a cura di, Rappresentanza e democrazia, Roma Bari 1988).

Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la inesistenza concettuale della rappresentanza politica diviene oggetto, in Italia, anche delle trattazioni istituzionali per eccellenza: quelle dei dizionari. Nel 1987, Nocilla e Ciaurro scrivono sulla Enciclopedia del Diritto di «difficoltà di pervenire ad una definizione dogmatica della “rappresentanza politica”» (D. Nocilla - L. Ciaurro, “Rappresentanza politica”, in EdD, XXXVIII, Milano 1987, s.v.). Nel 1991, sulla Enciclopedia giuridica Treccani, Ferrari si “sorprende” (anche lui, come già Torres del Moral) «che la difficoltà di definizione teoretica [della “nozione di rappresentanza politica” “centrale nella concezione stessa dello Stato di democrazia classica”] non abbia indotto significative correnti del pensiero pubblicistico a lamentare una crisi delle stesse istituzioni rappresentative» (G. Ferrari, “Rappresentanza istituzionale” in Enciclopedia Giuridica Treccani, XXV, Roma 1991).

Nel 2000, il costituzionalista statunitense Bruce Ackerman non si limita a ripetere le osservazioni critiche sulla rappresentanza politica ma, facendo (dopo e sulle tracce di Hanna Arendt) un passo ulteriore nel senso del ritorno (seppure sempre – apparentemente – inconsapevole) al costituzionalismo rousseauiano di modello romano, propone di attribuire il potere legislativo al popolo dei cittadini, lasciando al Parlamento soltanto il potere normativo proprio dell’esecutivo. Ackerman ritiene che anche nel modello parlamentare, il consenso elettorale al programma del partito, che vince – così – le elezioni, postuli una sorta di mandato popolare vincolante alla realizzazione del programma stesso, in vista del quale vengono forniti al Governo gli strumenti di potere necessari. Tuttavia i meccanismi costituzionali non garantiscono la correttezza di tale sequenza, con un vero e proprio «errore nel diritto costituzionale» cui si deve ovviare con ciò che egli chiama il «parlamentarismo vincolato». Scrive Ackerman: «piuttosto che dividere l’autorità legislativa tra Camera, Senato e Presidente [con riferimento alla separazione dei poteri di tipo americano], dovremmo cercare di dividerla tra il Parlamento ed il popolo, il primo assumendo le decisioni governative di routine e quest’ultimo esprimendo la sua volontà attraverso un processo attentamente costruito di referendum consecutivi» (B. Ackerman, La nuova separazione dei poteri. Presidenzialismo e sistemi democratici, Roma 2003, in part. 41 ss.; tr. it. del saggio apparso sulla Harvard Law Rewiew nel 2000 e della quale vedi la recensione di T.E. Frosini in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2, 2003. Ackerman è noto per un ampio trattato in tre volumi sul potere popolare nella Costituzione degli Stati Uniti: We the People. Foundations, Cambridge, Mass. 1991, We the People: Transformations, Cambridge, Mass. 1998 e We the People. The Civil Rights Revolution (originariamente annunciato come We the People: Interpretations), Cambridge Mass. 2014. Il saggio del 2000 è considerato da Frosini una anteprima di questo terzo volume. Sui primi due vedi Tania Groppi, “We the People: Transformations. Considerazioni sul libro di Bruce Ackerman” in Politica del diritto, 2, 1999). Tra le riflessioni del nuovo millennio sulla rappresentanza politica come problema, occorre menzionare M. Luciani, “Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato” in F. Biondi e N. Zanon, a cura di, Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, Milano 2001, 109 ss. e A. Mangia, “La rappresentanza politica e la sua crisi. Un secolo dopo la prolusione pisana di Santi Romano” in Diritto e Società, 3, 2012, 461 ss.

 

[26] «Je soutiens que toute constitution social dont la représentation n’est pas l’essence est une fausse constitution» afferma Sieyès, mentre viene scritta la prima Costituzione francese (“Note explicative, en réponse” di Sieyès alla Lettre de M. Thomas Paine à M. Emmanuel Syèyes [sic!], Paris le 8 juillet 1791 in Supplément à la Gazette nationale au Samedi 16 juillet 1791, ora in E. Sieyès, Oeuvres, Genéve, Paris, 1989, 3 voll. senza propria numerazione di pagine, II).

La posizione di Sieyès è perfettamente espressa – ad esempio – dal ‘combinato disposto’ degli artt. 1 co. 2 e 67 della Costituzione italiana («Art. 1. […] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»; «Art. 67. Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»).

 

[27] In Italia è esemplare il successo elettorale del movimento politico denominato “5stelle”, sorto ‘dal nulla’ nel 2009 per iniziativa di un “imprenditore del web” e di un “comico” e divenuto, oggi, la prima forza politica italiana. La idea-guida di questo ‘Movimento’ è la critica della “rappresentanza” e il progetto di attivazione della “democrazia” definita “diretta”, “partecipativa” o anche “deliberativa”. A tale fine il Movimento fa espresso riferimento alle dottrine rousseauiane e si è dotato di uno strumento giuridico chiamato “Fondazione Rousseau” cui corrisponde uno strumento informatico chiamato “Piattaforma Rousseau per la democrazia diretta”.

Peraltro, il Movimento intercetta acutamente la domanda di democrazia ma si propone troppo semplicisticamente di soddisfarla attraverso la informatica. Per un esame non soddisfacente ma utile del “pensiero istituzionale” del Movimento, vedi A. Floridia e R. Vignati, “Deliberativa, diretta o partecipativa? Le sfide del Movimento 5 stelle alla democrazia rappresentativa” in Quaderni di sociologia, 65, 2014.

 

[28] La nozione di Alternativlosigkeit” viene fatta risalire ad Hannah Arendt. O. Marchart, “Hannah Arendt. Die Welt und die Revolution” in APuZ - Aus Politik und Zeitgeschichte, 2006 § “Die Alternative (Welt)” scrive «Seit Margaret Thatchers Parole “There is no alternative” zum internationalen Slogan der Neoliberalisierung wurde, herrscht eine Ideologie politischer Alternativlosigkeit, die historisch ihresgleichen sucht. Es scheint, alle Parteien hätten sich auf eine einzige hegemoniale Ideologie geeinigt, die lautet: Die Zeit der politischen Neuanfänge ist vorbei. Die Zeit der permanenten “Reformen” ist gekommen, während der Begriff der “Revolution”, der für Arendt von zentraler Bedeutung war als Kennzeichen eines Neubeginns in der Geschichte, völlig delegitimiert ist, bevor überhaupt verhandelt wurde, was er denn sinnvoll noch heißen könne. Jede politische Veränderung, die über minimale Adjustierungen des Status quo hinausgeht, wurde scheinbar denkunmöglich gemacht. Jeder Neuanfang, der nicht die identische Reproduktion des Bestehenden beinhaltet, ist in den Status der Utopie relegiert». Di Arendt, Marchart cita The Origins of Totalitarianism, New York 1951, 1a ed. tedesca Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, Frankfurt/M 1955, 3 Bände: I. Antisemitismus, II. Imperialismus, III. Totale Herrschaft. Arendt ha anche scritto un saggio “sulla rivoluzione” e il diritto (On Revolution, New York 1963, vedi, infra, 96).

Più recentemente, riprendono la nozione arendtiana di Alternativlosigkeit”: H. Münkler - Th. Wagner - A. Widman, “La démocratie parlementaire a-t-elle un avenir?” in Courier international ove sono ripresi testi apparsi in Der Spiegel, Hambourg, e in Der Freitag, Berlin, n. 1143 27/09-03/10/2012, 51 ss. (in part. 53).

 

[29] «La démocratie par définition ne saurait être représentative. Aucun système politique démocratique ne saurait légitimer la représentation autrement que par le défaut d’un autre moyen technique de réaliser la démocratie. [...] Pour les démocrates, le régime représentatif est un mal rendu nécessaire par le très grand nombre de citoyens et la surface du territoire [...] ; pour les autres, à l’abri derrière cette impossibilité matérielle, la représentation est un bien rendu nécessaire par l’incompétence du peuple» (Anne-Hélène Le Cornec Ubertini, “La démocratie au risque de la représentation” in Archive ouverte HAL [= http://archivesic.ccsd.cnrs.fr/sic 00142384] 2007).

Alla considerazione di Le Cornec U. può essere allineata quella tra il cinico e lo sconsolato di Gianfranco Miglio: «non è esagerato considerare l’idea astratta e personalizzata dello ‘Stato’ come il capolavoro del pensiero politico occidentale e, ad un tempo, la più sofisticata delle finzioni dietro cui da sempre, gli uomini che compongono la classe politica sono costretti a celarsi […] La verità è che la politica è fatta – e non può non essere fatta – che di idee astratte, cioè di fantasmi e di maschere» ("Genesi e trasformazioni del termine-concetto ‘Stato’ " in Aa.Vv., Stato e senso dello Stato oggi in Italia, Milano 1981, 81 s.).

 

[30] Di “blocage théorique” scrivono Jacques Lenoble e Marc Maesschalck (L’Action des normes, Eléments pour une théorie de la gouvernance, Sherbrooke 2009, version française, enrichie d’une nouvelle introduction et d’une préface, de l’ouvrage Towards a Theory of governance, The Action of Norms, The Hague-London-New York 2003) «La philosophie politique récente n’est pas restée prisonnière de cette approche ‘représentative’ de la démocratie. [...] L’idée émerge, tant dans les transformations qui affectent la réalité de nos sociétés que dans la pensée politique de la démocratie, d’un nécessaire renforcement des formes de participation des citoyens à l’exercice du pouvoir. Mais le terme reste souvent vague. De plus, même là où l’analyse se fait plus fine, l’exigence que ce terme dénote reste plus de l’ordre de la boîte noire que d’une opération théoriquement construite. Ce défaut de construction théorique explique ce que nous identifions comme un blocage»; cfr. Id., Democracy, Law and Governance, Padstow 2010.

 

[31] Pensando a B. Biondi, “La terminologia romana come prima dogmatica giuridica” in Studi Arangio Ruiz, 2, Napoli 1953, 73 ss.

 

[32] Vedi, infra, nt. 95, la proiezione di Rousseau verso i sistemi federali a base municipale.

 

[33] L.M. Bassani, “Gli avversari della Costituzione americana: “antifederalisti” o federalisti autentici?”, introduzione a Id. e A. Giordano, a cura di, Gli Antifederalisti. I nemici della centralizzazione in America (1787-1788), Torino 2011, 45 (citando Christopher Duncan): «“il progetto federalista di ricostruire l’America in forma di repubblica nazionale o commerciale” risultò nella “riduzione della sovranità statale” [dei singoli Stati federati] a cui corrispose una generale deresponsabilizzazione individuale dalla vita politica. Private dell’elemento autenticamente partecipativo, la politica locale [il corsivo è nostro]», con la trasformazione degli Stati federati in «unità amministrative del governo centrale le persone, gradualmente, ma inesorabilmente, furono spinte nella privacy delle loro case perché erano state svuotate di un ruolo pubblico in una vita collettiva condivisa. La creazione dell’individuo deraciné, privo di legami comunitari, soggetto solo alla legge, ossia la costruzione del materiale umano più adatto allo Stato moderno, va anche in America di pari passo con il tentativo di creare un unico centro di potere» (Ch.M. Duncan, The Antifederalists and Early American Political Thought, DeKalb 1995, 177 s.).

 

[34] C. Gadsden Carrasco, Decentralization from the local: action research on municipal governance in the Mexican transition to democracy, University of Essex 2011. Il saggio di Gadsden tratta la questione definita, con vocabolario spagnolo, “agenda desde lo local” (programma e metodologia sviluppati dalla Secretaría de Gobernación della Repubblica federale del Messico attraverso l’Instituto Nacional para el Federalismo y el Desarrollo Municipal - INAFED).

 

[35] F. Ruffini, “La classificazione delle persone giuridiche in Sinibaldo dei Fieschi (Innocenzo IV) ed in Federico Carlo di Savigny” in Scritti in onore di Francesco Schupfer, Torino 1898, II, 313 ss. e quindi in Id., Scritti giuridici minori, II, Milano 1936, 5 ss. Circa, in particolare la derivazione diretta o meno della dottrina di Savigny della “finzione” da quella di Innocenzo IV: Ha. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, ed. it. cit., § “La dottrina della persona repraesentata” 153 ss. (con la indicazione della bibliografia precedente). Cfr., infra, nt. 42.

Per una riflessione filosofica sul «percorso teoretico che, partendo dal fatto della pluralità sociale, giunga a delineare strumenti concettuali e istituzionali funzionalmente unificanti» e quindi sulla predisposizione dell’«apparato istituzionale idoneo», vedi A. LO GIUDICE, Il soggetto plurale. Regolazione sociale e mediazione simbolica, Milano 2006, in part. 173 ss. (cfr., ibidem, 25 ss. sul «concetto di persona ficta»).

 

[36] Ciò che occorre, ad es., con le corrispondenti “voci” delle enciclopedie giuridiche ma non soltanto.

Imposta invece la propria riflessione sul “binomio” G. Lobrano, “La alternativa attuale tra i binomi istituzionali: “persona giuridica e rappresentanza” e “società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi (mendeleeviana)” in Diritto@Storia, n. 10, 2011-2012 < http://www.dirittoestoria.it/10/D&Innovazione/Lobrano-Persona-giuridica-rappresentanza-societa-formazione-volonta.htm >.

 

[37] Canonistica: vedi, infra, ntt. 41 s.

 

[38] Parlamentare: vedi, infra, nt. 47.

 

[39] Nel discorso hobbesiano, la definizione del Leviathan come Dio è al centro della sua costruzione “rappresentativa” del ‘binomio’ concezione e regime unitario della pluralità di uomini (Th. Hobbes, Leviathan, II. XVII, citato infra, ntt. 49 s).

 

[40] La esposizione hegeliana, di ‘ciò che lo Stato è’, è una sorta di inno biblico: «Der Staat an und für sich ist das sittliche Ganze, die Verwirklichung der Freiheit, und es ist absoluter Zweck der Vernunft, daß die Freiheit wirklich sei. Der Staat ist der Geist, der in der Welt steht und sich in derselben mit Bewußtsein realisiert, während er sich in der Natur nur als das Andere seiner, als schlafender Geist verwirklicht. Nur als im Bewußtsein vorhanden, sich selbst als existierender Gegenstand wissend, ist er der Staat. Bei der Freiheit muß man nicht von der Einzelheit, vom einzelnen Selbstbewußtsein ausgehen, sondern nur vom Wesen des Selbstbewußtseins, denn der Mensch mag es wissen oder nicht, dies Wesen realisiert sich als selbständige Gewalt, in der die einzelnen Individuen nur Momente sind: es ist der Gang Gottes in der Welt, daß der Staat ist, sein Grund ist die Gewalt der sich als Wille verwirklichenden Vernunft. Bei der Idee des Staats muß man nicht besondere Staaten vor Augen haben, nicht besondere Institutionen, man muß vielmehr die Idee, diesen wirklichen Gott, für sich betrachten. Jeder Staat, man mag ihn auch nach den Grundsätzen, die man hat, für schlecht erklären, man mag diese oder jene Mangelhaftigkeit daran erkennen, hat immer, wenn er namentlich zu den ausgebildeten unserer Zeit gehört, die wesentlichen Momente seiner Existenz in sich. Weil es aber leichter ist, Mängel aufzufinden, als das Affirmative zu begreifen, verfällt man leicht in den Fehler, über einzelne Seiten den inwendigen Organismus des Staates selbst zu vergessen. Der Staat ist kein Kunstwerk, er steht in der Welt, somit in der Sphäre der Willkür, des Zufalls und des Irrtums; übles Benehmen kann ihn nach vielen Seiten defigurieren. Aber der häßlichste Mensch, der Verbrecher, ein Kranker und Krüppel ist immer noch ein lebender Mensch; das Affirmative, das Leben, besteht trotz des Mangels, und um dieses Affirmative ist es hier zu tun.» (G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Berlin 1820, Dritter Teil. “Die Sittlichkeit”, Dritter Abschnitt. “Der Staat”, § 258).

Cfr. G. Lobrano, “Qualche idea, dal punto di vista del diritto romano, su origine e prospettive del principio di laicità” in Diritto@Storia, 10, 2011-2012 < http://www.dirittoestoria.it/10/memorie/Lobrano-Diritto-romano-principio-laicita.htm >.

 

[41] Sulla rilevanza della “volontà divina” nell’ordinamento canonico (ovviamente richiamata dalla Costituzione dogmatica sulla ChiesaLumen Gentium”, 1964, § 41) rinviamo – a titolo di esempio – a E. Corecco, L. Gerosa, Il diritto della Chiesa, Milano 1995, 21; G. Barberini, M. Canonico, Elementi essenziali dell’ordinamento canonico, Torino 2013, 110; G. Ghirlanda SJ, Il diritto nella Chiesa mistero di comunione: Compendio di diritto ecclesiale, 6a ed., Roma 2015, 53; 349.

 

[42] Sinibaldus Fliscus (Innocentius IV), Super libros quinque Decretalium commentaria, Francofurti ad Monenum, 1570, in c. 57 X.2,2.

Nel passo intero («hodie licitum est omnibus collegiis per alium iurare, et hoc ideo, quia cum collegium in causa universitatis fingatur una persona, dignum est, quod per unum iurent, licet per se iurare possint, si velint») appare una resipiscenza che il tempo (e i giuristi) penseranno a cancellare. Si tratta della idea della non-necessità da parte dei membri del collegio di iurare per unum, potendo essi iurare per se, si velint.

Sul ruolo di Sinibaldo dei Fieschi, nella emersione della categoria “persona ficta vel/et repraesentata”, vedi in particolare R. Feenstra, “L’histoire des fondations” in Tijdschrift voor Rechtsgeschiednis, 24, 1956, 381 ss. seguita dai più (vedi, ad es. A. Campitelli, “«Cum collegium in causa universitatis fingatur una persona». Riflessioni sul commento di Sinibaldo dei Fieschi (c. praesertim, de testibus et attestationibus, 57, X 2, 20)” in Apollinaris, 63, 1990, 125 ss.

A Feenstra fa riferimento anche F. Todescan, “Dalla persona ficta alla persona moralis” in QF, 11/12, 1982/83, 59 ss., il quale, 62 s., osserva il salto operato nella materia dal “canonista” rispetto al Diritto romano: «[Sinibaldo dei Fieschi] piuttosto che riprendere gli spunti offerti dal Corpus giustinianeo, aveva rinvenuto la matrice della nuova dottrina nel rigoglioso humus ecclesiologico. Era la visione “organicistica” paolina della Chiesa concepita come corpus mysticum, realtà viva non risolventesi nella puntuale singolarità dei proprî componenti, che aveva animato il suo pensiero spingendolo a plasmare una costruzione dogmatica dell’universitas quale “persona”». Della specificità ecclesiale, che si manifesta nella opera di Innocenzo IV, quella di regime volitivo appare, però, a noi almeno altrettanto importante che quella di concezione della comunità.

Sul rapporto tra Diritto romano e Diritto canonico, vedi inoltre: A. Ambrosini, Disposizioni di ultima volontà fiduciarie nel diritto germanico, canonico e comune, Roma 1917, 109-113, circa la “importanza essenziale” del diritto romano come “fonte del diritto canonico”; P. Choi In-Gag, Vicario episcopale e vicario foraneo, Roma 2003, 22, circa la «adozione [ecclesiale] della terminologia legale e amministrativa dall’Impero romano»; T.L. Rizzo, Il pensiero giuridico dal mondo classico al nuovo mondo, Roma 2008, 39 s., circa le «influenze del diritto romano» sul diritto canonico; M. Schmoeckel, “Die Entwicklung der juristischen ‘Stellvertretung’ im Kontext theologischer und juristischer Begrifflichten” in O. Condorelli, F. Roumy, M. Schmoeckel, herausgegeben von, Der Einfluss der Kanonistik auf die europäische Rechtskultur, Bd. 1: Zivil- und Zivilprozessrecht, Köln - Weimar - Wien 2009, 107 ss. in part. 120 ss. § 5 “repraesentatio”; O. Descamps, “L’influence du droit canonique mèdiéval sur la formation d’un droit de la responsabilité” ibidem 137 ss. in part. 149 a proposito di Sinibaldo dei Fieschi.

 

[43] N. Aroney, “Subsidiarity, Federalism and the Best Constitution: Thomas Aquinas on City, Province and Empire” in Law and Philosophy, 26, 2007, 161-228; cfr. L. Gaeta, “Sussidiarietà e sicurezza sociale” in Aa.Vv., Studi in onore di Remo Martini, 2, Milano 2009, 122 (ove si osserva l’uso tomistico della nozione di “subsidium” «per perseguire il bene comune).

Sul nesso tra la dottrina tomistica e quella aristotelica:, vedi J. Berchmans V.d.G., “El tejido social y su contextura” in Anales de la Fundación Francisco Elías de Tejada, 6, 2000, 103-165, in part. 159: «por el Estagirita y el Aquinatense [...] el Estado no es una comunidad de individuos, sino una sociedad de sociedades».

 

[44] J.M. BLANCH NOUGUÉS, Régimen jurídico de las fundaciones en derecho romano, Madrid 2007, 53 s. nt. 118 «Jacques de Revigny [...] en su comentario al Digestum vetus y en lo que se refiere a la ley sicut municipium “habla netamente de una persona repraesentata y cita a su maestro Jean de Monchy”» (Blanch Nougués rinvia a R. FEENSTRA, “Le concept de fondation du droit romain classique jusqu’à nos jours: théorie et pratique” in R.I.D.A., 3, 1956, 245 ss., in part. 260); cfr. similarmente M. CARAVALE, Diritto senza legge. Lezioni di diritto comune, Torino 2013, 83.

 

[45] Vedi, supra, nt. 19.

 

[46] Vedi ancora, supra, nt. 19.

 

[47] Fa eccezione, ad es., il Bundesrat tedesco, per il quale – però – si discute se possa correttamente inscriversi nella categoria parlamentare. Il Tribunale costituzionale tedesco (Bundesverfassungsgericht) è intervenuto nel 1984 con una sentenza per la quale «Secondo il dettato costituzionale il Bundesrat non è la seconda Camera di un organo legislativo unitario, che prende parte in modo paritetico con la “prima Camera” al procedimento legislativo» (BVerfGE 37, 363).

 

[48] E anti-imperiale. Vedi, ad es., S. Panizza, “Lo Stato e gli altri ordinamenti giuridici” in R. Romboli, a cura di, Manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo, I. Lo Stato e gli altri ordinamenti giuridici, i principi fondamentali e le istituzioni politiche, 2a ed., Torino 2015, 1 ss., in part. 6 «quei trattati […] sancirono la sconfitta delle aspirazioni imperiali e la nascita di un nuovo ordine internazionale. Gli Stati formatisi in virtù di quegli accordi tendono ad affermarsi come una forma organizzativa del potere originaria […] e sovrana, in grado di legittimarsi in virtù della semplice esistenza e della capacità effettiva di porre le regole di governo di un corpo sociale in un dato territorio. In sintesi sovranità popolo e territorio …»; cfr. Henry KISSINGER, World Order: Reflections on the Character of Nations and the Course of History, New York 2014, § 1.3 “The Operation oft the Westphalian System” (tr. sp. di Teresa Arijón, Orden mundial: Reflexiones sobre el carácter de las naciones y el curso de la historia, Barcelona 2016, «la paz de Westfalia impuso un mundo hobbesiano»).

 

[49] Leviathan, I.16 «Une multitude d’hommes devient une seule personne quand ces hommes sont représentés par un seul homme, ou une seule personne, de telle sorte que ce soit fait avec le consentement de chaque homme de cette multitude en particulier [“with the consent of every one of that multitude in particular”] Car c’est l’unité du représentant, non l’unité du représenté qui fait une la personne, et c’est le représentant qui tient le rôle [“bear”] de la personne, et il ne tient le rôle que d’une seule personne. L’unité dans une multitude ne peut pas être comprise autrement». La traduzione francese, da cui citiamo, è quella di Philippe Folliot, per la ed. elettr. del Leviathan, fatta dalla UQAC - Université du Québec à Chicoutimi.

 

[50] Leviathan, II.17 «La seule façon d’ériger un tel pouvoir commun, qui puisse être capable de défendre les hommes de l’invasion des étrangers, et des torts qu’ils peuvent se faire les uns aux autres, et par là assurer leur sécurité de telle sorte que, par leur propre industrie et par les fruits de la terre, ils puissent se nourrir et vivre satisfaits, est de rassembler tout leur pouvoir et toute leur force sur un seul homme, ou sur une seule assemblée d’hommes, qui puisse réduire toutes leurs volontés, à la majorité des voix, à une seule volonté; autant dire, désigner un homme, ou une assemblée d’hommes, pour tenir le rôle de leur personne [“to bear their person”]; et que chacun reconnaisse comme sien (qu’il reconnaisse être l’auteur de tout ce que celui qui ainsi tient le rôle de sa personne fera, ou fera faire, dans ces choses qui concernent la paix et la sécurité communes; que tous, en cela, soumettent leurs volontés d’individu à sa volonté, et leurs jugements à son jugement. C’est plus que consentir ou s’accorder: c’est une unité réelle de tous en une seule et même personne, réalisée par une convention de chacun avec chacun, de telle manière que c’est comme si chacun devait dire à chacun : J’autorise cet homme, ou cette assemblée d’hommes, j’abandonne mon droit de me gouverner à cet homme, ou à cette assemblée, à cette condition que tu lui abandonnes ton droit, et autorise toutes ses actions de la même manière. Cela fait, la multitude ainsi unie en une seule personne est appelée une RÉPUBLIQUE, en latin CIVITAS. C’est là la génération de ce grand LÉVIATHAN, ou plutôt, pour parler avec plus de déférence, de ce dieu mortel à qui nous devons, sous le Dieu immortel, notre paix et notre protection. Car, par cette autorité, qui lui est donnée par chaque particulier de la République, il a l’usage d’un si grand pouvoir et d’une si grande force rassemblés en lui que, par la terreur qu’ils inspirent, il est à même de façonner les volontés de tous, pour la paix à l’intérieur, et l’aide mutuelle contre les ennemis à l’extérieur. Et en lui réside l’essence de la République qui, pour la définir, est : une personne unique, en tant que ses actes sont les actes dont les individus d’une grande multitude, par des conventions mutuelles passées l’un avec l’autre, se sont faits chacun l’auteur, afin qu’elle puisse user de la force et des moyens de tous comme elle le jugera utile pour leur paix et leur commune protection. Et celui qui a cette personne en dépôt [“And he that carryeth this person”] est appelé SOUVERAIN, et est dit avoir le pouvoir souverain

 

[51] Così afferma uno specialista della rappresentanza e, quindi, di Hobbes (ovvero vice-versa): «au théâtre, l’auteur n’existe que par le truchement de l’acteur; il en va de même dans le domaine politique, à ceci près qu’ici l’auteur véritable (le peuple) n’a pas d’existence hors du jeu de l’acteur souverain: “C’est l’unité de celui qui représente, non l’unité du représenté qui rend une la personne […]. Parce que la multitude, par nature, n’est pas une, mais multiple, on ne doit pas y voir un seul auteur, mais bien de multiples auteurs de tout ce que leur représentant dit ou fait en leur nom” (Léviathan, chap. XVI, 166)». L. Jaume, “Peuple” in Ph. Raynaud, S. Rials, dir. s, Dictionnaire constitutionnel, Paris 1996, Quadrige, 2003, 543. Dello stesso autore si può anche vedere “Hobbes ou l’Etat représentatif” in L.-L. Grateloup, dir., Les philosophes de Platon à Sartre, Paris 1985, 157-168 quindi Livre de Poche, 1996, 2 vol.; Id., Hobbes et l’Etat représentatif moderne, Paris 1986, 236 pp.; Id., “Représentation et factions: de la théorie de Hobbes à l’expérience de la Révolution française” in Revue d’histoire des facultés de droit et de la science juridique, 8, 1989, 269-293; quindi rivisto e ripubblicato in J.-P. Cotten, R. Damien et A. Tosel, dir.s, La représentation et ses crises, Besançon 2001, 207-240; Id., “Le vocabulaire de la représentation politique de Hobbes à Kant” in Y.-C. Zarka, dir., Hobbes et son vocabulaire, Paris 1992, 231-257; Id., “Autour de Hobbes: représentation et fiction” in Droits, 21, 1995, 95-103; Id., “Représentation” in P. Raynaud et S. Rials, dir.s, Dictionnaire de philosophie politique, Paris 1996, 559-564; Id., “Hobbes and the Philosophical Sources of Liberalism” in Patricia Springborg, ed., The Cambridge Companion to Hobbes’s Leviathan, Cambridge 2007, 199-216; Id., “La Représentation: une fiction malmenée” in Pouvoirs, 120, 2007, 5-16). Cfr., nello stesso senso, G. Duso, “Ripensare la rappresentanza alla luce della teologia politica” in QF - Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero politico, 41, 2012, 9 ss. in part. 15-17 (Duso prende le mosse del proprio contributo dalla trattazione di Ha. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, cit.

 

[52] J-M. Ferry, Histoire de la pensée politique. Syllabus de complément (testo del corso omonimo presso l’UFR de Droit della Université de Nantes, senza data ma non prima del 2003, consultabile ‘on line’, 28). Cfr., per la bibliografia, Anna Di Bello, Sovranità e rappresentanza la dottrina dello Stato in Thomas Hobbes, Napoli 2010, in part. Cap. III. “Il grande Leviatano, lo Stato come unione e rappresentanza: caratteristiche, prerogative e funzioni della sovranità hobbesiana”, § 4 “Il Leviatano: l’autorizzazione, la persona artificiale, la rappresentanza.

Cfr. Ha. Hofmann, op. cit., ed. it., 5.

 

[53] F.C. v. Savigny, Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, Heidelberg 1814.

[54] R. v. Jhering, “Unsere Aufgabe” in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts, Bd. 1, 1857, 1-52.

 

[55] Vedi, infra, § II.2.b.

 

[56] F.C. v. Savigny: System des heutigen römischen Rechts, (8 Bde., Berlin 1840-49; cfr. R. Zimmermann, “Heutiges Recht, Römisches Recht und heutiges Römisches Recht: Die Geschichte einer Emanzipation durch” in R. Zimmermann, R. Knütel, & J.P. Meinecke, Hrsg., Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik, Heidelberg 2000, 1-39.

Peraltro, è al collega-discepolo di Savigny, Georg Arnold Heise, che pare si debba (nei Grundrisse eines Systems des allgemeinen Civilrechts zum Beruf von Pandekten-Vorlesungen del 1807) il neologismo “juristische Person” (Buch I, Kap. IV unter III un N. 15 [vedi. Flume, 1983; Gliozzi, 1996; Ulrike Köbler 2010 etc.])

Vedi, però, Ho-Young Song, Die Verselbständigung der juristischen Person im deutschen und koreanischen Recht [Schriften zum Internationalen Privatrecht und zur Rechtsvergleichung, Band 5, Herausgegeben im Institut für Internationales Privatrecht und Rechtsvergleichung der Universität Osnabrück, von Christian v. Bar], Osnabrück, Universitätsverlag Rasch, 1999, 25: «Den Terminus “Juristische Person” kann man zuerst bei dem im Jahre 1789 erschienenen Naturrechtslehrbuch von Gustav Hugo [nt. 13: Gustav HUGO, Lehrbuch des Naturrechts als einer Philosophie des positiven Rechts, Berlin 1798, S. 445] finden [nt. 14: Das ist eine einhellige Meinung. Vgl. GIERKE, Deutsches Privatrecht I, S. 469, Fn. 2; SCHNIZER, Festschrift für Walter WILBURG 1965, S. 143, 165; FLUME, Juristische Person, S. 1; COING, Europäisches Privatrecht, Bd. II, S. 338]. Aber er verwendete ihn noch für die Körperschaft [nt. 15: COING, Europäisches Privatrecht, Bd. II, S. 338]. Der Begriff »Juristische Person« im Sinne von einem Gegenstand, mit dem sich die deutsche Rechtswissenschaft im 19. Jahrhundert tiefgehend befaßte, wurde zuerst im Jahre 1807 in dem “Grundriß eines Systems des gemeinen Zivilrechts” von Georg Arnold Heise verwendet. Unter den Begriff “Juristische Person” faßte er neben der Körperschaft auch Anstalten und selbständige Stiftungen zusammen. Seine Lehre hat sich schnell durchgesetzt und liegt auch der einflußreichen Darstellung von Savigny im zweiten Band seines Systems zugrunde [nt. 16: COING, Europäisches Privatrecht, Bd. II, S. 338]».

R. Szubert, “Ein Beitrag zur Metapher in der Rechtssprache. Am Beispiel „Juristische Person”” in ZVPG - Zeitschrift des Verbandes Polnischer Germanisten, 4 (2015), 2. 146 «Dass das Problem der juristischen Person nicht einen einzelnen Terminus betrifft, sondern sich auf das ganze juristische terminologische System bezieht, in dem dieser Ausdruck Anwendung findet, zeigt Savigny, der als erster Wissenschaftler das Problem der juristischen Person richtig aufstellte.»

Si può qui osservare che la critica, diretta a Savigny e alla sua teoria della persona giuridica come “finzione” da parte dei sostenitori della teoria della persona giuridica come realtà (“teoria organica”), resta legata sia al postulato della astrazione per la conquista della unità (cfr., infra, nt. 71) sia alla conclusione del ruolo determinante del “rappresentante”. Così, esemplarmente, O. Gierke, Das Wesen der menschlichen Verbände [Rede bei Antritt des Rektorats, am 15. October 1902] Berlin 1902, in part. 9, dove invoca «die Kraft der Abstraktion, um in der Rechtsstellung der Menschen das von einander zu sondern, was sein Zentrum in seinem Einzeldasein hat und was auf ein Zentrum im Gemeinleben hinweist.» e 19, dove afferma che «Überall aber, wo wir Leben setzen, finden wir einen Träger des Lebens, der eigenthümliche Merkmale aufweist. […] So bilden wir einen Begriff des Lebensträgers und gebrauchen dafür die auf die eigenartige Struktur der belebten Ganzen hinweisende Bezeichnung „Organismus. Dieser Begriff ist genau so gut wissenschaftlich verwendbar, wie jeder andere Begriff, der durch richtige Abstraktion von erkannten Thatbeständen gewonnen ist und somit einen Wirklichkeitsinhalt zutreffende ausdrückt.» Gierke ha il merito della riscoperta di Althusius ma anche in questa operazione non riesce a staccarsi dal binomio persona giuridica e rappresentanza: «Sobald man das Volk im Sinne des organischen Volksganzen nimmt, das im Staat Person wird, geht der Begriff der Volkssouveränetät in den Begriff der Staatssouveränetät über.» (Id., Johannes Althusius und die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau 1880, 132).

 

[57] Dritter Band, Zweytes Buch “Die Rechtsverhältniſſe”, Berlin 1840, Drittes Kapitel “Von der Entſtehung und dem Untergang der Rechtsverhältniſſe”, § 113 “Freye Handlungen - Erweiterung durch Stellvertretung”. Savigny che nel § 112 (“Vernunftlose. Interdicierte. Iuristische Personen”) assimila le “persone giuridiche” (in quanto “bloße Fiction”) ai pazzi e agli interdetti nel § 113 assimila la “rappresentanza” delle “persone giuridiche” a quella dei “pazzi” e degli “interdetti”.

 

[58] La “Bürgertum” o “Bourgeoisie”, su cui soffermano la propria attenzione Karl Marx e Friedrich Engels nel saggio sulla “ideologia tedesca”, Die deutsche Ideologie, scritto parzialmente in parallelo con il trattato di Savigny, ma pubblicato – postumo – soltanto nel 1932, in quanto – secondo lo stesso Marx – il suo scopo sarebbe stato essenzialmente quello di consentire ai suoi autori di auto-comprendersi (“Selbstverständigung”); cfr. D. Fusaro, “L’Ideologia tedesca tra critica della spettralità e fondazione della scienza filosofica” saggio introduttivo a K. Marx - F. Engels, Ideologia tedesca, testo ted. e tr. it., Milano 2011, 19 ss.

 

[59] Vedi, supra, nt. 13.

 

[60] «Das Wort iussus hat hier den technischen Sinn, welcher in § 412 Note 8 bezeichnet worden ist; es bedeutet nicht Befehl, sondern Verweisung, Anweisung. Indem man diese technische Bedeutung von iussus verkannte und zu gleicher Zeit in’s Auge faβte, daβ die actio quod iussu auf den Fall berechnet ist, wo Jemand durch gewaltunterworfene Personen verpflichtet werden will (Note 10), hat man die Behauptung aufgestellt, daβ der iussus an den Gewaltunterworfenen gerichtet werden müsse, oder doch, daβ dieβ der Normalfall der actio quod iussu sei» B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt a. M. 1862-70; sechste verbesserte und vermehrte Auflage, zweiter Band, Frankfurth a. M. 1887 [ http://dlib-pr.mpier.mpg.de/m/kleioc/0010/exec/books/%22214200%22 ] 859 nt. 6. Si noti che la novità della negazione della natura di comando allo “iussus” (almeno nella materia delle actiones a. q.) è già posta da Windscheid nella prima edizione del libro IV del proprio Lehrbuch (Das Recht der Forderungen) la quale è del 1866.

Sulla attribuzione a Windscheid della stessa teoria della “rappresentanza” (“Repräsentationstheorie”) mentre Savigny sarebbe restato alla teoria del dominus negotii (“Geschäftsherrntheorie”) vedi ancora, supra, nt. 13.

 

[61] P. Laband, “Die Stellvertretung bei dem Abschluβ von Rechtsgeschäften nach dem Allgemeinen deutschen Handelsgesetzbuch” in ZHR - Zeitschrift für Handelsrecht, 10, 1866, 183 ss. (sul cui contributo allo stato della questione si sofferma – ad es. – J.L. Halpérin, “Mandato e rappresentanza. Dalle figure romane alle problematiche moderne dell’età della codificazione” in A. Padoa Schioppa, a cura di, Agire per altri. La rappresentanza negoziale processuale e amministrativa nella prospettiva storica, cit., 648 «Laband propone di porre fine alla confusione tra mandato e rappresentanza […] attacca i teorici di diritto comune tedeschi legati alla nozione di rappresentanza imperfetta ed al diritto romano [… e rompe] doppiamente con la tradizione romanistica [… facendo] trionfare la rappresentanza perfetta e [… riducendo] il ruolo del mandato nell’agire per conto di altri».

Il testo giustinianeo più ‘forte’ è il ben noto incipit del titolo 3.3 del Digesto, “De procuratoribus et defensoribus”: Ulp. D. 3.3.1 pr. Procurator est qui aliena negotia mandatu domini administrat, cui si allinea Ulp. D. 46.3.12 pr. Vero procuratori recte solvitur. Verum autem accipere debemus eum, cui mandatum est vel specialiter vel cui omnium negotiorum administratio mandata est. Sulla “classicità” di questi testi (e degli altri concernenti la dicotomia verus - falsus procurator) c’è molta dottrina, per la quale, tra gli scritti recenti, vedi Maria Miceli, “Institor e procurator nelle fonti romane dell’età preclassica e classica” in IURA, 53, 2002, 121; Ead., Studi sulla «rappresentanza» nel diritto romano, I, Milano 2008, 192 nt. 172 e 228 nt. 31; Giovanna Coppola Bisazza, Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della Rappresentanza, cit., 249 nt. 340. A. Milazzo, Falsus procurator. Ricerche sull’evoluzione del concetto di falso rappresentante, Bari 2012. Sulla origine e sui guasti della ‘Interpolationenjagd’, vedi da ultimo G. Santucci, “«Decifrando scritti che non hanno nessun potere». La crisi della romanistica fra le due guerre” in I. Birocchi e M. Brutti, Storia del diritto e identità disciplinari: tradizioni e prospettive, Torino 2016, 63 ss. in part. 88 ss (a proposito dell’apporto di Salvatore Riccobono) e 92 ss. (a proposito dell’apporto di Emilio Betti, il quale, nel 1930, raccomandava di «sentire il diritto come problema» ma, a questo fine, aveva scelto la strada della “casistica”: Esercitazioni romanistiche su casi pratici, I, Padova 1930).

 

[62] Ha. Hofmann, Rappresentanza - Rappresentazione, cit., 172 s. «Savigny […] negando la differenza di fondo fra le figure del legato e del rappresentante, dovette di conseguenza riferire anche a quest’ultimo (con tutte le implicazioni giuridiche) gli attributi che, per tradizione erano riservati al primo, mercé l’idea del suo carattere di organo e di strumento [nt. 129: «System des heutigen römischen Rechts, Berlin 1840, 94 ss. …»]».

 

[63] Vedi, ancora recentemente, A. Wacke, “Alle origini della rappresentanza diretta: le azioni adiettizie” in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, II, Napoli 1997.

 

[64] Per approfondire il percorso logico-scientifico di Laband, vedi R. Cardilli, “I Decemviri legibus scribundis come ‘poteri costituenti straordinari’ in Theodor Mommsen” in Fides humanitas ius. Studii in onore di Luigi Labruna, Napoli 2007, 756 s.

 

[65] È talvolta esplicitata ed è sempre implicita la idea che la nozione matura della rappresentanza «coincide […] con un grado di raffinatezza dogmatica non ancora accessibile ai Romani» (Ha. Hofmann, Rappresentanza-rappresentazione, cit., 174 nt. 135 ove rinvia a Puchta, 1856; Laband, 1866; Unger, 1871; Mitteis, 1885 [Ludwig Mitteis, Die Lehre von der Stellvertretung nach römischem Recht mit Berücksichtigung des österreichischen, Wien 1885, 10 s. il quale arriva a spiegare con l’ «Egoismus» dei Romani, la loro incapacità «die christliche Tugend der Nächstenliebe zu einem Rechtsprinzip erhoben, welches sich in der Zulassung der directen Stellvertretung und der Verträge zu Gunsten Dritter äuβere», 52]; Schlossmann, 1900-02 [Sigmund Schlossmann, Die Lehre von der Stellvertretung insbesondere bei obligatorischen Verträgen, 2 voll., Leipzig 1900-02] e altri.

Questa idea è presente anche negli studi recenti; vedi, ad es., quelli di J. Hernanz Pilar, El iussum en las relaciones potestativas, Valladolid 1993 (il quale inizia ponendo la nozione romana di iussum alla base della «idea de representación») e di Maria Miceli, Studi sulla rappresentanza nel diritto romano, cit. (il quale si conclude con il paragrafo “Contributo del diritto romano alla costruzione del «modernes Rechts der Stellvertretung»). Merita notare che – correttamente – entrambi i lavori si concentrano sui negozi sottesi alla actiones adiecticiae qualitatis. Recensendo il saggio di Hernanz, Alberto Burdese, sulle orme dell’autore spagnolo, descrive lo iussum «come istituto che affonda le sue radici nel ius civile e si manifesta inizialmente nell’ambito dei rapporti tra pater familias e soggetti alla di lui potestà salvo estendersi progressivamente al procurator e ad altre persone libere da quella potestà, senza che ne risulti alterata la sua nozione quale si delinea nel primitivo contesto privatistico cui si limita la presente trattazione, che prescinde […] dalla considerazione del iussum […] operante in ambiti pubblicistici o religiosi»; in definitiva: «un surrogato della rappresentanza diretta» (in Seminarios Complutenses de derecho romano, suppl. 1992-93, pubbl. nel 1994, 76 ss.; quindi in Id. Recensioni e commenti. II, Padova 2009, 154 ss.)

 

[66] «populus ist der Staat» Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, 2a ed., Leipzig 1887, III.I, 3; «das römische Staatsrecht […] wie alles Recht den Staat voraussetzt» Id., Abriss des römischen Staatsrechts, Leipzig 1893, 3.

 

[67] «Handlung der Gemeinde ist eine jede, welche […] von dem Vertreter [Magistrat] vollzogen wird» Th. Mommsen, Abriss des römischen Staatsrechts, II.1, Leipzig 1893, 82 «Die Magistratur, die Verkörperung des Staatsbegriffs und die Trägerin der Staatsgewalt kann hie[r]nach nicht gefasst werden als rechtlich beruhend auf dem Gesammtwillen der Bürgerschaft, da dieser ja für sich allein überhaupt nicht wirksam werden kann; vielmehr ist nach der römischen Auffassung die römische Magistratur älter als die Volksgemeinde, welche sie erst erschafft, und das Mandat, ohne welches allerdings eine Vertretung überall nicht gedacht werden kann, geht von dem Vormann an den Nachfolger, welche bei dem Zwischenkönigthum näher zu erörternde Ordnung sich bis zum Eintritt des Principats auch tatsächlich ununterbrochen behauptet hat. Nach der früh hinzutretenden Bindung des Vormanns in der Ernennung des Nachfolgers durch die vorherige Befragung der Comitien wirken die Magistratur und die Comitien bei dieser Vollmachtsertheilung zusammen, und diese Auffassung der Magistratur und der Comitien als gleichmassig selbständiger Träger des Gemeindewillens beherrscht das Staatsrecht der Republik; erst in der späteren Epoche derselben werden die Comitien mehr und mehr, wenngleich nie vollständig als die eigentliche Vertretung der Gemeinde betrachtet und wird die magistratische Mitwirkung bei der Willensfindung derselben nicht mehr als Vereinbarung, sondern als Geschäftsleitung aufgefasst».

La costruzione mommseniana trova, peraltro, il proprio precedente in quella di J. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte. Erster Theil. Ueber den Entwickelungsgang der römischen Verfassung bis zum Höhepunkte der Republik, Cassel 1839. Circa la influenza di Rubino su Mommsen: A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert, Kiel 1956, 22 ss. e 42; P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., 42 s.

 

[68] La categoria/istituzione, la quale è trasformata nella- ovvero cui subentra la juristische Person, è la “sociétè” (cfr., infra, § II.2.b).

 

[69] Le parole con le quali lo studioso del diritto commerciale Gastone Cottino (“Dal ‘vecchio’ al ‘nuovo’ diritto azionario”, cit.) commenta la recente ‘recezione’ italiana (D.L. n. 6 del 17/01/2003) della normativa tedesca del ’37 appaiono tolte da un vocabolario di diritto costituzionale (vedi, supra, nt. 22).

 

[70] Nonostante qualche encomiabile tentativo di cambiare rotta. È noto il richiamo di Paul Koschaker (Europa und das römische Recht, Berlin 1947, 3a ed. München und Berlin 1958, 352 «Die juristischen Disziplinen haben ihre eigenen Gesetze, und eines dieser Gesetze ist daß sie alle mehr oder weniger auf die Gegenwart orientiert sind» (cfr. Id., Die Krise des römischen Rechts und die romanistische Rechtswissenschaft, München 1938).

Per gli argomenti della opposta posizione, vedi, ad es., A. Guarino, “L’Europa e il diritto romano”, in Labeo, 1, 1955, 207 ss.; Id., “L’esperienza di Roma nello studio del diritto” in Diritto e Giurisprudenza, 70, 1955, 273 ss. e quindi in Id., Pagine di Diritto Romano, I, Napoli 1993, 109 ss.

Peraltro, studiare il Diritto romano per problemi attuali del diritto non è – come propone Koshaker – «“attualizzare l’insegnamento romanistico”, e cioè […] ridurre la lezione di diritto romano alla esposizione di quei soli argomenti privatistici, i quali potessero ancora avere interesse, causa i loro addentellati con i diritti vigenti» (A. Guarino, op. ult. cit., il quale ha ragione a criticarne questa interpretazione).

 

[71] Secondo Riccardo Orestano, i giuristi romani, sino al “diritto giustinianeo”, hanno compiuto gran parte del- se non tutto «il lento e faticoso processo di astrazione e di unificazione [i corsivi sono nostri] che porta all’idea di una personalità corporativa» (R. ORESTANO, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Torino 1959, 166). Orestano (il quale continua gli studi del proprio Maestro, Emilio Albertario [di questo vedi in particolare Corpus e universitas nella designazione della persona giuridica, in Studi di dir. rom., Milano 1933, I, 9 ss.]) rinvia a E. BETTI, Diritto romano, I, Padova 1935, 74 (ma vedi già il “Discorso” di Otto Gierke nel 1902, citato supra nt. 56). La espressione di Betti-Orestano è ora ripresa e fatta propria da F. GALGANO, Trattato di diritto civile, Volume 1, 2a ed., Padova 2010, 183 nt. 20. Una bella continuità.

Orestano ha dedicato una particolare attenzione al tema; vedi: ID., “Rappresentanza. Diritto romano” in NNDI, XIV, Torino 1967, 796: «storia della progressiva attuazione del principio della rappresentanza diretta» e ID., Il problema delle persone giuridiche nel diritto romano, I, Torino 1968, 174 ss. dove si parla della «progressiva smaterializzazione» del “corpus” operata dai giuristi romani [174] in un processo che va «§ 25. Dal concreto all’astratto» in quattro successive tappe «- concezione materiale; - concezione totalistica; - concezione corporalistica; - concezione astratta» [178]).

Senza assegnare molta importanza né soverchia attenzione alla questione, segue ora la dottrina della “astrazione” A. Groten, Corpus und universitas. Römisches Körperschafts- und Gesellschaftsrecht: zwischen griechischer Philosophie und römischer Politik, Tübingen 2015, 341 ss. («abstrakte Konstruktion der Personenverbände […] völlige Abstraktion der Existenz des Begriffs von dem personalen Substrat») e 384 (“Sintesi della ricerca. § 4. Astrazione dal substrato personale”).

È anche notevole che Orestano consideri segno dell’essere «sulla buona strada» della liberazione dalla «pesante ipoteca del dommatismo tedesco» la rinuncia alla ricerca della «visione unitaria dei problemi della personalità giuridica, perseguita sino a Kelsen» e connessa alla «domanda [linguistica] “cosa significa persona giuridica?”», per dedicarsi  invece in maniera settoriale al «problema della determinazione delle condizioni d’uso del concetto di persona giuridica» (R. ORESTANO, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, cit., 69 ss.). In realtà, è precisamente il metodo scientifico divenuto dominante e apprezzato da Orestano quello che assicura la non ri-discussione e la perennità dei risultati dogmatici-sistematici ’800eschi.

 

[72] Circa la propensione pro-evoluzione di Orestano, vedi Id., “Idea di progresso, esperienza giuridica romana e ‘paleoromanistica’” in Sociologia del diritto, 1983, e in R. Treves, a cura di, Alle origini della sociologia del diritto, Milano 1983, quindi in Id., Edificazione del giuridico, Bologna 1989, dove [252 s.] critica «il grande romanista tedesco» Fritz Schulz perché questi «sostenne vigorosamente […] avere i giuristi romani ignorato qualsiasi sentimento di evoluzione».

 

[73] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit.; Id., Diritto e persone, I, cit., 163 ss. Una ottima utilizzazione della innovazione dottrinale di Catalano è lo studio di Laurent Hecketsweiler: La fonction du Peuple dans l’Empire romain. Réponsens du droit de Justinien, Paris 2009; cfr. ora Id., “Le ius publicum comme problème pour les juristes d’aujourd’hui” in Diritto@Storia, n. 12, 2014 < http://www.dirittoestoria.it/12/tradizione-romana/Hecketsweiler-Ius-publicum-probleme-juristes-aujour-d-hui.htm > (ove, però, non si affronta espressamente il nostro tema).

Anche la scienza gius-privatistica ha posto all’ordine del giorno’ il tema della “crisi della persona giuridica” e cerca – in alternativa – di recuperare la “corporazione” (J.L. Corrêa De Oliveira, A Dupla Crise da Pessoa Jurídica, São Paulo 1979 [cfr. Id., Conceito de pessoa jurídica, Curitiba 1962; Nathalie Baruchel, La personnalité morale en droit privé, Paris 2004, Première partie “La crise de la notion de personnalité morale”; A. Serra, “Regressione evolutiva degli istituti giuridici: brevi riflessioni sulla nozione di persona giuridica”, in Diritto@Storia, n. 4, 2005 < http://www.dirittoestoria.it/4/Contributi/Serra-Regressione-evolutiva-degli-istituti-giuridici.htm >; vedi anche P. Zatti, Persona giuridica e soggettività: per una definizione del concetto di persona nel rapporto con la titolarità delle situazioni soggettive, Padova 1975, e F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova 1989).

 

[74] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, cit., § I.IV.A “ ‘Magistrat’ e ‘Volk’ nel pensiero del Mommsen, e gli sviluppi della visione dello «Stato astratto»” in part. 42 e § I.V “Elementi per una rinnovata visione storica: Jhering”, in part. 69.

 

[75] Per una apertura in questa direzione vedi ancora P. Catalano, Diritto e persone, cit. § II.V.8 “Le ‘associazioni’ antiche fra ‘pubblico’ e ‘privato’”, 185-186.

 

[76] Pomp. D. 41.3.30.pr. Tria autem genera sunt corporum, unum, quod continetur uno spiritu et Graece ¹nwmšnon [continuum] vocatur, ut homo tignum lapis et similia: alterum, quod ex contingentibus, hoc est pluribus inter se cohaerentibus constat, quod sunymmenon vocatur, ut aedificium navis armarium: tertium, quod ex distantibus constat, ut corpora plura non soluta, sed uni nomini subiecta, veluti populus legio grex.

La divisione giuridica odierna tra cose concrete e astratte corrisponde a quella romana-antica tra cose corporales e incorporales (Gai. 2.12 s. Quaedam praeterea res corporales sum, quaedam incorporales hae, quae tangi possunt; cfr. Cic. top. 5.26-27. duo genera […] unum earum rerum quae sunt, alterum earum quae intelleguntur. Esse ea dico quae cerni tangive possunt […]. Non esse rursus ea dico quae tangi demonstrarive non possunt, cerni tamen animo atque intellegi possunt [...], quarum rerum nullum subest corpus, est tamen quaedam conformatio insignita et impressa intellegentia, quam notionem voco; Char., ars gramm., Keil, Gr. Lat. I.153. duas species [...] res corporales, quae videri tangique possunt [...] incorporales [...], quae intellectu tantum modo percipiuntur, verum neque videri nec tangi possunt.).

È manifestazione ‘plastica’ della “forzatura” dogmatica contemporanea la affermazione della «smaterializzazione» del “corpus” operata dai giuristi romani (R. Orestano, Il problema delle persone giuridiche in diritto romano, cit., vedi, supra, nt. 71).

 

[77] Cic. rep. 1.39 Populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus (su cui, recentemente: A. Grilli, “Populus in Cicerone” in G. Urso, a cura di, Popolo e potere nel mondo antico [atti di Cividale del Friuli, 23-25 settembre 2004] Pisa 2005, 97 ss.).

Gai. D. 3.4.1.pr. e 1 Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat.

Come risulta dal titolo 4 del libro terzo del Digesto di Giustiniano, le categorie utilizzate per indicare la societas, quale ente unitario e concreto sono, sia dal punto di vista del diritto pubblico sia dal punto di vista del diritto privato, universitas e corpus. Se il significato della unità da parte della parola universitas appare accolto presso la dottrina contemporanea, non può dirsi altrettanto del significato della concretezza da parte della parola corpus.

 

[78] Rousseau (in CS, 1.5, “Qu’il faut toujours remonter à une première convention”) contrappone la “moltitudine” mera “aggregazione” alla “società” e precisa che tale “società”, composta da tutti i soci, è la “unità”: «Il y aura toujours une grande différence entre soumettre une multitude et régir une société. Que des hommes épars soient successivement asservis à un seul, en quelque nombre qu’ils puissent être, je ne vois là qu’un maître et des esclaves, je n’y vois point un peuple et son chef: c’est, si l’on veut, une agrégation, mais non pas une association; il n’y a là ni bien public, ni corps politique».

Rousseau (il quale appare costruire questa sua affermazione mettendo insieme una citazione ciceroniana [rep. 1.39] e una citazione gaiana [D. 3.4.1.1] in chiara contrapposizione alla dottrina hobbesiana) chiarisce ulteriormente: «au lieu de la personne particulière de chaque contractant, cet acte d’association produit un corps moral et collectif, composé d’autant de membres que l’assemblée a de voix [il corsivo è nostro], lequel reçoit de ce même acte son unité, son moi commun, sa vie et sa volonté. Cette personne publique, qui se forme ainsi par l’union de toutes les autres, prenait autrefois le nom de cité (a), et prend maintenant celui de république ou de corps politique, lequel est appelé par ses membres État quand il est passif, souverain quand il est actif, puissance en le comparant à ses semblables. À l’égard des associés, ils prennent collectivement le nom de peuple, et s’appellent en particulier citoyens, comme participant à l’autorité souveraine, et sujets, comme soumis aux lois de l’État. Mais ces termes se confondent souvent et se prennent l’un pour l’autre; il suffit de les savoir distinguer quand ils sont employés dans toute leur précision» (CS, 1.6 “Du pacte social”; su cui vedi Gabriella Silvestrini, Diritto naturale e volontà generale. Il contrattualismo repubblicano di Jean-Jacques Rousseau, Torino 2010, 102 ss.); cfr. CS, 1.4 De l’esclavage” «La guerre n’est donc point une relation d’homme à homme, mais une relation d’État à État»; CS, 2.4 “Des bornes du pouvoir souverain” «l’État ou la cité n’est qu’une personne morale dont la vie consiste dans l’union de ses membres»; CS, 4.8 “De la religion civile” «Pour que la société fût paisible et que l’harmonie se maintînt, il faudrait que tous les citoyens etc.».

 

[79] Si può parlare di “democrazia” anche dal punto di vista del diritto privato. Vedi, supra, nt. 22.

 

[80] «Rien nʼest plus dangereux que lʼinfluence des intérêts privés dans les affaires publiques, & lʼabus des loix par le Gouvernement est un mal moindre que la corruption du Législateur, suite infaillible des vues particulières.» (J.-J.Rousseau, CS, 3.5 “De la Démocratie”).

 

[81] Vedi, supra, § II.2.d., gli apporti di Windscheid e Laband.

 

[82] R. v. Jhering, “Mitwirkung für fremde Rechtsgeschäfte” in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts, Bd. 1, 1857, 313: «Mandatar und Stellvertreter […] bezeichnen sie selbst da, wo beide Begriffen im einzelnen Fall zusammentreffen, zwei völlig verschiedene Seiten des Verhältnisses».

Come abbiamo visto (supra, § I.1.c) la dottrina della rappresentanza come cooperazione è recessiva nella scienza giuridica contemporanea. Tra i suoi non molti sostenitori novecenteschi ricordiamo in particolare Salvatore Pugliatti, autore (a partire dal 1927) di vari scritti sulla rappresentanza (quindi raccolti in Id., Studi sulla rappresentanza, Milano 1965). Anche il francese E. Boland, De la représentation dans les contracts, thèse, Liège 1927, 30 scrive «la définition du concept de représentation suppose, avant tout, l’étude de genre prochain auquel appartien l’institution: la coopération aux actes juridiques d’autrui». Cfr. M. Graziadei - R. Sacco, “Sostituzione e rappresentanza” in Digesto delle Disc. Priv. Sezione Civile, XVIII, Torino 1998, 618 «4. Potere di gestione, mandato, rappresentanza. […] Nel diritto comune, e poi nel diritto francese, si prese a distinguere il “lato interno” del mandato, che concerne i rapporti fra gerente e gerito, e il lato esterno, che concerne i rapporti con il terzo».

 

[83] Come talvolta si crede. Ad es., H. Kötz - S. Patti, Diritto europeo dei contratti, tr. it. di Sabine Büchberger, Milano 2006, cap. 12 “La rappresentanza” 375 ss. (premesso che la concezione compatta di mandato e procura risalirebbe al Giusnaturalismo e più precisamente a Pothier [Traité des obligations, 1761, no. 74 e 75] da dove l’avrebbero presa il Code civil francese [art. 1984], l’ALR prussiano [§ 5 ss. comma 1.13] e l’ABGB austriaco [§ 1002]) scrivono (379) «Jhering è stato il primo a rilevare la necessità di distinguere fra il rapporto contrattuale che lega le parti – che sia un mandato o contratto di lavoro, di società ecc. – e il conferimento di procura [Jhering Jahrbucher 1 (1857) 273]; Laband ha sostenuto perfino che i due negozi sono del tutto indipendenti [in ZHR 10 (1866) 183] […] questa teoria si è affermata non soltanto in Germania ma ha compiuto una “marcia vittoriosa senza pari” nelle legislazioni moderne. […] Oltre che dai redattori del codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch) questo sistema è stato attuato anche nel codice civile svizzero (Obligationenrecht, 1911), nella legge svedese in materia contrattuale (1915) – accolta poi dagli altri paesi nordici – nel codice civile greco (1940), nel codice civile italiano (1942), nel codice civile portoghese (1966) e nel Nieuw Burgerlijk Wetboek olandese (1922)».

 

[84] Ateio Capitone apud Gell. n. A. 10.20.

 

[85] Scaev. D. 50.1. <Ad municipalem et de incolis> 19 Quod maior pars curiae effecit, pro eo habetur, ac si omnes egerint; Ulp. D. 50 <De diversis regulis iuris antiqui> 17.160.1. Refertur ad universos, quod publice fit per maiorem partem.

 

[86] Non, cioè, in qualità di “nuncius”.

 

[87] Cic. de orat. 167 magistratus in populi Romani esse potestate debent; Planc. 62 sic populus Romanus deligit magistratus quasi rei publicae vilicos; cfr. off. 1.124 Est igitur proprium munus magistratus intelligere se gerere personam civitatis debereque eius dignitatem et decus sustinere, servare le­ges, iura discribere, ea fidei suae commissa meminisse; Paul. D. 50.16.215 “Potestatis” verbo plura significantur: in persona magistratuum imperium: in persona liberorum patria potestas: in persona servi dominium, dove la posizione dei magistrati nei confronti del popolo è puntualmente allineata, dal punto di vista potestativo, a quella dei figli e dei servi nei confronti del pater e del dominus.

 

[88] Vedi G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino (1994) 1996, in part. 111 ss.; cfr., infra, nt. 109.

 

[89] Vedi, infra, ntt. 90 ss.

 

[90] Nel diritto processuale, lo iussum appare sia come eco del diritto sostanziale (actio quod iussu) sia come applicazione diretta, nella relazione tra magistrato giusdicente e giudice giudicante (iudicare iubere).

L’actio quod iussu è archetipo delle aa.a.q., tutte caratterizzate da un iter processuale il quale appare ripercorrere all’indietro l’iter volitivo (partecipativo e cooperativo) dei negozi di diritto sostanziale per le quali sono approntate.

Il còmpito esecutivo affidato dal Popolo ai Magistrati con lo iussum è non soltanto di amministrare e/o negoziare ma anche di rendere giustizia nelle liti. Però, poiché il potere-discrezionalità corrompe chi lo esercita quando chiamato ad applicarlo al singolo evento, il còmpito di rendere giustizia è esso stesso oggetto di ulteriore articolazione in ius dicere e iudicare. Con lo iussum iudicandi il magistrato pone tra se e i litiganti un terzo, il quale non ha potere, è – cioè un privato”. Lo iudex è definito privatus e privatus significa “senza potere”: Cic. inv. 1.35; 2.20. Di recente, sullo iudex privatus, vedi: R. Scevola, La responsabilità del iudex privatus, Milano 2004; L. Gagliardi, “La figura del giudice privato nel procedimento civile romano” in Aa.Vv., Diritto e teatro in Grecia e Roma, Milano 2007. In relazione al giudicare, la volizione collettiva pubblica risulta, dunque, scandita in tre livelli: lo iubere leges / iussum generale del popolo, la iurisdictio con lo iussum iudicandi del magistrato e infine lo iudicare del giudice. Il connesso ‘sistema’ dell’agire volontario appare, così, all’insegna di una sorta di entropia del potere. Questo, infatti, va dalla pienezza (umanamente possibile: vedi Cic. Rab. perd. 5; cfr. Paul. Fest. p.172 [sub voceNumen”] e Cic. l. Man. 16.47) della discrezionalità insita nello iubere leges assolutamente generali da parte del popolo, caratterizzato dall’essere in sua potestate (Varr. ling. 9.1.6; Cic. l. agr. 2.7.17 e 2.11.27; orat. 2.167 Liv. 9.9.4 e 1.38.1) alla assenza (umanamente possibile) della discrezionalità insita nello iudicare su situazioni assolutamente singole da parte dello iudex caratterizzato dall’essere privo di potestas. È vero che correntemente si afferma essere stato questo “ordine” soppiantato dalla cosiddetta “cognitio extra ordinem”; però, a parte il postulato del sopravvivere della distinzione concettuale tra iurisdictio e iudicatio (assente nella esperienza e nella logica feudali sia medievali sia moderne) occorrerebbe ricordare la accorata denunzia e autocritica di Riccardo Orestano circa la natura di invenzione pandettistica della categoria “cognitio extra ordinem” (R. ORESTANO, “La cognitio extra ordinem: una chimera”, in Scritti, III, Napoli 1998, 1831 ss.; cfr. ID., “Cognitio extra ordinem” in Scritti, II, Napoli 1998, 1033 ss.).

Tale ‘entropia’ repubblicana appare perfettamente opposta all’orientamento d’‘ancien règime’ (feudale) del “Richter König” e odierno (‘globale’) della montante “giudiziarizzazione” della volizione pubblica (su cui P. Pasqualucci, “Postfazione” alla tr. it. di O. Bülow, Gesetz und Richteramt, Leipzig 1885; rist. anast. Aalen 1972: “Legge e ufficio del giudice” in QF, 30 (2001), tomo 1, 199 ss., in part. 253 nt. 64, ove si rinvia a L. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967, 239 e a A. Giuliani - N. Picardi, La responsabilità del giudice, Milano 1987, 18-22; cfr. Francesca Biondi, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale, Milano 2006, 67; definisce, invece, i giudici “oracoli del diritto” J.P. Dawson, The Oracles of the Law, Ann Arbor [Mich.] 1968, tr. it. di R. Giurato, Napoli 2014; da ultimo V. Piras, “Sui processi di formazione della volontà collettiva: appunti in tema di ‘decodificazione’ e ‘Giudice Re’” in D. D’Orsogna, G. Lobrano, P.P. Onida, a cura di, Città e Diritto. Studi per la partecipazione civica. Un “Codice” per Curitiba, Napoli 2016, 267 ss.).

 

[91] Nella lista del “che fare” (per la comprensione di un iter volitivo articolato tra un comando – più o meno – generale e una esecuzione – più o meno particolare – i quali si postulano vicendevolmente) va anche segnata una riflessione complessiva delle omologhe dicotomie “privilegium e generale iussum populi” (vedi nt. seg.) e “specialiter in uno contractu iubere sive generaliter” (su cui vedi Ulp. D. 15.4 [Quod iussu] 1.1 [iussum generale] cfr. C. 4.26.13 e Cic. ep. ad fam. 16.14.2 [Medico mercedis quantum poscet promitti iubeto]; Paul. D. 3.3 [De procuratoribus et defensoribus] 6 [mandatum generale[ e Paul. D. 13.7.18.4 [libera administratio]).

È stato già osservato, a proposito delle societates publicanorum, che la competenza delle loro “assemblea generale” è ad assumere le “decisioni più importanti”. La fonte di tale osservazione sono passi ciceroniani oramai ben noti: De domo sua, 28.74 (publicorum societates […] decreta fecerunt); in L. Calp. Pis. 18.41 (decreta publicanorum); pro Sest. 14.32 (societas vectigalium […] decrevisset); in P. Vat. 3.8 (societatum […] decreta) e specialmente sec. in Verr. 2.71.173 s., dove la “assemblea generale” è indicata con la locuzione “multitudo sociorum”. Colpisce l’uso di questa ultima espressione proprio da parte dell’autore della più famosa definizione di res publica e, quindi, di populus come coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. La ‘osservazione’ è di Claude Nicolet, “Réflexions sur les sociétés de publicains: Deux remarques sur l’organisation des sociétés des publicains à la fin de la république romaine” in H. v. Effenterre, éd., Points de vue sur la fiscalité antique, Paris 1979, 76 s.; ripresa da Ulrike Malmendier, Societas publicanorum. Staatliche Wirtschaftsaktivitäten in den Händen privater Unternehmer, Köln - Weimar - Wien 2002, 267: «Jedenfalls gab es eine „Generalversammlung“ der Gesellschafter, die sich mit den wichtigen Entscheidungen für die Gesellschaft befaβte und die so groβ sein konnte, daβ Cicero sie als multitudo bezeichnet».

Cfr. A. Burdese, 1994, rec. di J. Hernanz Pilar, 1993, in Id., Recensioni e commenti, cit., 156 e H. Wieling, “Drittwirkungen des mandats und ähnlicher Rechtsverhältnisse”, cit. 238 ss. § 2. “Generelle Aufträge”.

 

[92] XII Tab. 9.1 privilegia ne inroganto (Cic. dom. 43; Sest. 65); At. Cap. apud Gell., noct. Att. 10.20 Lex [...] est generale iussum populi [...] rogante magistratu; Pap. D.1.3.1 Lex est commune praeceptum; Ulp. D. 1.3.8 Iura non in singulas personas, sed generaliter constituuntur; Cod. Just. 5.59.5 quod omnes similiter tangit ab omnibus comprobetur; Fest., de v. s., 326, 16 (L.): quod in omnes homines resve populus scivit, lex appellatur. Tra queste citazioni può inserirsi anche Tac. Ann. 3.27 Corruptissima re publica plurimae leges.

 

[93] R. Martini, “Sulla partecipazione popolare ai concilia provinciali nel tardo Impero” in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana. XIII Convegno internazionale in memoria di André Chastagnol, Napoli 2001, 709 ss.

 

[94] P. Catalano, Un concepto olvidado: “poder negativo” in Revista General de Legislación y Jurisprudencia, Madrid, marzo de 1980, T. LXXX de la segunda época, n. 3, 233 e in Aa.Vv., Costituzionalismo latino, I (= Progetto Italia-America Latina. Ricerche giuridiche e politiche, Materiali, IX/1) Sassari, s.d.; cfr. ID., Tribunato e resistenza, Torino 1971.

 

[95] CS. 3.15 «Tout bien examiné, je ne vois pas qu’il soit désormais possible au Souverain de conserver parmi nous l’exercice de ses droits si la cité n’est très-petite. Mais si elle est très-petite elle sera subjuguée? Non. Je ferai voir ci-après* comment on peut réunir la puissance extérieure d’un grand peuple avec la police aisée & le bon ordre d’un petit Etat. [*C’est ce que je m’étois proposé de faire dans la suite de cet ouvrage, lorsqu’en traitant des relations externes j’en serois venu aux confédérations. Matiere toute neuve & où les principes sont encore à établir.]»

 

[96] Nel XX secolo, già Hannah Arendt non si limitava ad osservare la inconsistenza della rappresentanza politica moderna (vedi, supra, nt. 25) ma ne individuava anche il rimedio precisamente nei processi decisionali della Città antica (vedi R. Schoonbrodt, “La ville et la philosophie” in P. Ansay - R. Schoonbrodt, a cura di, Penser la ville. Choix de textes philosophiques, Bruxelles 1989, 61: «Hanna Arendt et la solution de la Grèce Classique», che, di Harendt, cita «Condition de l’Homme moderne, Ed. Calmann-Lévy, Paris 1983, 41»; cfr. S. Lo Leggio, Sulla Rivoluzione. Lettura critica di Hannah Arendt, Perugia 1991, il quale sottolinea la attenzione al diritto e alla funzione costituente, per la partecipazione democratica, secondo un modello antico dove spiccano la Città (polis) e la Federazione.

Questo orientamento è cresciuto nel tempo. Si veda, ad es., lo scritto ‘a quattro mani’ di B. Ackerman e J. Fishkin, Deliberation Day, New Hawen 2004. Il sociologo G. Bosetti e il filosofo della politica S. Maffettone, a cura di, Democrazia deliberativa: cosa è, Roma 2003, ne propongono una rapida sintesi con la loro “Introduzione” e la breve selezione di saggi: ivi (oltre ai testi di “lezioni” tenute degli stessi Ackerman e Fishkin e da Mannheimer su sondaggio deliberativo e democrazia) sono inseriti i saggi di M.H. Hansen, “Democrazia diretta, antica e moderna”, 115 ss., e G. Pellegrino, “Appendice. Le radici storiche e teoriche della democrazia deliberativa”, 133 ss. Il danese Hansen è autore di una fortunata The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes: Structure, Principles, and Ideology (tr. ingl. di J.A. Crook dalla ed. danese Copenhagen 1977-81, Oxford UK and Cambridge Mass. USA, 1a ed. 1991 e 2a ed. 1999 e tr. it. a cura di A. Maffi, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Milano 2003) che è divenuta il riferimento per le riproposizioni odierne del modello ateniese antico. Da questi autori – pure non propriamente giuristi (Ackerman a parte) – è colto il fenomeno della crisi della cosiddetta “democrazia liberale”, sostanzialmente elitaria, caratterizzata dalla enfasi sulle elezioni e dal controllo reale da parte delle ‘lobby’ economiche e il futuro è individuato nella alternativa tra il recupero del modello della democrazia greca e il precipitare verso la fine anche degli ultimi residui di democrazia, verso la “postdemocrazia” (cfr. C. Crouch [sociologo-politico, direttore del ‘Department of Political and Social Sciences’ presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze], Postdemocrazia, Roma-Bari 2003).

La riflessione di tutti questi autori (Arendt compresa) importante e interessante, appare limitata proprio dalla mancata lettura giusromanistica di Rousseau e rousseauiana del Diritto romano, ragione/i per la/e quale/i – in maniera doppiamente naïve, almeno dal punto di vista giuridico – il modello di partecipazione popolare: 1) è cercato ancora nelle “città-Stato” greche (in particolare nella ‘polis’ di Atene, da Clistene [507 a.C.] fino alla conquista da parte dei Macedoni [322 a.C.]) anziché nello “Stato municipale” romano, e 2) si pensa di riproporlo – oggi – attraverso l’istituto dei referendum, grazie alle opportunità fornite dalle nuove tecniche di comunicazione informatica.

 

[97] Non è privo di significato il fatto che siano i ‘tecnici della Città-urbs’, gli Urbanisti, ad accorgersi della insufficienza-deficit connesso al mero utilizzazione della “rappresentanza” e a proporne un duplice rimedio: interno a ciascuna Città (la “partecipazione” dei Cittadini: Nouvelle Charte d’Athènes 1998. Prescriptions pour l’aménagement des villes, édictées par le Conseil Européen des Urbanistes, 1998, § 3-2 “Une véritable participation” «Le degré d’implication du citoyen dans les questions urbaines varie beaucoup, entre les villes et les pays d’Europe. Si la participation du public est très développée dans certains pays, elle est freinée dans d’autres par la manière très rigide avec laquelle est appliquée le système de représentation démocratique, souvent hautement centralisé. L’expression du droit, des besoins et des souhaits des citoyens, et leur compréhension des phénomènes, eu égard notamment aux questions relatives à la vie quotidienne ou à la qualité de l’environnement, ne peuvent se réaliser uniquement à travers un système fondé sur des représentants élus aux niveaux local et central; leur gouvernement, dans un tel cadre, ne peut qu’apparaître éloigné des gens et manquer ainsi son objectif d’améliorer la capacité d’initiative individuelle et d’organiser la qualité de leur cadre collectif de vie. Il faut restructurer les cadres d’organisation de l’urbanisme selon un principe hiérarchique, qui seul peut, rendre le processus d’élaboration plus compréhensible et plus accessible au citoyen. De même, le principe de subsidiarité doit être rigoureusement appliqué, aussi bien d’ailleurs au niveau de l’allocation des fonds et de l’administration publique.» cfr. §§ 1.26 e 3.4) e nelle relazioni tra le Città (la “rete” di Città: La Nouvelle Charte d’Athènes 2003. La Vision du Conseil Européen des Urbanistes sur Les Villes du 21ième siècle, Lisbonne, 20 novembre 2003, passim, in part. il § “Développement des réseaux de villes”).

 

[98] Secondo Cicerone (leg. 3.15 s.) senza tribuni la Repubblica è soltanto un nome senza sostanza: “nomen tantum videbitur regis repudiatum, res manebit, si unus omnibus reliquis magistratibus imperabit. Quare nec ephori Lacedaemone sine causa a Theopompo oppositi regibus, nec apud nos consulibus tribuni.

Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513), intitola il capitolo terzo del libro primo “Quali accidenti facessono creare in Roma i Tribuni della plebe, il che fece la repubblica più perfetta”.

 

[99] Si pensi alla istituzione novecentesca dell’Ombudsman / Defensor del Pueblo, per il quale è corrente il riferimento al modello tribunizio (C.R. Constenla, Teoría y práctica del Defensor del Pueblo, Bogotá - México, D.F. - Madrid - Buenos Aires 2010, passim).

Il postulato della identità tra Costituzione ed equilibrio dei tre poteri «Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée n’a point de constitution» è affermato nella “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” del 1789, che intesta sia la prima Costituzione francese del 1791 sia l’ultima e ‘vigente’ del 1958 viene dal capitolo 6 del libro XI dell’Esprit des lois, dove Montesquieu introduce l’esame della costituzione inglese come modello della migliore costituzione possibile («Il y a une nation qui a pour but direct de sa constitution la liberté politique») e che apre precisamente con la teoria della divisione e dell’equilibrio dei poteri: «Il y a, dans chaque état, trois sortes de pouvoirs [...] Tout seroit perdu, si le même homme, ou le même corps des principaux, ou des nobles, ou du peuple, exerçoient ces trois pouvoirs: celui de faire les loix, celui d’exécuter les résolutions publiques, & celui de juger les crimes ou les differends des particuliers».

 

[100] Si pensi al collegio dei “sindaci” delle società economiche, in particolare di quelle “per azioni”. Peraltro, l’uso – che sembra – più risalente della categoria di “sindaco” (syndicus) è ad indicare quella sorta di “tribuni delle Città” introdotti in età imperiale (D. 50.4.1.2; 50.4.18.13) in un contesto di memoria e intelligenza del più antico tribunato.

 

[101] G. Cottino, “Introduzione. Dal “vecchio” al “nuovo” diritto azionario: con qualche avviso ai naviganti”, cit. § 6 “I controlli: organi nuovi e organi inossidabili” osserva che la riforma del 2003, con la quale è stata tolta alla assemblea degli azionisti la partecipazione alla gestione della società (vedi, supra, nt. 22), ha prodotto «un incisivo impoverimento delle funzioni del collegio sindacale».

 

[102] “Popolo” (populus) è chiamato anche l’insieme dei membri delle associazioni private, i “collegia” dotate di “corpus”. In proposito: Ch. Daremberg, Edm. Saglio et Edm. Pottier, Dictionnaire des Antiquités grecques et romaines d’après les textes et les monuments, III.2, 1904, “Lex collegii”; F. De Visscher, “La notion de corpus et le régime des associations privées à Rome” in Scritti in onore di Contardo Ferrini, IV, Milano 1949; F.M. De Robertis, Storia delle corporazioni e del regime associativo nel mondo romano, II, Bari 1971, in part. 35 e 38. Nella produzione scientifica di Mommsen, la opera di ricostruzione del “diritto dello Stato romano” inizia e finisce con due scritti, i quali trattano di associazioni essenzialmente private: De collegiis et sodaliciis Romanorum (1843) e Zur Lehre der römischen Korporationen (pubblicato postumo: 1904). Per la ricostruzione storica resta fondamentale J.P. Waltzing, Étude historique sur les corporations professionnelles chez les Romains depuis les origines jusqu’à la chute de l’Empire, 4 voll., Louvain 1895-1900, di cui sono uscite nel 1968 ben due edizioni anastatiche, una a Roma, per i tipi della casa editrice Bretschneider, e una a Bologna, per i tipi della casa editrice Forni, nonché, nel 2000 un “aggiornamento” G. Mennella e Giuseppina Apicella, Le corporazioni professionali nell’Italia romana: un aggiornamento al Waltzing, Napoli 2000.

 

[103] Vedi, supra, nt. 18.

Osserva Ha. Hofmann, op. cit., ed. it., 1 nt. 5: «Il primo ad aver definite come relazione di potere tutte le relazioni di rappresentanza (almeno a proposito del potere di un gruppo) è stato Max Weber».

 

[104] Si deve osservare che nel mandato confluiscono il significato di comando (per cui in dottrina si parla di “sinonimia” con lo iussum, il quale ultimo non è un contratto e, infatti, intercorre tra persone poste in una medesima potestà) e la natura contrattuale (Gai. 3.88 s.; 3.135; 3.155-162 etc.: e, infatti, intercorre tra persone poste in diverse potestà). Tale osservazione consente di comprendere il “manum dare” come il conferire da parte del dominus negotii al mandatario (destinatario del comando) quel proprio potere che il filius e/o il servus si portano – per definizione – con sé.

Con il mandatum è stata fatta se non la medesima operazione una operazione simile a quella compiuta da Windscheid a proposito dello iussum. Questo è stato trasformato da comando al subalterno in vaga “autorizzazione”. Il mandatum (complice la “etimologia” ad orecchio di Isidoro: Etymologiae, 5.24.20 mandatum dictum quod olim in commisso negotio alter alteri manum dabat) viene trasformato da datio di potere in “stretta di mano”.

Vedi P.P. Onida, “In tema di natura del mandatum” in Diritto@Storia, n. 13, 2015 < http://www.dirittoestoria.it/13/tradizione-romana/Onida-Natura-del-mandatum.htm >.

 

[105] Il divieto di acquisto mediante “extranea persona” (ricordato, supra, § I.1.b, ntt. 6 s.) risulta confermato ancora nel sec. IX d.C., dallo Sch. 7 a Bas. 23.3.24 = D. 22.1.24.2 secondo il quale ogni persona che acquista ad altri è sempre in qualche modo e misura a questi sottoposta (vedi S. Solazzi, “Errore e rappresentanza” in RISG, 1911, ora in Id., Scritti di diritto romano, I, Napoli 1955 ripreso da R. Quadrato, “Rappresentanza. Diritto romano” in EdD, XXXVIII, Milano 1987).

 

[106] Seppure “ripulito”! Si attribuisce a Bernhard Windscheid la affermazione che «Man hat nur die Wahl, ob man gereinigtes römisches Recht haben will, oder ungereinigtes, nicht aber, ob man römisches Recht haben will oder kein römisches Recht. Diese Reinigung aber mit dem römischen Recht vorzunehmen, ist die Aufgabe der Juristen; es ist eine wissenschaftliche Arbeit.» (S. Fernandes Fortunato, “Vom römisch-gemeinen Recht zum Bürgerlichen Gesetzbuch” in ZJS – Zeitschrift für das juristische Studium, 4, 2009, 332, nt. 65, dove rinvia a W. Wilhelm, “Das Recht im römischen Recht” in F. Wieacker, Ch. Wollschläger, Hg., Jherings Erbe, Göttingen 1970, 228).

 

[107] Vedi, supra, nt. 15.

M. Graziadei - R. Sacco, “Sostituzione e rappresentanza”, cit., 618 «La pandettistica tedesca staccò il lato esterno del mandato per farne una figura (nuova ed) autonoma: la procura. La procura diventa allora il correlato della “rappresentanza”, in virtù della quale l’atto di gestione produce immediatamente effetto nella sfera del rappresentato. La rappresentanza comporta, in correlazione con la procura, la “spendita del nome” del rappresentato».

 

[108] O, almeno, deve fare il “giurista di mestiere” sulla cui ‘figura’, vedi S. Bauzon, Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Milano 2001.

 

[109] Cic. Flacc., 16 Graecorum autem totae res publicae sedentis contionis temeritate administrantur. Secondo J. Rouvier, “La République romaine et la Démocratie” in Varia. Etudes de Droit romain, IV, Paris 1961, 155-281, in part. 160-164, manca, presso i Greci, la nozione romana di ‘magistrato’ (cfr. Id., Du pouvoir dans la République romaine. Réalité et Légitimité. Étude sur le “consensus”, Paris 1963; Id., Les grandes idées politiques de Jean-Jacques Rousseau à nos jours, Paris 1973).

Cfr. P. Bastid, “Rousseau et la théorie des formes de gouvernement” in Aa.Vv., Études sur le Contrat social de Jean-Jacques Rousseau, Paris 1964, 316: «La grande originalité du Contrat social c’est la séparation définitive de l’Etat (au sens courant du mot) et du gouvernement. Le sens de chacune de ces deux notions s’est métamorphosé».

 

[110] Come scrive Hans Kelsen, a conclusione del suo saggio sulla democrazia (Vom Wesen und Wert der Demokratie, cit.): «Pilatus […] – als Römer – gewohnt ist demokratisch zu denken».