Sul rapporto fra devotio e religio nella Roma repubblicana: indagine storico-religiosa

 

LEONARDo SACCO

Sapienza Università di Roma

 

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ABSTRACT: Nella Roma d’età repubblicana, secondo l’opinione di Dario Sabbatucci (1923-2002), la religione e la politica costituivano due realtà interconnesse e mediate da un rilevante senso civico. Il “sistema giuridico-religioso romano”, così definito da Pierangelo Catalano, trovava la sua ragion d’essere nella cura della civitas, attraverso una serie di riti e vota, caratterizzati da un rigido formalismo, propedeutici ad assicurarsi la benevolentia (pax) deorum. Si trattava, a parere di Raffaele Pettazzoni (1883-1959), di una “religione” incline, per certi versi, al “sacrificio”, nella quale la salvezza del singolo passava in secondo piano rispetto alla salvezza dello Stato. A tale riguardo, il ritus della devotio – in cui un comandante militare, se gli esiti della battaglia volgevano al peggio, poteva offrire alle potenze extra-umane la sua vita e quelle dei suoi nemici, recitando una formula elaborata dai sacerdotes, per avere in cambio la vittoria (Liv. VIII.9.4-8) – sembrerebbe essere la fattispecie dove parrebbero maggiormente riconoscibili gli elementi basilari della c.d. Romana religio. Ci riferiamo, in particolare, alla solennità degli atti, all’inflessibile registro di posizioni e gesti, agli aspetti negoziali (do ut des) e all’assoluta adesione (“devozione”, appunto) ai principi della res publica, che si spingevano fino al pro patria mori di oraziana memoria (Carmina III.2.13). Il condizionale è, però, d’obbligo poiché sono diversi, in verità, gli istituti che potrebbero vantare peculiarità analoghe, giacché ogni ritus produceva i suoi effetti nel preciso contesto nel quale, e per il quale, veniva celebrato. In virtù di ciò, questo contributo non parte da una premessa o da un assunto, come qualcuno potrebbe erroneamente ritenere. Il saggio origina, al contrario, da alcuni quesiti che, qui, s’intendono problematizzare in una prospettiva storico-religiosa. Esisteva, a Roma, una cerimonia dove emergeva, con evidenza notevole, che l’azione umana avesse luogo in totale sintonia con il volere divino? La devotio – malgrado siano noti solo tre casi del ritus e solo del secondo possediamo una nutrita documentazione storica – potrebbe rappresentare il meccanismo più intimamente connesso all’idea che i Romani avevano della propria religio? I risultati di questa indagine costituiscono l’oggetto del presente lavoro. Da un punto di vista metodologico, l’ausilio delle fonti ha avuto un peso dirimente, poiché le argomentazioni proposte sono state filtrate attraverso l’analisi critica delle opere degli autori classici ed eventualmente integrate dall’esame ragionato della letteratura secondaria di area.

 

 

Il complesso religioso romano, al pari di ogni altro prodotto culturale, è identificato sostanzialmente da alcuni fattori cardine: il suo background, gli influssi dell’ambiente in cui è sorto e si è sviluppato e i vari momenti storici che hanno contribuito a farne un impianto suscettibile, teoricamente, di ampliamenti organici[1]. Le sfere d’interesse, come nella maggior parte dei politeismi arcaici, erano il ciclo agrario, tutto ciò che ruotava intorno ai concetti di vita e di morte, i ricorsi cosmici, l’attività bellica e, con un accento specificamente autoctono, l’esistenza e la tutela della comunità:

 

Roman religion […] concerned itself with the city of Rome. This statement […] express two fundamental features of Roman religion: that the Roman religious system concerned itself primarily with the health of the Roman community, and that it was a religion of place[2].

 

L’autonomia della civiltà romana si manifesta, per la prima volta, a livello politico, con l’espulsione di una dinastia regnante etrusca e con la proclamazione della res publica (509 a.C.):

 

Neque ambigitur quin Brutus idem qui tantum gloriae superbo exacto rege meruit pessimo publico id facturus fuerit, si libertatis immaturae cupidine priorum regum alicui regnum extorsisset. Quid enim futurum fuit, si illa pastorum conuenarumque plebs, transfuga ex suis populis, sub tutela inuiolati templi aut libertatem aut certe impunitatem adepta, soluta regio metu agitari coepta esset tribuniciis procellis, et in aliena urbe cum patribus serere certamina, priusquam pignera coniugum ac liberorum caritasque ipsius soli, cui longo tempore adsuescitur, animos eorum consociasset? Dissipatae res nondum adultae discordia forent, quas fouit tranquilla moderatio imperii eoque nutriendo perduxit ut bonam frugem libertatis maturis iam uiribus ferre possent[3].

 

Est igitur, inquit Africanus, res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecillitas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio; non est enim singulare nec solivagum genus hoc, sed ita generatum, ut ne in omnium quidem rerum affluentia[4].

 

Lo Stato, come tale (il populus Romanus), era amministrato dal senatus e dai suoi magistratus (secondo la locuzione latina SPQR), laddove i sacerdotes avevano la funzione di esperti regolatori della vita sacrale e sovrintendevano alle attività cultuali, fornendo ai cives le prescrizioni rituali[5]. La religione romana appare essenzialmente pragmatica, formale e ampiamente intrisa di elementi civici[6]. I Romani non miravano ad ottenere il controllo della sfera divina, poiché uomini e dèi – benché su piani differenti – coabitavano nello stesso mondo:

 

 

Una civitas communis deorum atque hominum[7].

 

Mundum autem censent regi numine deorum, eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et deorum, et unum quemque nostrum eius mundi esse partem[8].

 

In un siffatto scenario era indispensabile che mai s’incrinasse il “reciproco legame d’amicizia” (pax deorum). Per tentare di comprendere le peculiarità della religione politeista romana appare di basilare importanza cogliere il senso della pax deorum. Francesco Sini, in proposito, ha rileva che:

 

La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora sia loca) – rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra uomini e dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum. La conservazione della pax deorum richiedeva una perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere pronunciate […]. I sacerdoti romani postularono, dunque, fin dalle prime attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs Roma con il culto degli dèi e della vita del Popolo romano con la sua religio; al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione politeista, la pax deorum («pace degli dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli dèi»)[9].

 

Nel contesto, le parole di Cicerone a proposito della salus rei publicae aiutano a capire meglio il concetto:

 

Quae cum ita sint, primum, quod in tanta dimicatione capitis, famae fortunarumque omnium fieri necesse est, ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto precorque ab eis ut hodiernum diem et ad huius salutem conservandam et ad rem publicam constituendam inluxisse patiantur. Deinde vos, Quirites, quorum potestas proxime ad deorum immortalium numen accedit, oro atque obsecro, quoniam uno tempore vita C. Rabiri, hominis miserrimi atque innocentissimi, salus rei publicae vestris manibus suffragiisque permittitur, adhibeatis in hominis fortunis misericordiam, in rei publicae salute sapientiam quam soletis[10].

 

Altrettanto rilevanti, nel merito, sembrano le delucidazioni di alcuni studiosi:

 

Pax deorum (peace of the gods) denotes the central goal of Roman State religion: a mutually beneficial state of peace between Rome and its deities, with the gods safeguarding Rome’s public welfare (salus publica)[11].

 

Peace with the gods and peace among the citizens, pax deum and concordia, form two pillars on which the imperium of Rome is built[12].

 

The Romans focused on maintaining the pax deorum through performance of rituals at specific points in the year and in their lives. By giving the gods the honor due to them they believed that they preserved this ancient tradition, and they would be saved from bad harvests, disease, and childlessness […]. Sacrifices were offered to maintain the peace of the gods (pax deorum), a treaty with the gods to avert their wrath[13].

 

Gli homines desideravano conformarsi alla voluntas deorum, e attenervisi, in relazione a determinati impulsi e, in una tale prospettiva, la concezione trovava la sua ragion d’essere nella formula do ut des[14]. Le divinità, infatti, come sappiamo dalle fonti, non erano invocate sulla base di legami affettivi, ma si dava loro qualcosa; si offriva un cultus, un’offerta primiziale, una preghiera, un piaculum, un votum, in cambio dell’aiuto richiesto come, ad esempio, enunciato da Plauto e illustrato dagli studiosi Margaret A. Brucia e Gregory N. Daugherty:

 

Apollo, quaeso te ut des pacem propitius, salutem et sanitatem nostrae familiae[15].

 

Romans felt obliged to acknowledge their debt to the gods – to show their appreciation to them in good times and to placate them in bad. The Roman attitude towards religion can be summed up with the Latin words do ut des («I give so that you give»). For the Romans, religion was a give-and-take arrangement, a bargain, a deal[16].

 

Nel rendere onore agli dèi si attuava la iustitia, poiché iustus (e pius) era chi onorava le potenze extra-umane, in una specie di pactum:

 

Cuando los hombres han cumplido sus deberes de iustitia adversus deos, existe la pax deorum, es decir, el estado de pietas del pueblo romano. Esta pietas es un estado colectivo, sujeto a la entera comunidad. En este sentido, se puede hablar de solidaridad de grupo[17],

 

con le sue austere prerogative custodite e tramandate dal mos maiorum:

 

Mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum[18].

 

La religione romana è stata definita da Jesse Benedict Carter (1872-1917):

 

The establishment of a definite legal status between the gods and man, and the scrupulous observance of those things involved in the contractual relation, into which man entered with the gods[19],

 

laddove Robert Schilling (1913-2004) ha precisato che:

 

When the Roman pledged himself to the deity, he would have recourse to precise stipulations […]. This contractual approach […] expressed a concern for establishing an irreproachable contract between men and gods[20].

 

La necessità di provare a interpretare i segni celesti con riguardo a un dato progetto era indispensabile se la questione coinvolgeva l’intera civitas: per esempio, nel caso di un bellum che avrebbe potuto causare notevole disagio alla collettività[21]. Affiora, in questo modus agendi, un’indole della religione romana che potremmo definire “istituzionale” nella quale ciascuno, nel rispetto dei ruoli, agiva per il bonum commune[22].

Come ha osservato acutamente lo storico delle religioni italiano Raffaele Pettazzoni (1883-1959), ispirandosi – forse – ai versi di Orazio:

 

Dulce et decorum est pro patria mori[23],

 

la religione romana:

 

non era una religione dell’uomo come individuo e della sua salvazione in un altro mondo, bensì dell’uomo associato nella comunità familiare, gentilizia, civica […]. Gli dèi sono in primo luogo dèi dello Stato, cioè [di Roma] e del popolo romano[24].

 

Alla luce di quanto esposto, esisteva una cerimonia nella quale emergeva, con vigore, come l’azione umana si manifestasse in totale sintonia con il volere divino? Il ritus della devotio – in cui un comandante militare, se gli esiti della battaglia volgevano al peggio, poteva offrire alle divinità e alle potenze ctonie la sua vita e quelle dei suoi nemici, recitando una formula elaborata dai sacerdotes, per avere in cambio la vittoria – potrebbe rappresentare il meccanismo più intimamente connesso all’idea che i Romani avevano della propria religio[25]?

Come è noto, sono diversi gli istituti in grado di vantare simili peculiarità, giacché ogni ritus generava i suoi effetti nel contesto nel quale, e per il quale, veniva celebrato. Tuttavia, la solennità degli atti, l’inflessibile registro gestuale-posturale, gli aspetti negoziali (do ut des) e l’assoluta adesione (“devozione”, appunto) ai principi della res publica, che si spingevano fino al pro patria mori, di oraziana memoria (Carmina III.2.13), che si riscontrano nelle devotiones Deciorum pongono – come si suol dire – un tema che merita quanto meno di essere discusso. In virtù di ciò, questo contributo non parte da una premessa o da un assunto, come qualcuno potrebbe erroneamente ritenere. Il saggio origina, al contrario, da alcuni quesiti che, qui, s’intendono problematizzare in una prospettiva storico-religiosa. Da un punto di vista metodologico, l’ausilio delle fonti è stato decisivo, poiché le argomentazioni proposte sono state distillate attraverso l’analisi critica delle fonti e, poi, eventualmente integrata dall’esame ragionato della letteratura secondaria di area.

Nella devotio, un magistratus provvisto di imperium militiae (un consul, un dux e/o un praetor) – oppure un civis designatus, da lui scelto tra i milites dell’exercitus sul terreno di battaglia – indossata e annodata la toga praetexta alla maniera Gabina, con il capo velato, toccandosi il mento con una mano fatta uscire da sotto la veste e in piedi su un telum[26], dopo essersi votato agli “dèi superi” (Ianus, Iuppiter, Mars pater…), agli “spiriti degli antenati” (Lares), alle “divinità più vetuste” (Indigetes), ai “nuovi dèi” (Novensiles), agli “dèi inferi” (Manes) e alla “Terra” (Tellus mater), e aver chiesto di gettare paura, terrore e morte fra i nemici del popolo romano dei Quiriti, recitando attentamente una formula predisposta dalla sapientia pontificale[27], si scagliava rapidamente tra le falangi nemiche, per farsi trucidare, con il molteplice scopo di rinvigorire lo spirito combattivo dei legionari, di assicurare il successo alla propria parte e – contestualmente – di sottrarre alla disfatta l’integrità dello Stato[28]. Si trattava di un istituto rituale e votivo assai peculiare che divergeva dal votum in senso stretto poiché, mentre in questo l’obbligo umano era subordinato all’esaudimento della preghiera da parte della divinità, nella devotio l’“auto-sacrificio” precedeva e sollecitava l’intervento celeste[29]. Il ritus era fondato sull’“intesa” fra uomini e dèi, tesa a ripristinare e/o a mantenere la pax deorum: un actus profondamente sentito, dunque, reso alle forze extra-umane per conseguire – in una sorta di “scambio” (do ut des) – protezione e floridezza[30].

Non è affatto agevole scrivere, elaborare e risolvere un’equazione morfologica del tipo “devotio archetipo della religio”, poiché la religione romana era un sistema giuridico-religioso e non una mera congerie di gesti e parole accuratamente scandite[31]. Le difficoltà si presentano immediatamente allorché si voglia provare a schematizzare, anche lato sensu, i confini lessicali dell’espressione “religio” e trasporli tout court nel quadro romano, per la carenza di lavori significativi che analizzino in toto il suo patrimonio cultu(r)ale[32]. È possibile, tuttavia, far emergere alcuni princìpi centrali per la tematica che s’intende discutere.

Il culto politeista era concepito alla stregua di un dovere collettivo nel quale la dimensione orizzontale assumeva un’importanza preponderante[33]. Tutte le relazioni transitavano attraverso una “mediazione civica”[34] e, di conseguenza, l’ortoprassia era adottata quale forma regolatrice della vita quotidiana[35]. I Romani non afferravano l’istantaneità dei rapporti fra individui e divinità e ritenevano che bastasse una rigida deferenza nelle pratiche religiose per suscitarne la generosità e la clemenza: tutto era codificato dalle “antiche usanze” (mores e traditiones), che fornivano il “modello comportamentale” (institutum vitae), sebbene le “regole” fossero più exempla che praescriptiones[36]. Gli dèi erano visti come destinatari di vota, preghiere e piacula[37], eseguiti minuziosamente, affinché non s’interrompesse mai il regime di alleanza tra sfera umana e sfera divina, basilare per l’esistenza stessa del populus Romanus Quirites[38]. Uno dei baluardi sui quali si reggeva un apparato di tal guisa era costituito dalla nozione di utilitas che – secondo Cicerone – si rifletteva nel contesto pubblico, come espressione popolare della civitas:

 

Res publica est res populi. Populus autem est coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus[39].

 

Ut enim leges omnium salutem singulorum saluti anteponunt, sic vir bonus et sapiens et legibus parens et civilis officii non ignarus utilitati omnium plus quam unius alicuius aut suae consulit. Nec magis est vituperandus proditor patriae quam communis utilitatis aut salutis desertor propter suam utilitatem aut salutem[40].

 

La mancanza di un retaggio mitologico, come nel caso della Grecia classica, etichetta l’esperienza religiosa romana nelle sue peculiarità legalistiche e ritualistiche[41]. Questa circostanza si delinea specialmente nella definizione di un assiduo bilanciamento fra i settori inferiore (umano) e superiore (divino)[42]. La proporzione si concretizzava secondo modelli prettamente negoziali, creandosi, in tal modo, una trama di occasioni, religiosamente significative, che proteggeva la res publica, tenuta a sollecitare costantemente, mediante gli adempimenti cultuali, la concessione di quanto chiesto dovendo, simultaneamente, vigilare affinché vi fosse una persistente sanatoria delle possibili fratture che avrebbero potuto verificarsi tra le parti, provocando l’ira deorum.

 

The primary purpose of the public religious system was to protect and enhance the community of the Romans […]. The welfare of the city and its inhabitants was ensured by a series of rituals by which the Romans attempted to secure the goodwill of the gods, and the primary role of the religious authorities in Rome was to ensure that these rituals were performed in the proper way[43].

 

È arduo dire se gli aspetti menzionati non vadano considerati, a loro volta, solo la conseguenza della rimozione di una risalente produzione mitica, come supposto da Georges Dumézil (1898-1986)[44], ma è ammissibile pensare a riti e a miti quali elementi dinamici di uno stesso circuito mentale – piuttosto che a un transito irreversibile dal mythus al ritus e/o viceversa[45] – riconducibile a un medesimo prototipo di religiosità primaria nel quale avrebbero preso corpo le forme originarie del “sacro”, si sarebbero fissate le tradizioni cultuali, organizzato lo spazio fisico, instaurata una temporalità storica, delineato un canovaccio di vita comunitaria[46]. Nell’arcaicità romana, l’attinenza tra rappresentazione mitica ed elaborazione rituale si sbilanciò dal lato della convenzione e del ritus che veniva acquistando, sempre più, un irresistibile potere vincolante[47] e, per l’appunto, il termine religio appare connesso, secondo Cicerone, proprio alla dedizione nell’attuare completamente tutto quel che appartiene al piano ultra-terreno:

 

Qui autem omnia quae ad cultum deorum pertinerent, diligenter retractarent et tamquam relegerent, sunt dicti religiosi[48].

 

Il tratto etimologico proprio dei termini latini religiosi e religio può contribuire a circoscrivere ancora meglio il campo[49], fornendo un’interpretazione della religione che, nelle parole dell’Oratore di Arpino, si mostra chiara e oggettiva:

 

Religio est, quae superioris naturae, quam divinam vocant, curam caerimoniamque effert[50].

 

Cura, dunque, nell’esecuzione delle cerimonie officiate agli dèi. Se ne desume – nella riflessione di Giovanni Casadio – che:

 

La religio Romana è concepita come l’opposto della neglegentia nei rapporti verso gli dèi[51].

 

D’altro canto, stando alla precisazione di Waldo Earle Sweet (1912-1992):

 

The important thing for a Roman was not to love a god (or the gods) but to participate in the rituals […]. Religion was a contract between man and god: “do ut des”, as the old business formula had it. If one knew the formula and performed the ritual properly, the god was obligated to fulfill the request[52].

 

Varie lingue occidentali fanno uso di un lemma che deriva dal latino religio[53]. Comprensibilmente, la continuità filologica non deve indurre a supporre anche una continuità semantica[54]. La voce religio, nella sua poliedricità, non corrisponde in toto alla nostra voce “religione”, come testimoniano alcuni esempi che, qui di seguito, indichiamo:

a) dopo che il console Decius Mus ha recitato l’antichissima formula della devotio e si è lanciato al galoppo tra le falangi nemiche, gettandovi lo scompiglio, i Romani exsolutis religione animis (liberato l’animo dal timore religioso), velut tum primum signo dato coorti pugnam integram ediderunt[55];

b) religiosi erano considerati i giorni in cui era vietato fare quanto non fosse stato indispensabile, come i trentasei dies atri, l’Alliensis e quelli in cui mundus patet (cioè, rispettivamente, i giorni successivi a Kalendae, Nonae e Idus di ogni mese; l’anniversario della terribile sconfitta subita il 18 luglio 390 a.C. contro i Galli; il 24 agosto, il 5 ottobre, l’8 novembre)[56].

Adempimento zelante di interdizioni e divieti, estrema meticolosità rituale, inquietudine angosciosa dinanzi alla possibilità d’infrangere la norma sacrale[57]. Più avanti, si intenderà il vocabolo religio come “nesso” (da religare: “legare”; “obbligare”)[58] che pone l’individuo al cospetto delle proprie divinità[59]:

 

Religentem esse oportet, religiosus nefas[60].

 

La religio si rivela come un insieme di rapporti che mettono in relazione l’uomo con i suoi dèi, impiegando le inequivocabili nozioni di timore e di scrupolo – et arctis religionum animum nodis exsolvere pergo[61] – come ben spiegano le parole di Sweet:

 

Roman religion is in its essence a matter of cult acts. These acts, whether of the household, or the gens, or the State, are thought of in a juristic way as obligations incumbent on an heir or on the people, or as contractual dealings in which the human party, if he fulfils his obligations, may look to the divine party to do its share, in which moreover, the human party takes legal precautions to prevent the invalidation of what he does. In such a religion, therefore, neither faith nor good works counted for anything; the ritual, the formula, the carrying on of traditional obligations was all[62].

 

Questo ritratto, comprovato dall’intransigente conformità ai legami giuridico-religiosi per acquisire il favor deorum, si mostra nel termine pietas, che implica il perfezionamento di quanto dovuto agli dèi:

 

Est enim pietas iustitia adversum deos[63].

 

A fondare la pietas è la persuasione di una interdipendenza ineluttabile tra il cielo e la terra, donde appunto il bisogno di assicurarsi (attraverso contegni adeguati) la pax veniaque deum, che porterà Cicerone ad affermare:

 

Pietate ac religione atque una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnes gentes nationesque superavimus[64]. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores[65].

 

Dunque:

 

Piety meant the faithful observation of ritual duty because the life of the individual, as well as the community as a whole, was permeated by divine powers[66].

 

Lo scrupolo religioso, in tal senso, non è più fatto di timore, ma è impegno concreto nell’esattezza del dovere compiuto[67]. Senza l’amicitia deorum, l’homo Romanus è smarrito: per questo, esprimerà il desiderio di serbare e difendere questa condizione positiva mediante un culto diligente e meticoloso. In qualità di civis, sarà attento nello scrutare i segni divini e se, per sventura, gli dèi dovessero mostrare la propria collera, non avrà tregua finché non abbia restaurato la consonanza[68]. Così, durante la battaglia, quando il generale romano vota ritualmente la propria persona insieme con l’esercito nemico, secondo la procedura della devotio (Liv. VIII.9.6-8), egli rivolge un’incalzante istanza alle divinità e si rimette intenzionalmente alla loro discrezione, senza preoccuparsi di clausole restrittive[69]. Chiarissime, in tal senso, appaiono le parole di Cicerone:

 

Esto, fecerit, si ita vis, Torquatus propter suas utilitates — malo enim dicere quam voluptates, in tanto praesertim viro —, num etiam eius collega P. Decius, princeps in ea familia consulatus, cum se devoverat et equo admisso in mediam aciem Latinorum irruebat, aliquid de voluptatibus suis cogitabat? Ubi ut eam caperet aut quando? Cum sciret confestim esse moriendum eamque mortem ardentiore studio peteret, quam Epicurus voluptatem petendam putat. Quod quidem eius factum nisi esset iure laudatum, non esset imitatus quarto consulatu suo filius, neque porro ex eo natus cum Pyrrho bellum gerens consul cecidisset in proelio seque e continenti genere tertiam victimam rei publicae praebuisset[70].

 

Abbiamo vari esempi sulla correlazione indissociabile fra pietas e religio:

 

L’Eneide, in particolare, ci fornisce una testimonianza della loro stretta relazione[71]. Come nota Boyancé, lo scrupolo con cui Enea compie i suoi atti rituali, che ne fa di volta in volta il prototipo del pontefice, del flamine o dell’augure, non è puramente esteriore e formale: non è quello del “mago che crede con le sue parole di incantare le potenze soprannaturali e di dirigerle dove vuole”[72]. Questo scrupolo, questa religio, implica l’interiore convincimento di conformarsi alla volontà degli dèi e di fare ciò che a loro piace, implica cioè la pietas, che dunque appare come la motivazione interna della religio[73].

La pietas di cui si parla (che non esistette come nozione a sé stante almeno fino all’età imperiale) si rapportava inscindibilmente con altre due qualità notoriamente romane: la fides e la virtus, formando una sorta di “triade” o, impropriamente, “trinità”, con una definita quanto eterogenea semasiologia, concretizzata nella disciplina, nell’onore, nello scrupolo cultuale e nell’osservanza della pax deorum. Poiché res publica e religio costituivano, nel contesto romano, entità inseparabili, il civis Romanus – attraverso la pietas – mostrava la propria “devotio” alla res publica: un peculiare “attaccamento” che, oggi, potremmo definire con il termine moderno “patriottismo”[74]. In tal senso, nondimeno, può essere letta l’espressione patriae filius, come fa notare Cicerone nella sua prima orazione contro Catilina, quando scrive che:

 

Patria quae communis est parens omnium nostrum[75].

 

In questa prospettiva, Virgilio dipinge la figura di Aeneas come il proto-eroe (dal quale Decius Mus erediterà le virtù) che s’inchina al volere divino. Ecco, allora, che la pietas poteva essere realizzata solo mediante la corretta esecuzione dei propri doveri rituali[76].

 

Siamo innanzi a una cultura religiosa tutta rivolta all’experientia, ossia alla “vita pratica”[77]:

 

Maiores religionem totam in experientia collocabant[78].

 

La qualifica di religiosissimi, attribuita agli antichi da Sallustio:

 

Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malevolentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventutem luxuria atque avaritia cum superbia inuasere: repere consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi neque moderati habere. Operae pretium est, cum domos atque villas cognoueris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissimi mortales, fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant. At hi contra, ignavissimi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae fortissimi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum esset imperio uti[79],

 

va perciò intesa in tale direzione[80]. La religio si esplica nella capacità di saper co-gestire lo spazio condiviso da homines e dei, rifuggendo da futili emozioni che avrebbero potuto turbare quell’ambito, e che appaiono essenzialmente irreligiose[81]. In epoca repubblicana, la religione romana può essere definita: “religio della res publica[82]:

 

Cum multa divinitus, pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae reipublicae praeesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene gerendo religiones, religionibus sapienter interpretando rem publicam conservarent[83].

 

Si parla di un composito insieme di prassi che rivela una sua imago[84]. Questa religione appare collettiva e, quindi, partecipata[85]: in pubblico, i più importanti atti di culto agli dèi non sono eseguiti, de facto et de iure, da un singolo individuo bensì da un gruppo coeso e i luoghi prediletti di tale aggregazione sono la familia, la gens, l’exercitus, e la res publica, salvo il caso in cui un civis rappresenti l’intera civitas come, ad esempio, un magistratus cum imperio nella devotio[86]. L’indole collegiale della religione romana è chiarita sufficientemente da un passo di Livio; durante la pestilenza del 461 a.C., quando l’uomo non ha più rimedi per contrastare il male e non resta altro che affidarsi alle determinazioni divine, la res publica obbliga i cives alla preghiera:

 

Inopsque senatus auxilii humani ad deos populum ac vota vertit: iussi cum coniugibus ac liberis supplicatum ire pacemque exposcere deum[87].

 

La storica dell’antichità Anna Clark ha osservato che:

 

Public religion was not a separate sphere of Roman society: it might in fact usefully be conceived of as the register, permeating public life, that determined the tone of certain elements of the vocabularies of that public life, broadly understood. It thereby granted those elements a peculiarly intense explanatory force, a particular resonance in explaining and ordering the world[88].

 

I Romani non “credevano”, nel senso fideistico che – attualmente – conferiamo a tale forma verbale[89], ma “si affidavano” alla forza del ritus e la res publica rappresentava il nesso fra l’individuo e la divinità[90].

 

For the gods to grant victory, peace, and prosperity to the Roman State, the Romans had to render them proper care through sacrifice and pious devotion[91].

 

La religione romana, nel periodo repubblicano, si manifesta, perciò, nei suoi caratteri di religione votata al “sacrificio”, ma un “sacrificio per il bene comune”, come argutamente sottolineato da Cicerone in un paio di brani[92]:

 

At vero apud maiores tanta religionis vis fuit, ut quidam imperatores etiam se ipsos dis inmortalibus capite velato verbis certis pro re publica devoverent[93].

 

Ut laudandus is sit, qui mortem oppetat pro re publica, quod deceat cariorem nobis esse patriam quam nosmet ipsos[94].

 

La salvezza del singolo – scriveva Pettazzoni – passa (allora) in secondo piano: è subordinata e implicita nella salvezza della [collettività]. Per questa [comunità] l’individuo deve sacrificarsi[95]. Determinanti – a tale riguardo – le constatazioni di Dario Sabbatucci e Adrian Goldsworthy:

 

Avere per religione la religione romana […] equivaleva ad essere cittadini romani […]. Ciò […] significa che essi intendevano con la propria religione sorreggere uno Stato romano nel quale trovavano, anche da un punto di vista religioso, una “salvezza” collettiva e (al contempo) individuale[96].

 

[The Romans] were led by a fierce patriotism to sacrifice themselves for the State[97].

 

Al termine di questo percorso ermeneutico, possiamo provare ad intendere l’accezione della devotio con riferimento alla religio.

L’“archetipo” sembra costituito da quei “talenti” irrinunciabili ai quali la res publica si affidava per tramandare il profilo di un populus trionfatore. Ecco, allora, che i Decii, per la nobiltà dell’impresa, diventano i campioni dell’unus pro omnibus[98], i sostenitori della custodia di qualità morali imprescindibili: patria, maiestas, ius, pietas, iustitia, fides, gravitas, virtus[99], espressi fino all’“auto-immolazione” – dando talvolta la sensazione di trovarsi di fronte a una forma di “suicidio” ritualizzato o di un “sacrificio umano”[100]. Qualità che sarebbero state consegnate, nel prospetto liviano, a futura memoria[101], designando viri e cives, essenzialmente iusti, quanti avessero posto a propria lex suprema il bonum commune della res publica, nel momento in cui riabilitava un equilibrium temporaneamente perduto[102]. D’altra parte, appellata est enim ex viro virtus[103].

 

The sacrifice [of the Decii] was the purest form of religious, familial, personal, and martial offering to the Roman state[104].

 

Nella sua esposizione, lo storico Tito Livio trattando le notizie, secondo una gerarchia di ideali essenzialmente romani, dava un forte accento autoctono: civico, patriottico e religioso, alle gesta deciane restituendo entusiasmo a un retroterra di reminiscenze passate che avrebbe dovuto puntellare l’avvenire di Roma[105]:

 

Haec etsi omnis divini humanique moris memoria abolevit, nova peregrinaque omnia priscis ac patriis preferendo, haud ab re duxi verbis quoque ipsis, ut tradita nuncupataque sunt, referre[106].

 

Il quadro culturale romano ne risultava notevolmente irrobustito, a riprova, si direbbe, delle parole enunciate da Georges Dumézil, secondo il quale presso i Romani:

 

La mitologia pur essendo stata radicalmente eliminata a livello di teologia ha prosperato comunque sotto forma di storia[107].

 

Quei lineamenti che, in altre civiltà, erano stati propri di eventi connessi al “sacro”, si ritrovavano correlati a figure umane assimilate a dèi e/o ad eroi: a rigore, secondo lo studioso francese, non si voleva acriticamente affermare che i Romani fossero privi di una mitologia, quanto di individuarne il “campo ideologico” che, nel loro caso, sarebbe stato propriamente storico[108]. Anziché una tendenza, il filologo transalpino riconobbe alcuni basilari champs idéologiques nei quali poteva essere collocata storicamente ciascuna cultura indoeuropea, nell’ambito di una medesima filosofia soggiacente, che si esprimeva nel noto “orientamento trifunzionale” (sovranità, forza guerriera, fertilità-produttività) variamente suddiviso[109]. I miti, secondo questa ricostruzione, si sarebbero storicizzati in frangenti e personaggi della tradizione patria come, ad esempio, la vicenda di Romolo e quella di Orazio Coclite[110]. Dumézil non guardò alla demitizzazione come processo storico coinvolgente il culto divino, né quindi considerò la storificazione dei miti come variabile parallela alla ritualizzazione[111]: egli notò, invece, come, in luogo del mito (sistema narrativo concernente gli dèi), Roma privilegiasse l’epopea (sistema narrativo concernente fatti umani situati agli albori dell’Urbs), mantenendo – altresì – gli héritages di complessi mitici indoeuropei[112].

I Decii, nel nobile dramma compiuto e celebrato nella devotio, ben rientravano in questa epopea delle virtù nazionali(stiche): d’altronde, il tono epico e la struttura narrativa conferiti all’esposizione delle “formule arcaiche” (carmina) accennano ai rapporti fra historia ed epos, nonché fra carmen ed epos[113]. Livio aveva potuto rinvenire il tema della devotio non soltanto negli annalisti, ma anche presso autori come Nevio, Ennio e Accio[114]: quest’ultimo, in particolare, aveva elaborato una praetexta: l’Aeneadae sive Decius, di cui si conservano solo pochi frammenti, nella quale riportava le gesta eroiche di Publio Decio Mure nella battaglia di Sentinum (295 a.C.)[115]. L’incontro di Livio con l’epopea è da considerarsi come un’esigenza della sua metodologia narrativa e della sua propensione verso la storia[116].

La devotio, vero e proprio topos, marcato da un’atmosfera che si presenta nel contempo passionale e maestosa, innesto di pragmatica religio e spirito di sacra facere, si configura quale prodotto culturale tipicamente romano. La raffigurazione di Decio, come uno degli Aeneadae nella praetexta di Accio (Aeneadae sive Decius), fa presumere un’analogia nella maniera in cui Enea e Decio affrontarono la morte: entrambi furono annientati dalle compatte falangi nemiche mentre cercavano di aprirsi un varco e i loro corpi furono coperti sotto quelli dei caduti. E come il corpo di Enea spariva completamente alla vista, tanto che si riteneva che il prode guerriero fosse divenuto un dio[117], così i corpi dei Decii furono recuperati dopo molto tempo che gli stessi milites ritennero che la loro scomparsa fosse dovuta ad un’apoteosi simile a quella di Enea[118].

I cives Romani concepivano la res publica come il “luogo” dove convivevano l’“umano” e il “divino”, hic et nunc. Insieme, essi – in ambiti diversi ma complementari – partecipavano alla medesima “esistenza” e tendevano al bonum commune:

 

Omnino qui rei publicae praefuturi sunt duo Platonis praecepta teneant: unum, ut utilitatem civium sic tueantur, ut quaecumque agunt, ad eam referant obliti commodorum suorum, alterum, ut totum corpus rei publicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant. Ut enim tutela, sic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem, qui commissi sunt, non ad eorum, quibus commissa est, gerenda est. Qui autem parti civium consulunt, partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionem atque discordiam; ex quo evenit, ut alii populares, alii studiosi optimi cuiusque videantur, pauci universorum[119].

 

E il devovens/devotus – nello stesso tempo civis e miles – non era, forse, un magistratus cum imperio che rappresentava la res publica, res populi in guerra[120] e, come tale, doveva custodire le virtù sociali, politiche e religiose della civitas[121], essendo i Romani – non a caso – il “popolo più pio del mondo”?

 

Deinde, si quid habui oti, etiam cognovi multa homines doctos sapientisque et dixisse et scripta de deorum immortalium numine reliquisse; quae quamquam divinitus perscripta video, tamen eius modi sunt ut ea maiores nostri docuisse illos, non ab illis didicisse videantur. Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos esse non sentiat, et ea quae tanta mente fiunt ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus[122].

 

Agire in conformità alla voluntas divina è il modus primario per svelare le peculiarità della tecnica giuridico-religiosa elaborata dai sacerdotes Romani, anche per quel che riguarda le circostanze belliche[123]. Seguendo tale indirizzo, un requisito assai rilevante del magistratus cum imperio, durante le operazioni militari, consisteva nella “presa degli auspicia”, ovvero nella maestria di saper entrare in contatto con le divinità intendendone (e, per certi versi, precorrendone) i propositi:

 

The tradition of taking the auspices exemplifies the inextricable relationship between religion and politics: the gods’ will had to be sought before any public business was initiated, be it political or military[124],

 

in una sorta di soggezione – ricercata e tenacemente bramata in conformità alla pax deorum – che avrebbe condotto i Romani a prevalere nel mondo e a governarlo:

 

Dis te minorem quod geris, imperas / hinc omne principium, huc refer exitum[125].

 

La religio, in questa inconfondibile articolazione, riproduceva tutti i nessi formali che il mundus hominum intratteneva con il mundus deorum mediante i culti e i riti che erano, sempre, oggettivazione di una voluntas tangibile e utilitaristica, quella del populus Romanus in assoluta sintonia con la benevolentia deorum, come acutamente miniato da Riccardo Orestano (1909-1988):

 

In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall’assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste “forze” o “deità”, di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina[126].

 

Per tutte queste ragioni, la devotio, compiuta da un consul/dux/praetor con la supervisione di un pontifex maximus, espressioni ciascuno – insieme al senatus – delle massime autorità di Roma al servizio del populus[127] e contraddistinta da uno spiccato formalismo giuridico-religioso, che si estrinsecava:

- nella vigile osservanza delle prescrizioni dettate dalla sapientia sacerdotale (praei verba quibus me pro legionibus devoveam);

- nella precisione mimica e nelle attitudini comportamentali (Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem);

- nell’impegno, nell’operosità e nell’intransigenza adoperate per invocare gli dèi (Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque);

- nell’irriducibile senso di appartenenza allo Stato che si traspone, peraltro, nella richiesta di gettare sgomento fra i nemici (uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis);

- nell’intrepido sentimento di abnegazione, di offerta e dono per il bene comune che si palesa nel voto (ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo)[128];

- nel palpabile utilitarismo, esplicitato – fra l’altro – nel principio do ut des, che qualifica e contrattualizza il ritus nelle sue caratteristiche di rispetto, meticolosità e applicazione, ovvero nella tendenza a rivestire di una forma esteriore le azioni e, quindi, a conferire importanza non solamente all’intento come tale, ma al fatto che quegli atti fossero conformi a “procedure immutabili” (mos maiorum)[129], sembra rappresentare il “paradigma” della “religio” in epoca repubblicana[130].

La costituzione romana, come finemente chiarito dai testi di Cicerone, Livio e Sallustio, poneva l’accento sull’importanza fondante della virtus civilis[131]: si tratterebbe – d’altronde – di quella magnitudo animi che, scriverà Charles-Louis de Secondat (1689-1755), alias Montesquieu, in L’Esprit des Loix (1748), pare coerente e qualificante della res publica, come forma di governo[132]. Questa “virtù civile”, in uno Stato ben organizzato, imponeva a magistratus e cives:

 

«di saper avvertire non solo la differenza tra interessi privati e interesse comune o generale, ma anche la concorrenza, nelle varie situazioni, tra i primi e il secondo: essere virtuosi significava che, nel caso (frequente) di concorrenza, vi doveva essere la disposizione a sacrificare, se necessario, l’interesse personale a vantaggio dell’interesse pubblico»[133],

 

come accadeva – morfologicamente – nella devotio. Perciò, quando il console Decio Mure decide di rinunciare alla propria vita, agisce per un ideale etico di assoluta rilevanza: la difesa dei valori civi(ci), giuridici, politici, religiosi e sociali della res pubblica. Nel votare sé stesso e i suoi nemici alle potenze extra-umane, il condottiero desidera fortemente redimersi e salvare la societas che rappresenta[134].

 

 



 

[1] Non è agevole, data la vastità degli studi, redigere una bibliografia tematica completa: in questa nota, e ai nostri fini, pertanto, saranno indicati i soli contributi monografici imprescindibili, prodotti dalla letteratura di area negli ultimi cinque lustri sulla “religione romana”. Cfr. M. Beard, J. North, S. Price, Religions of Rome, Cambridge-New York 1998; J. Champeaux, La religion romaine, Paris 1998; E. Bispham, C. Smith, Religion in Archaic and Republican Rome and Italy: Evidence and Experience, Edinburgh 2000; J.A. North, Roman Religion, Oxford 2000; J. Rüpke, Die Religion der Römer: eine Einführung, München 2001; R.A. Adkins, L. Adkins, Dictionary of Roman Religion, Oxford 2001; E. Montanari, Categorie e forme nella storia delle religioni, Milano 2001; J. Scheid, La religion des Romains, Paris 2002; C. Ando (edited by), Roman Religion, Edinburgh 2003; J.P. Davies, Rome’s Religious History: Livy, Tacitus and Ammianus on Their Gods, Cambridge-New York 2004; V.M. Warrior, Roman Religion, Cambridge-New York 2006; J. Rives, Religion in the Roman Empire, Malden 2007; C. Santi, Sacra Facere: Aspetti della prassi ritualistica e divinatoria nel mondo romano, Roma 2008; O. Hekster, S. Schmidt-Hofner, C. Witschel (edited by), Ritual Dynamics and Religious Change in the Roman Empire. Proceedings of the Eight Workshop of the International Network Impact of Empire (Heidelberg, July 5-7, 2007), Leiden 2009; J. Rüpke (edited by), A Companion to Roman Religion, Malden-Oxford 2011; E. Fantham, E. Fairey, Roman Religion, Oxford 2011; G. Forsythe, Time in Roman Religion: One Thousand Years of Religious History, New York-London 2012; J. Scheid, Les dieux, l’Etat, et l’individu: Réflexions sur la religion civique à Rome, Paris 2013; D. MacRae, Legible Religion: Books, Gods, and Rituals in Roman Culture, Harvard 2016; J. Rüpke, Pantheon, München 2016; J. Scheid, La religion romaine en perspective. Leçon de clôture prononcée le 3 mars 2016, Paris 2018; R.I. Denova, Greek and Roman Religions, Hoboken 2019; J. Scheid, Rites et religion à Rome, Paris 2019; J.L. Mackey, Belief and Cult. Rethinking Roman Religion, Princeton 2022. A proposito di una definizione della “religione” come “prodotto culturale”, cfr., per esempio, P.L. Berger, The Social Reality of Religion, London 1969, 4; D. Sabbatucci, Eliade: cui prodest? in L. Arcella, P. Pisi, R. Scagno (a cura di), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici e identità storica, Milano 1998, 375-378, praesertim, 375.

[2] E. Orlin, Urban Religion in the Middle and Late Republic, in J. Rüpke (edited by), A Companion to Roman Religion, cit., 58-70, praesertim, 58. Sui politeismi, cfr. D. Sabbatucci, Politeismo (3 volumi), Roma 1998; A. Brelich, Il politeismo, a cura di Marcello Massenzio e Andrea Alessandri; prefazione di Marc Augé, Roma 2007. Sul politeismo romano, cfr. J. Scheid, Hiérarchie et structure dans le polythéisme romain: façons romaines de penser l’action, in Archiv für Religionsgeschichte 1, 2, 1999, 184-203; per quel che riguarda l’organizzazione dello “spazio” religioso romano, cfr. M. Humm, I fondamenti della repubblica romana: istituzioni, diritto, religione, in A. Barbero (a cura di), Storia d’Europa e del Mediterraneo, Roma 2008, V, 467-520; R. Jenkyns, God, Space, and City in the Roman Imagination, Oxford 2013, 193-234; con specifico riferimento alla salvaguardia dello Stato romano, cfr. il recente R. Langlands, Exemplary Ethics in Ancient Rome, Cambridge-New York 2018, 16-46.

[3] Liv. II.1.

[4] Cic., De republica I.39. Cfr. T. Piel, B. Mineo, Et Rome devint une République, 509 av. J.C., Clermont-Ferrand 2011 e, per completezza, T.J. Cornell, The Beginnings of Rome. Italy and Rome from the Bronze Age to the Punic Wars (c. 1000-264 B.C.), London-New York 1995, 215-241; L. Capogrossi Colognesi, Law and Power in the Making of the Roman Commonwealth. Translated by Laura Kopp, Cambridge 2014, 50-88; M. Duncan, The History of Rome, The Republic, edited by P.D. Campbell, New Zealand 2016, I, cap. 4.

[5] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in C. Nicolet (editée par), Des ordres à Rome, Paris 1984, 243-280, praesertim, 269-270: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»; F. SINI, Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio storico e giuridico sardo di Sassari (n.s.) 2, 1995, 60-85; P.A. Zoch, Ancient Rome. An Introductory History, Norman 2000, 32-39; A. Lintott, The Constitution of the Roman Republic, Oxford 2002, 94-232; G. Forsythe, A Critical History of Early Rome. From Prehistory to the First Punic War, Berkeley 2006, 135-142; M. Horster, Living on Religion: Professionals and Personnel, in J. Rüpke (edited by), A Companion to Roman Religion, Malden-Oxford 2011, 331-342; O. Tellegen-Couperous (edited by), Law and Religion in the Roman Republic, Leiden 2012; J. Rüpke, Roman Religion, in H.I. Flower (edited by), The Cambridge Companion to the Roman Republic, Second Edition, New York 2014, 213-232, passim; M. Beard, SPQR. A History of Ancient Rome, London 2015, cap. 4; C.B. Champion, The Peace of the Gods. Elite Religious Practices in the Middle Republic, Princeton-Oxford 2017, 23-75.

[6] A favore della “civicità” romana, si esprimono, ad esempio, D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, 187; A. Feldherr, Livy’s Revolution. Civic Identity and the Creation of the res publica, in T. Habinek, A. Schiesaro (edited by), The Roman Cultural Revolution, Cambridge-New York 2000, 136-157; J.A. Latham, Performance, Memory, and Processions in Ancient Rome. The Pompa Circensis from the Late Republic to Late Antiquity, New York 2016, 48: «In Roman civic religion, there were few if any formal or institutional settings for expressly religious instruction. Religious knowledge was transmitted in the act of performing rites, rituals, and ceremonies». Appare contrario, J. Scheid, The Gods, the State, and the Individual. Reflections on Civic Religion in Rome. Translated and with a Foreword by Clifford Ando, Philadelphia 2016, 94, secondo il quale «civic cult, civic religion was a fantasy».

[7] Cic., De legibus I.23.

[8] Cic., De finibus III.64. Cfr., nel merito, M. Henry, The Intoxication of Power. An Analysis of Civil Religion in Relation to Ideology, Dordrecht-Boston-London 1979, 9; M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in J.A. Ankum (editée par), Mélanges Felix Wubbe, Fribourg 1993, che osserva: «La conception  – d’ordre philosophique – du monde romain est celle d’un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l’ordre voulu par les dieux. D’où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l’accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi» (195); P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum. Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 723-730; J.A. North, Roman Religion, cit., 17; J. Rüpke, Communicating with the Gods, in N. Rosenstein, R. Morstein-Marx (edited by), A Companion to the Roman Republic, Malden 2010, 215-235, praesertim, 225; D.J. Bobb, The Humility of True Religion: Augustine’s Critique of Roman Civil Religion, in R. Weed, J. von Heyking (edited by), Civil Religion in Political Thought. Its Perennial Questions and Enduring Relevance in North America, Washington D.C. 2010, 47-65, praesertim, 53; M. Bettini, Dèi e uomini nella città. Antropologia, religione e cultura nella Roma antica, Roma 2015; i saggi contenuti in C. Beltrao da Rosa, F. Santangelo (Herausgegeben von), Cicero and the Roman Religion, Stuttgart 2020.

[9] F. Sini, Aspetti e problemi dell’universalismo romano. Ricerche di ius publicum (e ius sacrum), in Diritto @ Storia 14, 2016, par. 3, passim, http://www.dirittoestoria.it/14/innovazione/Sini-Aspetti-problemi-universalismo-romano-Ricerche-ius-publicum-ius-sacrum.htm?fbclid=IwAR2t3ZXlsdI1T3VPa4tYl_CHPbKScswczGZWVGyRsh9QODULjHBdaQPrD8M (ultimo accesso, 19/03/2020).

[10] Cic., pro C. Rabirio Perduellionis reo ad Quirites oratio V.

[11] M. Johnson, Pax Deorum, in R.S. Bagnall et Al. (edited by), The Encyclopedia of Ancient History, Malden 2013, 5116-5117, praesertim, 5116.

[12] J. Linderski, Roman Religion in Livy, in Xenia 31, 1993, 53-70, praesertim, 54.

[13] I.E. Rock, Paul’s Letter to the Romans and Roman Imperialism. An Ideological Analysis of the Exordium (Romans 1:1-17). Foreword by The Most Revd and Hon Dr John W.D. Holder, Cambridge 2017, 179 e n. 48. Ancora con riferimento al tema, F. Santangelo, Divination, Prediction, and the End of Roman Republic, Cambridge 2013, ha osservato che: «The pax deorum is not a strictly defined theological category. It is a concept that must be understood as a dynamic process, a bargain between men and gods that must be constantly renewed and should not be regarded as the rule. The evidence never refers to the limits of the pax deorum or to the boundaries of the sphere of the gods once the pax deorum is secured» (81). Per ulteriori definizioni della pax deorum, cfr. H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186-188 e passim. Ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla, in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 38-103, praesertim, 49-51. Sul tema, la bibliografia è molto vasta. Ai nostri fini, cfr. M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in F. Biffi (a cura di), I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa. Atti del V colloquio giuridico, 8-10 marzo 1984, Città del Vaticano 1985, 339-345; I. Lana (a cura di), La concezione della pace a Roma, Torino 1987; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 173-174; E. Montanari, Il concetto originario di “pax” e la “pax deorum”, in P. Catalano, P. Siniscalco (a cura di), Le Concezioni della pace, Roma 2006, 39-47; P. Madejski, Pax deorum? in H. Kowalski, P. Madejski (edited by), Terra, mare et homines II. Studies in Memory of Professor Tadeusz Łoposzko, Lublin 2010, 109-119; F. Santangelo, Pontiffs and Pax Deorum, in J.H. Richardson, F. Santangelo (edited by), Priests and State in the Roman World, Stuttgart 2011, 161-186; H. Cornwell, Pax and the Politics of Peace. Republic to Principate, Oxford 2017, 23-33.

[14] M. de Villiers, Consideration in the Roman Law of Contract, in Journal of Comparative Legislation and International Law 6, 1, 1924, 120-124, praesertim, 121 (do ut des).

[15] Plaut., Mercator 678-679.

[16] Per la citazione, cfr. M.A. Brucia, G.N. Daugherty, To Be a Roman. Topics in Roman Culture, Wauconda 2007, 123; J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latine des relations et des partis politique sus la République, Paris 1963, 276. Walter Burkert (1931-2015) – Structure and History in Greek Mythology and Ritual, Berkeley-Los Angeles 1979 – sembra contrastare la mentalità del do ut des con «a more advanced morality» con il fine «to overcome or sublimate the unbashed selfishness of this act of piety» (54); F. Sini, Sua cuique civitati religio (cap. III): Aspetti giuridici e rituali della religione romana. Sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti, in Diritto @ Storia, http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Religio-Cap3.htm#_ftn16 (ultimo accesso, 09/01/2021), con riferimenti alle fonti.

[17] A.I. Clemente Fernández, La auctoritas romana, Madrid 2014, 183. Cfr. S.W. Rasmussen, Public Portents in Republican Rome, Roma 2003, 197; F. Hickson HAHN, Ut diis immortalibus honos habeatur. Livy’s Representation of Gratitude to the Gods, in A. Barchiesi et Al. (edited by), Rituals in Ink. A Conference on Religion and Literary Production in Ancient Rome held at Stanford University in February 2002, Stuttgart 2004, 57-76; M. Dillon, L. Garland, Ancient Rome. From the Early Republic to the Assassination of Julius Caesar, London-New York 2005, 109-172, passim; L. Garofalo, Fondamenti e svolgimenti della scienza giuridica. Nuovi saggi, Torino 2015, 9, n. 29. Del resto, le parole iustitia e ius hanno un’origine etimologica comune. Cfr., su questo punto, C. Ando, The Matter of the Gods. Religion and the Roman Empire, Berkeley 2008, 78-83.

[18] Fest. 146L. Cfr. H. Rech, Mos maiorum. Wesen und Wirkung der Tradition in Rom, Marburg 1936; D. Schanbacher, Ius und Mos. Zum Verhältnis rechtlicher und sozialer Normen, in M. Braun, A. Haltenhoff, F.-H. Mutschler (Herausgegeben von), Moribus antiquis res stat Romana. Römische Werte und römische Literatur im 3. und 2. Jh. v. Chr., Leipzig-München 2000, 353-371; B. Linke, M. Stemmler, Mos maiorum. Untersuchungen zu den Formen der Identitätsstiftung und Stabilisierung in der römischen Republik, Stuttgart 2000; V. Vernole, Mos maiorum. Problemi storico-religiosi, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 68, 2, 2002, 265-274.

[19] J.B. Carter, The Religious Life of Ancient Rome. A Study in Development of Religious Consciousness from the Foundation of the City until the Death of Gregory the Great, Boston-New York 1911, 12.

[20] R. Schilling, The Roman Religion, in C. Jouco Bleeker, G. Widengren (edited by), Historia Religionum. Handbook for the History of Religions, Second Edition. Volume 1, Religions of the Past, Leiden 1988, 442-494, praesertim, 444. In argomento, cfr., inoltre, M. Lipka, Roman Gods. A Conceptual Approach, Leiden 2009, 150-157; R.I. Denova, Greek and Roman Religions, cit., 161-184.

[21] J.D. Minyard, Lucretius and the Late Republic. An Essay in Roman Intellectual History, Leiden 1985, 8-9; R.M. Berchman, Religion, Ritual and War in the Late Roman Republic, in J. Neusner, B.D. Chilton, R.E. Tully (edited by), Just War in Religion and Politics. Studies in Religion and the Social Order, Lanham 2013, 51-68, praesertim, 52-53. A proposito della costruzione giuridico-religiosa del conflitto armato paiono di estremo interesse le parole di J. Rüpke, Peace and War in Rome. A Religious Construction of Warfare, Stuttgart 2019, 10: «Religion here is the primary forum through which fundamental cultural, social and political decisions are reflected, publicly communicated and legitimized by recourse to superhuman agents».

[22] Cfr. J.A. North, Religion in Republican Rome, in Cambridge Ancient History 7, 2, 1989, 573-624, praesertim, 599; T. Morgan, Roman Faith and Christian Faith. Pistis and Fides in the Early Roman Empire and Early Churches, Oxford-New York 2015, 484-487; L.G. Driediger-Murphy, Roman Republican Augury. Freedom and Control, Oxford 2019, 47-48.

[23] Horat., Carmina III.2.13.

[24] R. Pettazzoni, Italia religiosa, Bari 1952, 17-18.

[25] Liv. VIII.9.4-8; Liv. X.28.14-18; Cass. Dio. X.5.43. La tradizione attribuisce la devotio a tre componenti della gens Decia: Publius Decius Mus ad Veserim (340 a.C.), suo figlio ad Sentinum (295 a.C.), e suo nipote ad Ausculum (279 a.C.), sebbene, in letteratura, la storicità delle tre vicende non sia certa e solo della seconda abbiamo un’apprezzabile documentazione. Sulla questione, cfr. G. Stievano, La supposta devotio di P. Decio Mure nel 279 a.C., in Epigraphica 13, 1951, 3-13; L. Sacco, Devotio. Aspetti storico-religiosi di un rito militare romano, Roma 2011, 83-93; R. Cowan, For the Glory of Rome. A History of Warriors and Warfare, Barnsley 2017, 61-62. Peraltro, H.S. VersnelDestruction, Devotio, and Despair in a Situation of Anomy. The Mourning for Germanicus, in G. Piccaluga (a cura di), Perennitas. Studi in onore di Angelo Brelich, Roma 1980, 541-618, praesertim, 562-577 –, manifesta perplessità sul fatto che la devotio «was one of the firmly established Roman rituals», osservando come in epoca imperiale il termine fosse impiegato per indicare quei milites particolarmente avvezzi a sacrificarsi per la gloria e l’onore di Cesare. Nel merito, cfr. anche H.G. Gundel, Devotus numini maiestatique eius, in Epigraphica 15, 1953, 128-150. Dal canto suo, J. Rüpke, Domi militiae. Die Religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, Wiesbaden 1990, ritiene che la devotio sia un’“invenzione” dell’Annalistica romana (42).

[26] Liv. VIII 9.4-5: In hac trepidatione Decius consul M. Valerium magna voce inclamat. 'Deorum' inquit, 'ope, M. Valeri, opus est; agedum, pontifex publicus populi Romani, praei verba quibus me pro legionibus devoveam.' Pontifex eum togam praetextam sumere iussit et velato capite, manu subter togam ad mentum exserta, super telum subiectum pedibus stantem. Sull’origine, l’uso e il significato del termine civis, cfr. E. Benveniste, Vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris 1969, 335-337. Sulla tenuta Gabina, cfr. L. SACCO, Brevi considerazioni storico-religiose sul cinctus Gabinus, in Diritto@Storia (D & Innovazione) 17, 2019, http://www.dirittoestoria.it/17/innovazione/Sacco-Brevi-Considerazioni-storico-religiose-cinctus-Gabinus.mht.htm (ultimo accesso, 22.09.2022).

[27] Liv. VIII.9.6-8: Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Divi Novensiles, Di Indigetes, Divi, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, vos precor veneror, veniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium vim victoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. Sicut verbis nuncupavi, ita pro re publica [populi Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique devoveo.

[28] È utile ricordare che il passo di Livio (VIII.9.4-8) si riferisce alla battaglia del Veseris (alle pendici del Vesuvio) che i Romani – nel 340 a.C. – combatterono contro i Latini.

[29] In dottrina, alcuni studiosi distinguono l’atto deciano in devotio hostium (cfr. Macrob., Saturnalia III.9.9-13) e devotio ducis (cfr. Liv. VIII.9.4-8). Nella prima, si aveva una duplice condotta: una consecratio nella quale il devovens/devotus si offriva alle divinità come piaculum della collera divina e un votum con cui il devovens/devotus chiedeva agli dèi di stornare la propria ira contro i nemici, trascinandoli nella sua stessa sorte. Nella seconda, si materializzava l’auto-sacrificio del condottiero romano che, peraltro, infondeva coraggio nei legionari, spingendoli ad emularne le proprie virtù e che atterriva le schiere avverse, quasi “paralizzate” nel veder sopraggiungere un “essere superiore”. Nel merito, cfr. L. Deubner, Die Devotion der Decier, in Archiv für Religionswissenschaft 8, 1905, 67-81; A.K. Winkler, B.A. Stuiber, Devotio, in Rivista di Archeologia Cristiana 3, 1953, 849-862; H.S. Versnel, Two Types of Roman devotio, in Mnemosyne 29, 4, 1976, 365-410; L.F. Janssen, Some Unexplored Aspects of Devotio Deciana, in Mnemosyne 34, 1981, 357-381; J.B. Campbell, The Emperor and the Roman Army: 31 BC-AD 235, Oxford 1984, 57-69; E. O’Gorman, History as a Group Fantasy, in Cultural Critique 74, 2010, 117-130; G. FERRI, La devotio: per un’analisi storico-religiosa della (auto)consacrazione agli dèi inferi nella religione romana, in Mélanges de l’École française de Rome (Antiquité) 129, 2, 2017, https://journals.openedition.org/mefra/4405 (ultimo accesso, 20.09.2022). A parere di J.W. van Henten & F. Avemarie, Martyrdom and Noble Death. Selected Texts from Graeco-Roman, Jewish, and Christian Antiquity, London-New York 2002, votando sé stesso al sacrificio, Decius Mus offriva agli dèi l’espiazione dei propri “crimini di guerra”, laddove votando anche i suoi nemici rimuoveva quegli stessi crimini (20-21). Sarebbe precisamente in questa endiade, secondo l’opinione di R.E. DeMaris, The New Testament in its Ritual World, London-New York 2008, che si realizzerebbe l’apotropaicità della devotio (101-103). Sulle caratteristiche votive e sul “votarsi agli dèi”, cfr. O. Diliberto, s.v. voveo, in Enciclopedia Virgiliana 5, 1990, 629-633. Sul rapporto fra le nozioni di “sacrificio”, “auto-sacrificio” e “sacrificio umano”, cfr. infra n. 92 e n. 100.

[30] Cfr. R. Turcan, The Gods of Ancient Rome, New York 2000, 4; J. Rüpke, The Religion of the Romans. Translated and edited by Richard Gordon, Cambridge-Malden 2007, 149. Sulla “devotio” si è scritto molto: oltre ai riferimenti bibliografici già citati nella nota precedente, cfr. C.A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans. The Gladiator and the Monster, Princeton 1993, 40-46; M. Leigh, Lucan. Spectacle and Engagement, Oxford 1997, 131-134; A. Heinrich, Longa retro series. Sacrifice and Repetition in Statius’ Menoeceus Episode, in Arethusa 32, 1999, 165-195, praesertim, 180-184; G.M. Masselli, La leggenda dei Decii: un percorso tra storia, religione e magia, in Aufidus 39, 1999, 7-37; L. Sacco, Devotio, in Studi Romani 52, 3-4, 2004, 312-352; R.K. Yerkes, Sacrifice in Greek and Roman Religions and Early Judaism; Foreword by Joachim Wach, Eugene 2010, 59-67; L. Sacco, Devotio (2011), cit.; H.S. Versnel, Devotio, in S. Hornblower et Al. (Edited by), The Oxford Classical Dictionary, Fourth Edition, Oxford 2012, 443; G. Ferri, La devotio: per un’analisi storico-religiosa della (auto)consacrazione agli dèi inferi nella religione romana, in Mélanges de l’École française de Rome: Antiquité 129, 2, 2017, 349-371; J. Buol, Martyred for the Church. Memorializations of the Effective Deaths of Bishop Martyrs in the Second Century CE, Tübingen 2018, 10-19 (“The Roman Devotio Ritual”); J.L. Watts, Jesus as Divine Suicide. The Death of the Messiah in Galatians, Eugene 2019, 88-119 (“The Roman Devotio”).

[31] Sull’utilizzazione della categoria “sistema giuridico-religioso”, cfr. le motivazioni di P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30-37 e n. 75.

[32] Relativamente alle complicazioni interpretative relative alla demarcazione semantica della “religione romana”, cfr. A. WARDMAN, Religion and Statecraft among the Romans, London 1982, 57-58; A. WATSON, The State, Law and Religion: Pagan Rome, Athens-London 1992, 4; J. SALEM, Comment traduire religio chez Lucrèce. Notes sur la constitution d’un vocabulaire philosophique latin à l’époque de Cicéron et Lucrèce, in Les études classiques 62, 1994, 3-26. Una piena comprensione del “sistema giuridico-religioso” romano non sembra del tutto fluida per almeno due motivi significative: a) da una parte, la persistenza degli elementi tradizionali e il senso geloso della dimensione politico-militare a fondamento della quale aveva sempre operato la benevolentia deorum; b) dall’altra, il fatto che la religione romana non è mai stata la stessa, avendo sempre prestato attenzione a esperienze intellettuali diverse. Per la lettera a), cfr. M. Lipka, Roman Gods, cit., 103-116; per la lettera b), cfr. A. Bendlin, Looking Beyond the Civic Compromise: Religious Pluralism in Late Republican Rome, in E. Bispham, C. Smith (edited by), Religion in Archaic and Republican Rome and Italy. Evidence and Experience, Chicago-London 2000, 115-135. A proposito della religione romana come “sistema giuridico-religioso comunitario”, cfr. E. Orlin, Urban Religion in the Middle and Late Republic, cit., 58. Per una visione di più ampio respiro su Roma e la sua religione, cfr. H.S. Versnel, Roman Religion. Three Problems of Methodology, in Talanta 8, 9, 1977, 119-155; in dottrina non può mancare un riferimento a F. Cumont, Les religions orientales dans le paganisme romain, édité par C. Bonnet et F. Van Haeperen, avec la collaboration de B. Toune, 5a ed., Torino 2006 e, tra i contributi più recenti, R. Haeussler, Becoming Roman? Diverging Identities and Experiences in Ancient Northwest Italy, Valnut Creek 2013, 251-279.

[33] R.D. Melville, A Manual of the Principles of Roman Law, Relating to Persons, Property, and Obligations, Edinburgh 1915, 67-70; più recentemente, cfr. J. Champeaux, La religione dei romani, Bologna 2002, 7.

[34] D. MacRae, Legible Religion, cit., 15.

[35] J. Brodd, s.v. “Orthopraxy”, in E. Orlin (edited by), The Routledge Encyclopedia of Ancient Mediterranean Religions, New York 2016, 682-683; cfr. L. Sacco, La presunta tolleranza romana in epoca repubblicana, in S. Botta et Al. (a cura di), La storia delle religioni e la sfida dei pluralismi. Atti del Convegno della Società Italiana di Storia delle Religioni – Roma, Sapienza, 8-9 aprile 2016, Brescia 2017, 106-115, praesertim, 107; F. Dolansky, Household and Family, in R. Uro et Al. (edited by), The Oxford Handbook of Early Christian Ritual, Oxford 2019, 171-186, praesertim, 172-174.

[36] J. Hölkeskamp, Exempla und mos maiorum: Überlegungen zum kollektiven Gedächtnis der Nobilität, in H.-J. Gehrke, A. Möller (Herausgegeben von), Vergangenheit und Lebenswelt: soziale Kommunikation, Traditionsbildung und historisches Bewusstsein, Tübingen 1996, 301-338; M. Bettini, Mos, mores, e mos maiorum. L’invenzione dei “buoni costumi” nella cultura romana, in Id., Le orecchie di Hermes. Studi di antropologia e letterature classiche, Torino 2000, 241-292; S. Wilkinson, Republicanism during the Early Roman Empire, London-New York 2012, 17-20; J. Petitfils, Mos Christianorum. The Roman Discourse of Exemplarity and the Jewish and Christian Language of Leadership, Tübingen 2016, 23-46.

[37] Cfr. G. Wissowa, Expiation and Atonement (Roman), in Encyclopedia of Religion and Ethics 5, 1912, 666-669; Id., Religion und Kultus der Römer, München 19122, 392 ss.; S.P.C. Tromp, De Romanorum Piaculis, Leiden 1921; A.D. Nock, A Feature of Roman Religion, in The Harvard Theological Review 32, 1, 1939, 83-96; F.T. van Straten, Gifts for the Gods, in H.S. Versnel (edited by), Faith, Hope, and Worship. Aspects of Religious Mentality in the Ancient World, Leiden 1981, 65-104.

[38] P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974; B. McBain, Prodigy and Expiation. A Study in Religion and Politics in Republican Rome, in Latomus 60, 1982, 7-24, praesertim, 7.

[39] Cic., De re publica I.39. Cfr. R. Scevola, Utilitas publica. Emersione nel pensiero greco e romano, Milano 2012; per completezza, cfr. anche: A. SteinwenteR, Utilitas publica – utilitas singulorum, in Festschrift Paul Koschaker, Weimar 1939, I, 84-102; G. Jossa, L’utilitas rei publicae nel pensiero classico dell’epoca imperiale, in Studi Romani 11, 1963, 387-405; G. Longo, Utilitas publica, in Labeo 18, 1972, 7-71; M. Pani, Potere e valori a Roma fra Augusto e Traiano, Bari 1992, 73-75.

[40] Cic., De finibus III.64. Cfr. L.R. Bevilacqua, Un pantheon per le virtù, II: L’utilitas come valore civico-religioso delle divinità ideali, in I Quaderni del Ramo d’Oro on-line 10, 2018, 1-26.

[41] Cfr. M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, cit., 191-206; L. Sacco, Devotio (2004), cit., 312, nn. 1-2; J. Scheid, Le sens des rites. L’exemple romain, in Id. (editée par), Rites et croyances dans les religions du monde romain, Genève 2007, 39-71; C. Smith, The Religion of Archaic Rome, in J. Rüpke (edited by), A Companion to Roman Religion, cit., 31-42.

[42] J.A. North, Roman Religion, Oxford 2000, 15. Per una discussione preliminare di tale problematica, cfr. il “datato”, ma ancora “rilevante”, C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome, Westport 1932.

[43] Tra le fonti, cfr., per esempio, Lucret., De rerum natura V.1195: iras adiunxit acerbas! In letteratura, cfr. E. Orlin, Urban Religion in the Middle and Late Republic, cit., 58; F. Santangelo, Pontiffs and Pax Deorum, cit., 168-70; S. Satterfield, Prodigies, the Pax Deum and the Ira Deum, in The Classical Journal 110, 4, 2015, 431-445.

[44] G. Dumézil, La religione romana arcaica, con una appendice su La religione degli Etruschi, edizione italiana a cura di F. Jesi, Milano 1977, 57-59. Cfr. M. Beard, Looking (Harder) for Roman Myth: Dumézil, Declamation and the Problems of Definition, in F. Graf (Herausgegeben von), Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das Paradigma Roms, Leipzig-Stuttgart 1993, 44-64.

[45] Cfr., in generale, H. Hubert, M. Mauss, Essai sur la nature et la fonction du sacrifice, Paris 1899; più recentemente, R. Ackerman, The Myth and the Ritual School. J.G. Frazer and the Cambridge Ritualists, New York-London 2002, VII-XI e passim; R.D. Woodard, Myth, Ritual, and the Warrior in Roman and Indo-European Antiquity, Cambridge 2013, 100-102 e passim.

[46] E. Montanari, Georges Dumézil e la religione romana arcaica, in J. Ries, N. Spineto (a cura di), Esploratori del pensiero umano. Georges Dumézil e Mircea Eliade, Milano 2000, 51-102, passim.

[47] Per il riferimento, cfr. J.L. Durand, J. Scheid, Rites et religion. Remarques sur certains préjugés des historiens de la religion des Grecs et des Romains, in Archives de Sciences Sociales des Religions 85, 1994, 23-43. Il termine ritus definisce l’insieme di comportamenti e azioni, fissati dalla “tradizione” (mos maiorum), immutabilmente reiterati, nel tempo e nella storia che, in genere, costituiscono parte di un culto o di una celebrazione religiosa, sancendone in modo vincolante lo svolgimento. Per un’analisi approfondita del termine ritus nell’età più antica, rimandiamo il lettore a M. Piantelli, Una ricerca su ritus in epoca arcaica, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe Grosso, Torino 1974, VI, 233-303; con riguardo a tagli storico-antropologici, cfr. D.I. Kertzer, Ritual, Politics, and Power, New Haven 1988; M. Bloch, Ritual, History and Power, London 1989.

[48] Cic., De natura deorum II.72; tra gli studi, cfr. P. Defourny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron, in Les Études Classiques 22, 1954, 241-253; 366-378; R.J. Goar, Cicero and the State Religion, Amsterdam 1972; K.H. Roloff, Maiores bei Cicero, in H. Oppermann (Herausgegeben von), Römische Wertbegriffe, Darmstadt 1974, 295-322. Sulle connotazioni dei termini religio e religiosus, cfr. M. Beard, J.A. North, S. Price, Religions of Rome, cit., A History, I, 42-54; D. Frankfurter, Traditional Cult, in D.S. Potter (edited by), A Companion to the Roman Empire, Oxford 2006, 543-564; A. Bendlin, Religio, in E. Orlin (edited by), The Routledge Encyclopedia of Ancient Mediterranean Religions, New York-Abingdon 2016, 806-807.

[49] W. Warde Fowler, The Latin History of the Word “Religio”, in Transactions of the Third International Congress for the History of Religions 2, 1908, 169-175; R. Schilling, L’originalité du vocabulaire religieux latin, in Revue Belge de Philologie et d’Histoire 49, 1971, 31-54; Id., Le Romain de la fin de la République et du début de l’Empire en face de la religion, in L’Antiquité Classique 41, 1972, 540-562; G. Lieberg, Considerazioni sull’etimologia e sul significato di religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, 34-57.

[50] Cic., De inventione II.161.

[51] G. Casadio, Franz Altheim: Dalla storia di Roma alla storia universale, in F. Altheim, Deus invictus. Le religioni e la fine del mondo antico. Traduzione di Ezio Albrile. Postfazione di Luciano Albanese, Roma 2007, 7-48, praesertim, 32, n. 70.

[52] W.E. Sweet, Vergil’s Aeneid in Latin Paraphrase & Verse. Books I & II. A Structural Approach. (With a Latin Paraphrase and Selected Notes from Servius). Seventh Printing, Wauconda 2001, 93.

[53] W.C. Smith, The Meaning and End of Religion. Foreword by John Hick, Minneapolis 1991, 203-245.

[54] A.K. Michels, The Versatility of “religio”, in T.E.W. Nind (edited by), The Mediterranean World. Papers Presented in Honour of G. Bagnani, Peterborough 1976, 36-77. Sul punto, si è espresso anche G. Filoramo, Religione, in Id. (a cura di), Dizionario delle religioni, Torino 1993, 620.

[55] Liv. VIII.9.13.

[56] R. Schilling, Le Romain de la fin de la République et du début de l’Empire en face de la religion, cit., 540-562.

[57] M. Humm, I fondamenti della repubblica, cit., 416-418; W.E. Dunstan, Ancient Rome, Lanham-Boulder-New York 2011, 35.

[58] Lact., Divinarum Institutionum Libri VII.4.28. Cfr. H. Wagenvoort, Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, 223-256, praesertim, 225-227.

[59] J. Rüpke, On Roman Religion. Lived Religion and the Individual in Ancient Rome, Ithaca-London 2016, 24.

[60] Nig. Fig. ap. Gell. IV.9.1. Sul tema, cfr. A. Ernout, A. Meillet (editée par), Dictionnaire étymologique de la Langue Latine: histoire des mots, 4a ed., Paris 1959, 569; R. Muth, Vom Wesen Römischer Religio, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II, 16, 1, 1980, 349-353.

[61] Lucr., De rerum natura I.930; tra gli studi, cfr. M.R. Gale, Myth and Poetry in Lucretius, New York 1996, 198-207.

[62] W.E. Sweet, Vergil’s Aeneid in Latin Paraphrase & Verse, cit., 93.

[63] Cic. De natura deorum I.41.116. Cfr. G. Wissowa, s.v. Pietas, in W.H. Roscher (Herausgegeben von), Ausführliches Lexikon der griechischen und römischen Mythologie, Leipzig 1884-1937 (1909), 2499-2505; in tempi meno risalenti, cfr. H. Wagenvoort, Pietas, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, 1-20; J. Champeaux, Pietas. Piété personnelle et piété collective à Rome, in Bulletin de l’Association G. Budé 48, 1989, 263-279; D.S. Potter, Roman Religion. Ideas and Actions, in D.S. Potter, D.J. Mattingly (edited by), Life, Death, and Entertainment in the Roman Empire, Ann Arbor 1999, 113-170, praesertim, 125-128.

[64] Cic., De haruspicum responsis IX.19.

[65] Cic., De natura deorum II.8.

[66] H. Koester, History, Culture, and Religion of the Hellenistic Age, Second Edition, New York 1995, 348 (per la citazione nel testo); del medesimo tenore le considerazioni di altri studiosi come, ad esempio, J.G. Platvoet, Contexts, Concepts & Contests. Towards a Pragmatics of Defining “Religion”, in J.G. Platvoet, A.L. Molendijk (edited by), The Pragmatics of Defining Religion. Contexts, Concepts & Contests, Leiden 1999, 463-516, praesertim, 466; C. RINOLFI, Pietas e Pax Deorum. Parole introduttive alla Conferenza di F. Botta «La vendetta come officium pietatis» (Sassari, 22 maggio 2015), in Diritto @ Storia 13, 2015, https://www.dirittoestoria.it/13/memorie/Rinolfi-Pietas-pax-deorum.htm (ultimo accesso, 26/09/2022); F. Sini, Aspetti e problemi dell’universalismo romano. Ricerche di ius publicum (e ius sacrum), in Diritto @ Storia 14, 2016, cit., par. 2, n. 7.

[67] C.A. Maschi, Storia del Diritto Romano, Milano 1975, 202; J. Scheid, The Expiation of Impieties Committed without Intention and the Formation of Roman Theology, in J. Assmann, G. Stroumsa (edited by), Transformation of the Self in Ancient Religions, Leiden 1999, 331-347.

[68] J.H. Blits, The Heart of Rome. Ancient Rome’s Political Culture, Lanham 2014, 101.

[69] R. Schilling, Rome. La religion; Rome. Les dieux; Rome. Revue des études récente portant principalement sur la religion de la République: état des questions, in Y. Bonnefoy, Dictionnaire des mythologies et des religions des sociétés traditionnelles et du monde antique, Paris 1981, II, 341-370, praesertim, 343; A. Valvo, Il “bellum iustum” e i generali romani nel III e II secolo a.C., in A. Calore (a cura di), Guerra giusta? Le metamorfosi di un concetto antico, Milano 2003, 77-99, praesertim, 96-98.

[70] Cic., De finibus II.61.

[71] H.-P. Stahl (edited by), Vergil’s Aeneid. Augustan Epic and Political Context, Swansea-Bristol 2009, 21-32.

[72] P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, 72-73.

[73] E. Montanari, Il concetto di religione in Virgilio, in Id., Categorie e Forme, cit., 182.

[74] Cfr. R. MACMULLEN, The Legion as Society, in Historia 33, 1984, 440-456; M. SPEIDEL, Pro patria mori… La doctrine du patriotisme romain dans l’armée impériale, in Cahiers du Centre Gustave Glotz 21, 2010, 139-154; D. KAPUST, Roman Patriotism, in M. SARDOC (edited by), Handbook of Patriotism, Cham 2017, 1-21

[75] Cic., In Catilinam I.17.

[76] Sul tema, cfr. D.M. Field, Greek and Roman Mythology, New York 1977, 179; C.F. NoreñA, Imperial Ideas in the Roman West. Representation, Circulation, Power, Cambridge–New York 2011, 71-73. Su rapporto inscindibile tra res publica e religio, cfr. J. Dyson Hejduk, The God of Rome. Jupiter in Augustan Poetry, New York 2020, 18.

[77] M. Linder, J. Scheid, Quand croire c’est faire. Le problème de la croyance dans la Rome ancienne, in Archives Sociales de Sciences des Religions 81, 1993, 47-62; J. Rüpke, On Roman Religion, cit., 4.

[78] Serv., Ad Georgicas III.456.

[79] Sall., De coniuratione Catilinae 12.

[80] C.J. Smith, Cult and Ritual. The Roman World, in S.E. Alcock, R. Osborne (edited by), Classical Archaeology, Malden 2007, 244-285.

[81] W. Warde Fowler, The Latin History of the Word “Religio”, cit., 169-175.

[82] «[Una religione] della nazione, della patria, naturalmente orientata verso l’al di qua, cioè verso la conservazione di quell’organismo sociale e politico cui l’individuo appartiene nascendo e che per l’individuo è tutto». (R. Pettazzoni, I misteri: saggio di una teoria storico-religiosa, Bologna 1924, 69). Cfr. S. Giusti, Storia e mitologia, Roma 1988, 317; E. Montanari, Categorie e forme, cit., 15-32.

[83] Cic., De domo sua I. Sulle molteplici problematiche religiose e giuridiche affrontate nell’orazione ciceroniana, cfr. C. Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischen Rom, Stuttgart 1992; I. Lana, L’idea della pace nell’antichità, San Domenico di Fiesole 1991, 58-68. D’altro canto, la pax civium (presupposto della pax hominum) – come irenico “rifiuto della guerra” (Verg., Aeneis XI.326: nulla salus bello) – deve sempre avere una perfetta sintonia con la pax deorum. Su questo tema, cfr. M. Adriani, Pax romana. Figura storica e valore religioso, in Studi Romani 5, 4, 1957, 377-382; M. Sordi, Dalla koinè eirene alla pax romana, in M. Sordi (a cura di), La pace nel mondo antico, Milano 1985, 3-16; C. Santi, Sacra facere, cit., 121-124.

[84] J. Ries, Alla ricerca di Dio. La via dell’antropologia religiosa. Sezione prima: L’uomo alla ricerca di Dio, vol. 1, Milano 2009, 236: «Religio definisce l’atteggiamento di un uomo che sceglie di vivere e di agire in perfetta armonia con la volontà degli dèi. La religio è anche rispetto, venerazione, e osservanza di tutte le tradizioni che collegano l’homo Romanus con le sue tradizioni ancestrali. Si può intendere come l’insieme dei legami che uniscono l’attività umana alla volontà divina. Presuppone di conseguenza una serie di obblighi come la corretta ed esatta celebrazione dei riti, il rispetto del voto e del divino. L’uomo religioso dedica un’attenzione scrupolosa a tutte le manifestazioni della volontà divina; pone inoltre una costante ansia di perfezione nella celebrazione del culto e nel compimento di tutte quelle azioni che lo mettono in relazione con la divinità».

[85] Lo storico greco Polibio (ca. 206-118 a.C.), a proposito della “religione romana”, avrebbe osservato che “è razionale e fatta per gente razionale” e sarebbe “educatrice” in quanto “civica”, stando all’interpretazione dello studioso D. Sabbatucci, Lo Stato come conquista culturale. Ricerca sulla religione romana, 2a ed., Roma 1984, 20. A. SzakolczaiComedy and Public Sphere. The Rebirth of Theatre as Comedy and the Genealogy of the Modern Public Arena, New York-London 2013 – sembra fornire, una spiegazione ancor più chiara: «Polybius posed the question why the Romans came to dominate the Greeks and found the answer in the strength of Roman civic religion. Polybius was well aware that no power could be based on mere force but must be secured by the strength of an underlying civic spirit, and this spirit can only be founded on religiosity» (100). Nella fonte vengono descritte “le migliori condizioni per tenere unito lo Stato”: μεγίστην δέ μοι δοκε διαφορν χειν τ ωμαίων πολίτευμα πρς βέλτιον ν τ περ θεν διαλήψει. καί μοι δοκε τ παρ τος λλοις νθρώποις νειδιζόμενον, τοτο συνέχειν τ ωμαίων πράγματα, λέγω δ τν δεισιδαιμονίαν: π τοσοτον γρ κτετραγδηται κα παρεισκται τοτο τ μέρος παρ ατος ες τε τος κατ δίαν βίους κα τ κοιν τς πόλεως στε μ καταλιπεν περβολήν. κα δόξειεν ν πολλος εναι θαυμάσιον (Polyb., Historiae VI.56.6-8). In proposito, cfr. F.W. Walbank, Polybius and the Roman State, in Greek, Roman, and Byzantine Studies 5, 1964, 239-260; J.E. Vaahtera, Roman Religion and the Polybian Politeia, in C. Bruun (edited by), The Roman Middle Republic. Politics, Religion, and Historiography c. 400-133 BC, Rome 2000, 251-264; A. Erskine, Making Sense of the Romans: Polybius and the Greek Perspective, in Dialogues d’Histoire Ancienne 9, 2013, 115-129; H. Mouritsen, Politics in the Roman Republic, Cambridge 2017, 7-12.

[86] R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., 17. Sul rapporto tra pratiche religiose individuali e pratiche religiose comunitarie, cfr. le “eccezioni” di J. Rüpke, On Roman Religion, cit., 8-25.

[87] Liv. III.7.7. D. Sabbatucci, Sacer, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 23, 1951-52, 91-101, ha rilevato come nell’azione sacra in Roma si avesse sempre la concomitanza di due elementi: la “donazione” di qualcosa al dio e l’“intervento” dell’autorità statale; più esplicitamente, cfr. Id., Lo Stato come conquista culturale, Roma 1975, 214.

[88] A. Clark, Divine Qualities. Cult and Community in Republican Rome, Oxford 2007, 255-256; A. Collar, Religious Networks in the Roman Empire. The Spread of New Ideas, Cambridge-New York 2013, 54.

[89] R. Schilling, Rites, Cultes, Dieux de Rome, Paris 1979, 74.

[90] P. Boyancé, Etudes sur la religion romaine, Rome 1972, 28; J.A. North, Roman Religion, cit., 44.

[91] J. Pollini, From Republic to Empire. Rhetoric, Religion, and Power in the Roman Visual Culture of Ancient Rome, Norman 2012, 5.

[92] Fra le questioni di interesse storico-religioso, poche hanno acceso una discussione complessa e articolata come quella relativa al “sacrificio”. L’uso di questa espressione per indicare una componente degli ambiti religiosi non risulta univoca, ricoprendo realtà eterogenee, nei contenuti e nelle forme. La sua applicazione persiste, tuttavia, nella ricerca che s’interroga sulle sue valenze. Il termine “sacrificio”, in molte lingue europee (ma non nel tedesco), origina dal latino sacrificium che, etimologicamente, fa riferimento all’azione di sacrum facere, indicando il passaggio dell’oggetto sacrificato a un piano diverso, e riferendosi, generalmente, a un’uccisione. Cfr. A. Brelich, Introduzione alla Storia delle religioni, Roma 1966, 44-50; M. Eliade, Trattato di Storia delle religioni, Torino 1968, par. 132; C. Grottanelli, Il sacrificio, Roma-Bari 1999; C. Santi, Alle radici del sacro, Roma 2004; G. Sfameni Gasparro, Introduzione alla Storia delle religioni, Roma-Bari 2011, 164-182. Si ritiene che il sacrificio sia un “dono” offerto alla divinità (e/o, in ogni caso, ad un’entità sovrumana), per accaparrarsi la sua benevolenza, o per esibire la sottomissione di un individuo nei suoi confronti. Cfr. J. Van Baal, Offering, Sacrifice and Gift, in Numen 23, 3, 1976, 161-178; J. Henninger, s.v. Sacrifice, in M. Eliade (edited by), Encyclopedia of Religion, New York 1987, XII, 544-557. Ovviamente, il significato moderno di “sacrificio” inteso come “privazione” non può essere supposto per l’antichità, se non in senso metaforico. Cfr. infra n. 100 a proposito del “sacrificio umano”.

[93] Cic., De natura deorum II.10.

[94] Cic., De finibus III.64.

[95] R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., 18. Corsivo aggiunto.

[96] D. Sabbatucci, La religione romana, in G. Castellani (a cura di), Storia delle religioni 3, 1971, 3-80, praesertim, 3; Id., La “res publica” istituto e strumento di rivoluzione, in Index 7, 1977, 11-19.

[97] A. Goldsworthy, The Punic Wars, London 2000, 315-316.

[98] L’espressione è utilizzata da Cic., pro P. Sestio XX.46: Cum vero in hanc rei publicae navem, ereptis senatui gubernaculis fluitantem in alto tempestatibus seditionum ac discordiorum, armatae tot classes, nisi ego essem unus deditas, incursurae viderentur, cum proscriptio, caedes, direptio denuntiaretur, cum alii me suspicione periculi sui non defenderent, alii vetere odio bonorum incitarentur, alii inviderent, alii obstare sibi me arbitrarentur, alii ulcisci dolorem aliquem suum vellent, alii rem ipsam publicam atque hunc bonorum statum otiumque odissent et ob hasce causas tot tamque varias me unum deposcerent, depugnarem potius cum summo non dicam exitio, sed periculo certe vestro liberorumque vestrorum, quam id quod omnibus impendebat unus pro omnibus susciperem ac subirem. Per i riferimenti ai Decii, cfr. Cic., pro P. Sestio XXI.48: Cum omnia semper ad dignitatem rettulissem nec sine ea quicquam expetendum esse homini in vita putassem, mortem, quam etiam virgines Athenis, regis, opinor, Erechthei filiae, pro patria contempsisse dicuntur, ego vir consularis tantis rebus gestis timerem? praesertim cum eius essem civitatis ex qua C. Mucius solus in castra Porsennae venisset eumque interficere proposita sibi morte conatus esset; ex qua P. Decius primum pater, post aliquot annos patria virtute praeditus filius se ac vitam suam instructa acie pro salute populi Romani victoriaque devovisset; ex qua innumerabiles alii partim adipiscendae laudis, partim vitandae turpitudinis causa mortem in variis bellis aequissimis animis oppetissent; in qua civitate ipse meminissem patrem huius M. Crassi, fortissimum virum, ne videret victorem vivus inimicum, eadem sibi manu vitam exhausisse qua mortem saepe hostibus obtulisset. H.S. Versnel, Self-Sacrifice, Compensation and the Anonymous Gods, in O. Reverdin, J. Rudhardt (editée par), Le sacrifice dans l’antiquité. Entretiens sur l’antiquité classique, Vandoeuvres-Genève 1981, 135-194, praesertim, 159-160, cita, fra i vari esempi di unus pro omnibus, quello dell’unum pro multis caput (Verg., Aeneis V.815).

[99] Come dare torto a Cicerone quando scrisse: Virtus…propria est Romani generis et seminis (Cic., Philippicae IV.13)? Cfr. H. WAGENVOORT, Gravitas and Maiestas, in Mnemosyne 4, 5, 1952, 287-306; L.R. Lind, The Idea of the Republic and the Foundation of Roman Morality, in C. Deroux (edited by), Studies in Latin Literature and Roman History, Brussels 1989, 5-34; D.S. Levene, Religion in Livy, Leiden 1993, 222-223; J. Sarsila, Being a Man. The Roman Virtus as a Contribution to Moral Philosophy, Bern 2006.

[100] Tra le fonti, Liv. IX.4.10: Equidem mortem pro patria praeclaram esse fateor et me uel deuouere pro populo Romano legionibusque uel in medios me immittere hostes paratus sum. In letteratura, cfr. P. Plass, The Game of Death in Ancient Rome. Arena Sport and Political Suicide, Madison 1995, 226-227; C. Quigley, The Corpse. A History, Jefferson 1996, 167; J.W. van Henten, F. Avemarie, Martyrdom and Noble Death, cit., 19-21; M. Dillon, L. Garland, Ancient Rome, cit., 235; J. Pollini, Ritualizing Death in Republican Rome. Memory, Religion, Class Struggle, and the Wax Ancestral Mask Tradition’s and Influence on Veristic Portraiture, in N. Laneri (edited by), Performing Death. Social Analyses of Funerary Tradition in the Ancient Near East and Mediterranean, Chicago 2007, 237-285; C.E. Schultz, The Romans and Ritual Murder, in Journal of the American Academy of Religion 78, 2, 2010, 516-541. L’espressione “sacrificio umano” designa quel particolare tipo di sacrificio nel quale la vittima sacrificale è un essere umano. Alcuni comprendono, nel concetto di sacrificio, ogni specie d’offerta ad esseri sovrumani, per distinguere poi tra sacrifici cruenti e incruenti; altri preferiscono invece far differenza tra sacrificio e offerta, intendendo, per l’uno, unicamente l’immolazione cruenta e, per l’altra, la sola donazione incruenta. In proposito, cfr. P. Arnold, Les sacrifices humains et la devotio à Rome, in Ogam 9, 1957, 27-36 e l’imprescindibile A. Brelich, Presupposti del sacrificio umano, Roma 1966-1967. Tra la vastissima bibliografia e, ai nostri fini, cfr., in tempi recenti, AA.VV., Actes du Colloque international “Le sacrifice humain dans le monde égéen et dans les civilisations périphériques”, Milano, 27-28 octobre 2014, in Pasiphae. Rivista di Filologia e Antichità egee 9, 2015; M. MIATTO, Il ‘sacro’ tra antico e contemporaneo. Cristiano Grottanelli e le ideologie del sacrificio, in Élites e cultura 2019, 153-167; F.M. SIMÓN, Religion and Rituals in Republican Rome, in V. ARENA, J. PRAG (edited by), A Companion to The Political Culture of the Roman Republic, Hoboken 2022, 455-469, praesertim, 463-464. Sul rapporto specifico tra devotio e sacrificio umano, cfr., per una visione d’insieme, L. Sacco, Devotio (2011), cit., 42-63 (non numerosi riferimenti bibliografici); ID., Il pharmakos nelle fonti antiche e nella Storia delle religioni. Alcune valutazioni critiche, in Mythos 12, 2018, 103-115.

[101] Il fascino esercitato dalla devotio deciana si mantenne vivo tra i Romani, se ancora Iuv., Satirae III.8.254-258, li ricorda con ammirazione: Plebeiae Deciorum animae, plebeia fuerunt nomina; pro totis legionibus hi tamen et pro omnibus auxiliis atque omni pube Latina sufficiunt dis infernis Terraeque parenti; pluris enim Decii quam quae servantur ab illis. Sul rapporto fra “storia” e “memoria” in Livio, cfr. G.B. Miles, Livy. Reconstructing Rome, Ithaca-London 1995, 8-74.

[102] T.J. Moore, Artistry and Ideology. Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, 53.

[103] Cic., Tusculanae Disputationes II.18.13.

[104] S. Brand, Killing for the Republic. Citizen-Soldiers and the Roman Way of War, Baltimore 2019, 133. [Corsivo] aggiunto.

[105] M. Mazza, Storia e ideologia in Tito Livio: per un’analisi storiografica della Praefatio ai Libri ab urbe condita, 2a ed., Catania 1966, 130-149; W. Liebeschuetz, The Religious Position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 57, 1, 2, 1967, 45-55, praesertim, 47-48; T.J. Luce, Livy. The Composition of His History, Princeton 1977; J. Linderski, Roman Religion in Livy, in W. Schuller (Herausgegeben von), Livius. Aspekte seines Werkes, Konstanz 1993, 53-70; M. McDonnell, Roman Manliness. Virtus and the Roman Republic, Cambridge 2006, 200-201; J.W. Atkins, Roman Political Thought, Cambridge-New York 2018, 63-90. Per le “critiche” della storia liviana, cfr. ad esempio P.G. Walsh, Livy. His Historical Aims and Methods, Second Edition, Bristol 1989; A. Vasaly, Livy’s Political Philosophy. Power and Personality in Early Rome, Cambridge 2015.

[106] Liv. VIII.11.1.

[107] G. Dumézil, Ventura e sventura del guerriero. Aspetti mitici della funzione guerriera tra gli Indo-Europei, Torino 1974, 10.

[108] J. Poucet, Georges Dumézil et l’histoire des origines et de premiers siècles de Rome, in C.-M. Ternes (editée par), Actes du colloque international ‘Eliade-Dumézil’, Luxembourg, avril, 1988, Luxembourg 1988, 27-49; sulla tematica, cfr. A. Brelich, Problemi di mitologia I: un corso universitario, in Religioni e Civiltà 1, 1972, 331-537; G. Piccaluga, Irruzione di un passato irreversibile nella realtà culturale romana, in Studi Storico-Religiosi 1, 1977, 47-62.

[109] G. Dumézil, Servius et la Fortune. Essai sur la fonction sociale de Louange et de Blame et sur éléments indo-européens du cens romain, Paris 1943, 190-193. Cfr. A. Momigliano, Georges Dumézil and the Trifunctional Approach to Roman Civilization, in History and Theory 23, 3, 1984, 312-330; C. Grottanelli, Dumézil, the Indo-Europeans, and the Third Function, in L.L. Patton, W. Doniger (edited by), Myth and Method, Charlottesville-London 1996, 128-146; E. Lyle, What Triad? A Critique and Development of Dumézil’s Trifunctional Theory, in Revue de l’Histoire des Religions 221, 2004, 5-21.

[110] G. Dumézil, Le Borgne and le Manchot. The State of the Problem, in G.J. Larson, C. Scott Littleton, J. Puhvel (edited by), Myth in Indo-European Antiquity, Berkeley-Los Angeles 1974, 17-28. Cfr. J.B. Solodow, Livy and the Story of Horatius, 1.24-26, in Transactions of the American Philological Association 109, 1979, 251-268; N.J. Allen, Romulus and the Fourth Function, in E. Polomé (edited by), Indo-European Religion After G. Dumézil, Washington 1996, 13-36; A. Grandazzi, The Foundation of Rome. Myth and History. Translated by Jane Marie Todd, Ithaca-London 1997; M. Jaeger, Livy’s Written History, Ann Arbor 1997; J.E. Bernard, Le portrait chez Tite-Live, Bruxelles 2000; M.B. Roller, Exemplarity in Roman Culture. The Cases of Horatius Cocles and Cloelia, in Classical Philology 99, 1, 2004, 1-28; Id., Models from the Past in Roman Culture. A World of Exempla, Cambridge 2018, 32-65.

[111] G. Dumézil, Ner et Viro dans le langues italiques, in Revue des Études Latines 31, 1953, 175-189, praesertim, 189. Nel merito, cfr. D. Sabbatucci, Mito e demitizzazione nell’antica Roma, in Religioni e Civiltà 41, 1, 1972, 539-589; E. Montanari, Problemi della demitizzazione romana, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 52, 1, 1986, 73-99; C. Santi, Entmythisierung e storificazione dei miti nella religione romana arcaica, in G. Casadio, A. Mastrocinque, C. Santi (a cura di), Apex. Studi storico-religiosi in onore di Enrico Montanari, Roma 2016, 175-184.

[112] L’orientamento metodologico dello studioso francese si basava sull’uso combinato di antropologia e filologia per elaborare un tipo di comparazione volto all’interpretazione di testi propri delle culture indoeuropee. Nel merito, cfr. G. Dumézil, L’idéologie tripartie des indo-européens. M.M. W. Potscher et M. van der Bruwaene, in Latomus 20, 1961, 524-529; Id., Mythe et épopée. L’idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, I, 283. Cfr. D. Briquel, Mythe et révolution: la fabrication d’un récit de la République à Rome, Bruxelles 2007; Id., Livy and Indo-European Comparatism, in B. Mineo (edited by), A Companion to Livy, Malden-Oxford 2015, 155-166.

[113] H.W. Lichfield, National exempla virtutis in Roman Literature, in Harvard Studies in Classical Philology 25, 1914, 1-71; C. Guittard, L’expression du verbe de la prière dans le carmen latin archaïque, in R. Bloch (editée par), Recherches sur les religions de l’antiquité classique, Paris 1980, 395-403; M. Coudry, T. Spath (editée par), L’invention des grands hommes de la Rome antique. Actes du Colloque du Collegium Beatus Rhenanus, Paris 2001.

[114] O. Skutsch, Annals 208-210 and the formula of devotio, in Classical Quarterly 10, 1960, 188-198; L.F. Janssen, Some Unexplored Aspects of the Devotio Deciana, cit., 380-381. Cfr. H.D. Jocelyn, The Poems of Quintus Ennius, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I, 2, 1972, 987-1026, praesertim, 1013; C. Guittard, Aspects épiques de la première décade de Tite-Live: le rituel de la devotio, in Caesarodunum 16 bis, 1979, 33-41; L. Ceccarelli, La devotio a Roma e un verso di Accio, “Praet., 15r2”, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 61, 1, 1995, 219-230; I. Gildenhard, Virgil vs. Ennius, or The Undoing of the Annalist, in W. Fitzgerald, E. Gowers (edited by), Ennius Perennis: The Annals and Beyond, Cambridge 2007, 73-102; L.D. Ginsberg, Tragic Rome? Roman Historical Drama and the Genre of Tragedy, in G.W.M. Harrison (edited by), Brill’s Companion to Roman Tragedy, Leiden-Boston 2015, 216-237; C.T. Cruttwell, A History of Roman Literature. From the Earliest Period to the Death of Marcus Aurelius, Frankfurt am Main 2018, 68-78.

[115] C. Guittard, Tite-Live, Accius et le rituel de la devotio, in Comptes Rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 1984, 581-599; G. Manuwald, Fabulae praetextae. Spuren einer literarischen Gattung der Römer, München 2001, 196-219; B. Cowan, Hopefully Suriving. The Limits of devotio in Virgil and Others, in The Proceedings of the Virgil Society 27, 2011, 56-98, praesertim, 65-74; J. Fisher, The Annals of Quintus Ennius and the Italic Tradition, Baltimore 2014; P. Kragelund, Roman Historical Drama. The Octavia in Antiquity and Beyond, Oxford 2016, 53-57.

[116] J. Rüpke, Construing ‘Religion’ by Doing Historiography. The Historicisation of Religion in the Roman Republic, in B.-C. Otto et Al. (edited by), History and Religion. Narrating a Religious Past, Boston-Berlin 2015, 45-62.

[117] Serv., Ad Aeneidem IV.620: Sed cadat ante diem Cato dicit iuxta Lauro lavinium, cum Aeneae socii praedas agerent, proelium commissum, in quo Latinus occisus est, fugit Turnus; et Mezentii auxilio conparato victus quidem est ab Aenea, qui tamen in ipso proelio non conparuit. Ascanius postea Mezentium interemit. Alii dicunt quod victor Aeneas, cum sacrificaret super Numicum fluvium lapsus est et eius nec cadaver inventum est; unde dicit mediaque inhumatus harena. Postea dictus est inter deos receptus. Ante diem autem ante fati necessitatem; et bene quod passura est optat Aeneae, ut sed misera ante diem. Cfr. P. Kragelund, Roman Historical Drama, cit., 53-57.

[118] J.J. O’Hara, Death and the Optimistic Prophecy in Vergil’s Aeneid, Princeton 1990, 82-84; M. Erasmo, Roman Tragedy. Theatre to Theatricality, Austin 2004, 68-78.

[119] Cic., De officiis I.85. Cfr. R. Pettazzoni, Italia religiosa, cit., 17-18; A. Yokobson, Elections and Electioneering in Rome. A Study in the Political System of the Late Republic, Stuttgart 1999, 178-179.

[120] R. MacMullen, The Legion as a Society, cit., e, per completezza, I.A. Richmond, The Roman Army and Roman Religion, in Bulletin of the John Rylands Library 45, 1963, 185-197; J. Helgeland, Roman Army Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II, 23, 2, 1978, 1470-1505.

[121] M. Humm, The Curiate Law and the Religious Nature of the Power of Roman Magistrates, in O. Tellegen-Couperus (edited by), Law and Religion in the Roman Republic, Leiden 2012, 57-84; sul rapporto civis/civitas, cfr. A.N. Sherwin-White, The Roman Citizenship, Second Edition, Oxford 1973; C. Nicolet, The World of the Citizen in Republican Rome, Berkeley 1988, 21-23; G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, Roma-Bari 2005, 23-40; A. Muroni, Civitas Romana: emersione di una categoria nel diritto e nella politica tra Regnum e Res publica, in Diritto@Storia 11, 2013, http://www.dirittoestoria.it/11/note&rassegne/Muroni-Civitas-Romana-categoria-tra-regnum-res-publica.htm (ultimo accesso, 17/05/2020).

[122] Cic., De haruspicum responsis IX.19. Con riferimento alla “citazione”, cfr. H. Koester, History, Culture, and Religion of the Hellenistic Age, cit., 348: «The Romans thought of themselves as the most pious people on earth […]. Piety meant the faithful observation of ritual duty because the life of the individual, as well as the community as a whole, was permeated by divine powers».

[123] W.M. Warrior, Roman Religion, cit., 56. Livio, ad esempio, narra che Fabius convocò un’assemblea del senatus per spiegare come il disastro del Lago Trasimeno (217 a.C.) fosse dovuto alla neglegentia caerimoniarum auspiciorumque (Liv. XXII.9.7) del consul Flaminius. Cfr. J. Vaahtera, Roman Augural Lore in Greek Historiography. A Study of the Theory and Terminology, Stuttgart 2001, 25.

[124] W.M. Warrior, Roman Religion, cit., 42; cfr. poi F.K. Drogula, Commanders & Command in the Roman Republic and Early Empire, Chapel Hill 2015, 70-71. Per un quadro più variegato della questione, cfr. J.W. Rich, Declaring War in the Roman Republic in the Period of Transmarine Expansion, Brussels 1976, 56-58; W.V. Harris, War and Imperialism in Republican Roma, 327-70 BC, Oxford 1985, 166-171; J. Linderski, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt II, 16, 3, 1986, 2146-2312; J. North, Diviners and Divination at Rome, in M. Beard, J. North (edited by), Pagan Priests. Religion and Power in the Ancient World, London 1990, 49-71; J. Vaahtera, Roman Augural Lore in Greek Historiography, cit., 24-30; T.P. Wiseman, Augustus, Sulla, and the Supernatural, in C. Smith, A. Powell (edited by), The Lost Memoirs of Augustus and the Development of Roman Autobiography, Swansea 2009, 111-124, praesertim, 112; F. Santangelo, Divination, Prediction and the End of the Roman Republic, cit., 198.

[125] Horat., Carmina III.6.5-6.

[126] R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 114. Sul punto si è pronunciato anche F. Sini, Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm#_ftn8 (ultimo accesso, 08/06/2020); N. Belayche, Religious Actors in Daily Life: Practices and Related Beliefs, in J. Rüpke (edited by), A Companion to Roman Religion, cit., 275-291.

[127] J.W. Atkins, Roman Political Thought, Cambridge-New York 2018, 139.

[128] Per le citazioni delle fonti, cfr. Liv. VIII.9.4-8.

[129] Fest. 346L: ritus est mos comprobatus in administrandis sacrificiis. Cfr. L.R. BevilacquaUn pantheon per le virtù, II, cit. – ha definito, più esattamente, l’utilitas come «una combinazione di responsabilità, coscienza civile, aspettativa e osservanza di determinate regole e atteggiamenti nei confronti dei concittadini e degli dèi» (20).

[130] I termini “paradigma” e “religio” sono opportunamente virgolettati per ovvie ragioni.

[131] Sul concetto di virtus, ai nostri fini, cfr. D.C. Earl, The Moral and Political Tradition of Rome, London 1967, 52-54 e passim; J. Sarsila, Some Notes on Virtus in Sallust and Cicero, in Arctos 12, 1978, 135-143; R. Oniga, Il confine conteso. Lettura antropologica di un capitolo sallustiano (Bellum Iugurthinum 79), Bari 1990, 11-26; I. Honohan, Civic Republicanism, London 2002; J. Connolly, Virtue and Violence. The Historians on Politics, in A. Feldherr (edited by), The Cambridge Companion to the Roman Historians, Cambridge 2009, 181-194, praesertim, 184-189; D.J. Kapust, Republicanism, Rhetoric, and Roman Political Thought. Sallust, Livy, and Tacitus, Cambridge-New York 2011, 8-13; P.A. French, Republican Philosophy of Law, in C. Berry Gray (edited by), The Philosophy of Law. An Encyclopedia, Volume I-II, A-Z, London-New York 2012, 740-743; C. Balmaceda, Virtus Romana. Politics and Morality in the Roman Historians, Chapel Hill 2017, 48-82.

[132] Cfr. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, a cura di S. Cotta, Torino 2005, 84: «[…] in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altro che la virtù», cit. da U. Vincenti, Ius Publicum. Storia e fortuna delle istituzioni pubbliche di Roma antica, Napoli 2018, 171, che riprende liberamente Cic., De re publica V.9: quae virtus fortitudo vocatur; in qua est magnitudo animi, mortis dolorisque magna contemptio. In tempi recenti, cfr. S. McConnell, Magnitudo animi and Cosmic Politics in Cicero’s De Re Publica, in The Classical Journal 113, 2017, 45-70.

[133] U. Vincenti, Ius Publicum, cit., 171; cfr. anche M. Henry, The Intoxication of Power. An Analysis of Civil Religion in Relation to Ideology, Dordrecht-Boston-London 1979, 1-22 (Foundations: The Roman Civil Religion).

[134] C. Moatti, Res publica. Histoire romaine de la chose publique, Paris 2018. A livello morfologico, cfr., la vicenda di Turno, narrata nell’Eneide e, in particolare, lo studio di L. Sacco, La morte di Turno: devotio o lustratio? in Studi Romani 60, 1-4, 2012, 24-31, praesertim, 25.