Civitas Romana: emersione di una categoria nel diritto e nella politica tra Regnum e Res publica
Università di Sassari
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. Modi
‘privati’ di acquisto della cittadinanza. – 2.1. Acquisto della cittadinanza
per filiazione. – 2.2. Acquisto della cittadinanza per adoptio. – 2.3 La manumissio servorum.
– 2.4. Acquisto
della cittadinanza mediante iscrizione al censo. – 3. Modi di concessione ‘pubblici’ della cittadinanza.
– 3.1. La concessione da parte del rex. – 3.2. La concessione della cittadinanza mediante leges. –
3.2.1. Leges rogatae e plebiscita. – 3.2.2. Concessione per provvedimento del magistrato.
– 4. Conclusioni.
In Roma arcaica si
rinvengono molteplici forme di concessione della cittadinanza[1] in una casistica piuttosto
vasta - concessioni al singolo o a comunità, concessioni ampie o limitate -
sino alla constitutio Antoniniana che
estenderà la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’Impero[2]. L’esame di questo articolato
sistema mira a evidenziare gli aspetti giuridici e le tendenze politiche che
hanno caratterizzato il concetto stesso di cittadinanza romana. Per questa ricerca, si è proceduto ad analizzare le forme di concessione più
risalenti e diffuse in uso tra il Regnum
e la Res publica dalle quali trarre la
definizione e l’emersione stessa della categoria civitas Romana.
A tal fine, ho ritenuto opportuno operare una classificazione
generale dei modi attraverso i quali è possibile in Roma arcaica ottenere
la cittadinanza romana, distinti in modi ‘privati’ di acquisto e modi ‘pubblici’
di concessione.
Tra i modi ‘privati’ sono stati analizzati
l’acquisto della civitas per
filiazione legittima, per adoptio e
per manumissio. Accanto a
questi modi ‘tipici’ sono stati discussi anche alcuni acquisti della cittadinanza mediante
iscrizione al censo.
In riferimento ai
modi di concessione ‘pubblici’, si è proceduto ad esaminare, per il Regnum, l’attribuzione della cittadinanza
da parte del rex e, per l’epoca
repubblicana, la concessione mediante lex,
sia essa rogata, plebiscitum, ovvero decretum o altro provvedimento del
magistrato dotato di imperium.
I modi qui definiti
‘privati’ permettono l’acquisto della civitas
Romana in assenza di uno specifico provvedimento costitutivo di diritto pubblico.
L’acquisto della cittadinanza diviene conseguenza automatica di atti e fatti
giuridici, espressione delle facoltà proprie del pater familias, e le
istituzioni politiche romane non intervengono, se non per delimitarne, normarne o attestarne
l’esercizio, come
usualmente avveniva nella sfera giuridica.
Istituti tipici sono la filiazione, l’adoptio e la manumissio. A queste
tipologie si possono in qualche modo accomunare quei modi di concessione della
cittadinanza - tipici dei Latini ma in ogni caso attribuibili per lex anche a stranieri - nei quali l’acquisto
della civitas Romana è lasciato alla
libera scelta dell’individuo che decide, recandosi a Roma, di avvalersi
del beneficio attribuitogli normativamente. In tali casi, infatti, pur se non
siamo di fronte ad un acquisto tipicamente ‘privato’, emerge la rilevanza
dell’elemento volontaristico che determina il compimento necessario di uno
specifico atto, l’iscrizione al censo, da cui, qualora ovviamente sussistano
tutti i requisiti prescritti, deriverà il conseguente acquisto della
cittadinanza romana. La voluntas è
così un
aspetto caratteristico che differenzia queste fattispecie dalle
concessioni tipiche di diritto pubblico.
Tutte le forme
‘private’, come si vedrà, possono comportare esclusivamente l’acquisto della
cittadinanza per uno o più individui, ma non per una collettività, la cui assimilazione
nella civitas passa da una
concessione operata dal sistema giuridico-religioso romano.
La nascita da genitori entrambi
in possesso della cittadinanza romana rappresenta la forma originaria di
acquisto della civitas Romana[3].
è discusso se, in tale evenienza,
l’attribuzione della cittadinanza sia conseguenza automatica della nascita o
se, invece, sia l’effetto giuridico del tollere
liberos[4],
attraverso il quale il pater accoglie
il neonato nella famiglia e, dunque, nella civitas.
Qualora uno dei due coniugi non
sia Romano gli effetti della filiazione sulla concessione della cittadinanza
sono diversi a seconda del periodo storico analizzato.
In epoca risalente è
ipotizzabile che fosse la condizione giuridica del pater a determinare la cittadinanza del filius. Ciò ritengo si possa trarre dal racconto di Tito Livio sul
ratto delle Sabine, nel quale emerge chiaramente la sentita necessità, durante
il Regnum di Romolo, di accrescere il
numero dei cittadini romani attraverso la filiazione:
Iam res Romana
adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello par esset; sed penuria
mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes
prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos
circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque novo populo peterent:
urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac di iuvent,
magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire, origini Romanae et deos
adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne gravarentur homines cum
hominibus sangumem ac genus miscere. Nusquam benigne legatio audita est: adeo
simul spernebant, simul tantam in medio crescentem molem sibi ac posteris suis
metuebant. Ac plerisque rogitantibus
dimissi ecquod feminis quoque asylum aperuissent; id enim demum compar conubium
fore[5].
Il rifiuto delle popolazioni
latine di procedere ad accordi di conubium
induce i Romani a rapire le Sabine, rese così spose e madri di nuovi cittadini
romani. Tuttavia, nella narrazione liviana si può evidenziare un aspetto
ulteriore, poiché sembrerebbe che anche alle captae venga concessa da Romolo la cittadinanza romana. Tito Livio,
infatti, precisa che:
Sed ipse Romulus circumibat docebatque patruin id superbia
factuin qui conubium finitimis negassent; illas tamen in matrimonio, in
societate fortunarum omnium civitatisque et quo nihil carius humano generi sit
liberum fore[6].
Gli effetti della
filiazione per la concessione della cittadinanza sono
trattati dal giurista Gaio, il quale analizza la normativa della lex Minicia[7] e, in ragione di questa,
richiama anche la più arcaica norma di ius gentium per cui i figli devono seguire la condizione della
madre. Di tale ultima norma non è precisata la collocazione temporale, Gaio riferisce solo come questa sia remota e, dunque,
di certo antecedente
alla lex Micinia, senza che
ne sia determinabile l’effettiva arcaicità. In riferimento alla lex Minicia, collocabile nel I
sec. a.C.[8], il giurista
ricorda come questa distingua i casi di filiazione da matrimonio cum conubium, dai casi di sine
conubium. Nella prima fattispecie è prescritto che i figli seguano
status e cittadinanza del pater[9]; dunque, se il padre è
Latino, pur con madre romana, il figlio acquisterà la cittadinanza Latina[10]:
Iustas autem nuptias
contraxisse liberosque iis procreatos in potestate habere cives Romani ita
intelleguntur, si cives Romanas uxores duxerint vel etiam Latinas peregrinasve,
cum quibus conubium habeant: cum enim conubium id efficiat, ut liberi patris
condicionem sequantur, evenit, ut non solum cives Romani fiant, sed et in
potestate patris sint[11].
In caso di figli nati da un’unione tra soggetti privi di ius conubii, la lex Minicia prescrive, invece, che il figlio segua la condizione giuridica del soggetto dotato di condizione deteriore, ovvero lo status della persona priva di cittadinanza romana:
Quod autem diximus inter civem Romanum
peregrinamque nisi conubium sit, qui nascitur, peregrinum esse, lege Minicia cavetur, ut is quidem deterioris parentis condicionem sequatur. Eadem lege autem ex
diverso cavetur, ut si peregrinus, cum qua ei conubium non sit, uxorem duxerit civem Romanam, peregrinus ex eo coitu nascatur. Quod
autem diximus inter civem Romanum peregrinamque nisi conubium sit, qui
nascitur, peregrinum esse, lege Minicia cavetur, ut is quidem deterioris
parentis condicionem sequatur. Eadem lege autem ex diverso vavetur, ut si
peregrinus, cum qua ei conubium non sit, uxorem duxerit civem Romanam,
peregrinus ex eo coitu nascatur. Sed hoc maxime casu necessaria lex Minicia
fuit; nam remota ea lege diversam condicionem sequi debebat, quia ex eis, inter
quos non est conubium, qui nascitur, iure gentium matris condicioni accedit.
Qua parte autem iubet lex ex cive Romano et peregrina peregrinum nasci,
supervacua videtur; nam et remota ea lege hoc utique iure gentium futurum erat[12].
Questo
aspetto porta il giurista a ritenere supervacua
la specificazione
operata dalla lex Minicia sull’acquisto dello status di peregrinus da parte del figlio nato da madre peregrina e padre cittadino, poiché un simile risultato, riferisce, era già prescritto dalla richiamata norma di ius gentium[13]. Secondo
l’insegnamento di Gaio, la lex Minicia ha operato un capovolgimento
dell’assetto originario di ius gentium
basato
sulla condizione della madre, per introdurre due ordini di effetti: in caso di conubium lo status
del figlio si lega alla condizione del padre, in caso di sua assenza diviene
invece determinante la condizione del soggetto privo di cittadinanza romana.
Tale riforma del sistema di concessione della cittadinanza ha senz’altro
comportato nel I sec. a.C. la riduzione del numero dei nuovi nati
dotati di cittadinanza romana.
Il conubium[14], istituto particolarmente
arcaico, posto dalle fonti alle origini stesse di Roma e già presente nelle
comunità del Latium vetum[15], assume così un rilievo
importante nell’acquisto della cittadinanza per filiazione. Per
la definizione giuridica del conubium
sarà bene prendere le mosse dal noto passo dell’autore dei Tituli ex corpore Ulpiani[16]:
Conubium est
uxoris iure ducendae facultas. Conubium habent cives Romani cum civibus
Romanis, cum Latinis autem et peregrinis ita si concessum est[17].
Il connubio è, per il giurista,
quella facoltà dei cittadini romani di sposare una donna secondo lo ius[18]. Si tratta di un diritto in uso anche tra Romani e Latini, che può trovare
applicazione tra Romani e peregrini
purché ciò sia stato stabilito e concesso dallo ius[19].
Non contrasta con quanto appena visto la definizione del
grammatico
Servio[20], per il quale conubium est ius legitimi matrimonii[21], ovvero il diritto di
contrarre un matrimonio legittimo[22], riconosciuto dal sistema
giuridico-religioso romano.
L’effetto giuridico
della presenza di conubium è, dunque,
la costituzione di un legame matrimoniale riconosciuto dallo ius civile e conseguentemente definito dalle
fonti con le espressioni iustae/legitimae
nuptiae o iustum/legitimum
matrimonium[23].
Il conubium ha così rappresentato uno
strumento politico importante per i rapporti tra Romani e stranieri, tant’è
che, sovente, è concesso in sede di trattati[24].
Riporto qui
di seguito una parte del discorso pronunciato, secondo la ricostruzione di Tito Livio, dal delegato romano Lucius Furius Purpureo al Concilium
Aetolorum del 200 a.C.:
An Campanorum poenae,
de qua ne ipsi quidem queri possunt, nos paeniteat? Hi homines, cum pro iis
bellum adversus Samnites per annos prope septuaginta cum magnis nostris
cladibus gessissemus, ipsos foedere primum, deinde conubio atque inde
cognationibus, postremo civitate
nobis coniunxissemus, tempore nostro adverso primi omnium Italiae populorum,
praesidio nostro foede interfecto, ad Hannibalem defecerunt, deinde indignati
se obsideri a nobis Hannibalem ad oppugnandam Romam miserunt[25].
Il passo è
interessante per l’indicazione delle fasi di concessione della cittadinanza ai
Campani, anticipata da un foedus e dalla concessione del conubium. Emerge così l’evidente uso politico dell’istituto, particolarmente
rilevante all’interno della politica estera romana, per essere in grado di creare un fitto
insieme di legami con famiglie e gruppi stranieri[26] in previsione
della futura concessione della cittadinanza.
Il tema relativo all’acquisto della
cittadinanza romana attraverso l’adoptio
risulta piuttosto controverso[27]. L’istituto è espressamente inserito da
Ulpiano tra i modi di acquisto della cittadinanza ‘locale’ di un municipio, per
il quale municipem aut
nativitas facit aut manumissio aut adoptio[28]. Tuttavia, per il periodo precedente tale
aspetto non è attestato nelle fonti giuridiche. La definizione di Sesto Pompeo
Festo, ma attribuibile al giurista Elio Gallo[29], precisa, infatti, che municipes est, ut ait
Aelius Gallus, qui in municipio natus est[30] omettendo
dunque il richiamo all’adoptio tra i
modi di acquisto di questa cittadinanza ‘locale’.
Elementi a favore dell’acquisto della
cittadinanza romana attraverso l’adoptio
possono essere rilevati nell’epitaffio bilingue di Massavetere del medico L. Manneius,
la cui datazione è incerta, ma pacificamente collocabile nella tarda Repubblica[31]:
L(ucius) ∙ Manneius ∙ Q(uinti) ∙ medic(us) / veivos ∙
fecit ∙ φύσει
δὲ / Μενεκράτης Δημη/τρίου Τραλλιανός, / φυσικὸς οἰνοδότης / ζῶν ἐποίησεν [...][32].
L’iscrizione - riferita ad un medico di
origine greca, Menecrate figlio di Demetrio di Tralles, diventato poi cittadino
romano come L(ucius) Manneius - è
interessante perché potrebbe riportare un caso di acquisto della cittadinanza
romana attraverso adoptio. Tuttavia,
poiché l’epitaffio, a differenza della parte greca, non riporta nella parte
latina la formula ‘filius’ o ‘libertus’, è difficile determinare se Quintus possa essere il padre adottivo[33], ovvero l’ex dominus del medico[34].
La possibilità di adottare uno straniero si
può anche dedurre dall’adoptio del servus, espressamente prevista nelle
fonti:
Alioquin, inquit [scil. Masurius Sabinus] si iuris ista antiquitas servetur, etiam servus a domino per praetorem
dari in adoptionem potest[35].
Nel passo Gellio, successivamente alla
trattazione dell’adozione del liberto[36], ricorda le parole del giurista Masurio Sabino, il quale riferisce
dell’adoptio del servus, già ammessa da veteres auctores[37]; indicazione che permette di collocare verosimilmente questa
evenienza di certo in età repubblicana[38].
La possibilità dell’adoptio di un servus è ulteriormente regolata nella compilazione giustinianea[39]:
Apud Catonem bene scriptum
refert antiquitas, servi si a domino adoptati sint, ex hoc ipso posse liberari.
Unde et nos eruditi in nostra
constitutione etiam eum servum, quem dominus actis intervenientibus filium suum
nominaverit, liberum esse constituimus, licet hoc ad ius filii accipiendum ei
non sufficit[40].
Il passo, secondo la
dottrina dominante[41], si riferisce al figlio di Catone il Censore, M. Porcius Cato Licinianus, la cui morte è
attestata nel 152 a.C. a riprova della effettiva possibilità di adottare un servus in epoca repubblicana[42].
Sembrerebbe, pertanto, che l’adozione dello
straniero, al pari dell’adozione dello schiavo, dovesse essere ammessa a Roma.
Altro modo ‘privato’
di acquisto della cittadinanza romana è la manumissio[43], quell’atto
volontario del dominus, attraverso
il quale il servus acquista lo status di uomo libero e,
conseguentemente, una civitas[44].
La definizione giuridica
dell’istituto è fornita da Ulpiano:
Manumissiones
quoque iuris gentium sunt. Est autem manumissio de manu missio, id est datio
libertatis: nam quamdiu quis in servitute est, manui et potestati suppositus
est, manumissus liberatur potestate. Quae res a iure gentium originem sumpsit,
utpote cum iure naturali omnes liberi nascerentur nec esset nota manumissio,
cum servitus esset incognita: sed posteaquam iure gentium servitus invasit,
secutum est beneficium manumissionis. Et cum uno naturali nomine homines
appellaremur, iure gentium tria genera esse coeperunt: liberi et his contrarium
servi et tertium genus liberti, id est hi qui desierant esse servi[45].
Sia l’atto di
manomissione, sia la stessa condizione servile[46]
sono collocati dal giurista nell’ambito dello ius gentium[47], in contrapposizione alla naturale
condizione di libertà che caratterizza gli uomini[48]. In tal senso, la
manomissione è quell’istituto che, contrastando lo squilibrio arrecato dalla
schiavitù, permette di riportare ai principi del diritto naturale i soggetti
privati della libertà attraverso la datio
libertatis che determina la fuoriuscita del servus dalla manus del dominus.
Le diverse forme di manumissiones sono sovente estrinsecazione di un potere discrezionale proprio del
cittadino romano che può liberamente attribuire libertas e civitas al
proprio servus. L’intervento del
magistrato nella manumissio vindicta, indipendentemente dal valore
che si voglia attribuire all’addictio[49], poiché si tratta di un
atto dovuto, non limita questa facultas del dominus. Differente è, invece, il discorso sulle
manomissioni dei servi publici[50], la cui manumissio, in ragione della loro
peculiare condizione, è decisa dal populus
Romanus[51].
Il potere di
affrancazione sui propri servi accorda al cittadino romano la facultas di attribuire la cittadinanza romana[52]. Si tratta di un potere
tanto rilevante ed applicato che più avanti sarà limitato, seppur non
eliminato,
attraverso forme di restrizione che comporteranno la concessione dello status di latino o di peregrino e non più di
romano[53].
I requisiti necessari affinché alla manumissio consegua l’attribuzione della
civitas Romana sono enumerati da Gaio:
Nam in cuius personam
tria haec concurrunt, ut maior sit annorum triginta et ex iure Quiritium domini
et iusta ac legitima manumissione liberetur, id est vindicta aut censu aut
testamento, is civis Romanus fit; sin vero aliquid eorum deerit, Latinus erit[54].
Il giurista precisa gli
elementi che devono
sussistere congiuntamente affinché la manomissione comporti, come ulteriore
effetto giuridico, la concessione della civitas Romana al liberto: essere maggiore di
trent’anni, sottoposto a un dominium ex
iure Quiritium e manomesso tramite una manumissio
iusta e
legitima. Qualora manchi anche uno solo di questi requisiti, Gaio riferisce che il servo
liberato non otterrà la cittadinanza romana, pur se vi sarà in ogni caso
l’assegnazione
della civitas Latina.
Il passo è
interessante perché sembra escludere, in caso di liberazione di un servus, il possibile verificarsi di situazioni
di apolidia. Pertanto, se la libertas è,
come si è visto sopra, la condizione naturale dell’individuo, altrettanto si
può dire della cittadinanza, giacché il servus,
una volta liberato[55], acquisterà ipso
iure una civitas.
Varrebbe forse la pena di approfondire in altra sede il fondamento del
principio che ne deriverebbe, ovvero se, in via di principio, un
individuo libero che condivide gli elementi fondamentali di un determinato
sistema giuridico debba essere civis di
tale
sistema[56].
La connessione tra manumissio ed acquisto automatico della
cittadinanza è ricondotta da Dionigi di Alicarnasso ad una lex di Servio Tullio:
Ξένους ὑποδεχόμενοι καὶ μεταδιδόντες τῆς
ἰσοπολιτείας φύσιν τ´ ἢ τύχην αὐτῶν οὐδεμίαν ἀπαξιοῦντες,
εἰς
πολυανθρωπίαν προήγαγον
τὴν πόλιν. Ὁ δὲ Τύλλιος
καὶ τοῖς ἐλευθερουμένοις τῶν
θεραπόντων, ἐὰν μὴ θέλωσιν εἰς τὰς ἑαυτῶν πόλεις ἀπιέναι, μετέχειν τῆς
ἰσοπολιτείας ἐπέτρεψε. Κελεύσας γὰρ
ἅμα τοῖς ἄλλοις ἅπασιν ἐλευθέροις καὶ τούτους
τιμήσασθαι
τὰς οὐσίας, εἰς φυλὰς
κατέταξεν
αὐτοὺς τὰς κατὰ πόλιν τέτταρας ὑπαρχούσας,
ἐν αἷς καὶ μέχρι τῶν
καθ´ ἡμᾶς χρόνων
ταττόμενον
διατελεῖ
τὸ ἐξελευθερικὸν φῦλον, ὅσον ἂν ᾖ· καὶ πάντων ἀπέδωκε τῶν
κοινῶν αὐτοῖς μετέχειν, ὧν
τοῖς ἄλλοις
δημοτικοῖς[57].
Servio[58], secondo la ricostruzione
dello storico greco, stabilisce che con la manomissione i liberti vengono distribuiti nelle quattro tribù
urbane, acquistando così la piena cittadinanza romana[59]. La narrazione dionisiana
prosegue con il discorso di Servio Tullio, il quale giustifica la propria
decisione:
Χωρὶς δὲ τοῦ κοινῇ χρησίμου καὶ ἰδίᾳ πολλὰ ὠφελήσεσθαι τοὺς εὐπορωτάτους
Ῥωμαίων, ἐὰν
τοὺς ἀπελευθέρους ἐῶσι τῆς πολιτείας
μετέχειν, ἐν ἐκκλησίαις τε καὶ
ψηφοφορίαις καὶ ταῖς ἄλλαις
πολιτικαῖς χρείαις τὰς χάριτας, ἐν οἷς μάλιστα δέονται πράγμασι,
κομιζομένους καὶ τοὺς ἐκ τῶν ἀπελευθέρων
γινομένους πελάτας
τοῖς ἐγγόνοις τοῖς ἑαυτῶν καταλείποντας[60].
Nel brano, il discorso del rex evidenzia i grandi benefici politici e militari che la riforma
porterà a Roma, giacché i liberti muniti di cittadinanza potranno partecipare
alle assemblee ed ivi votarvi, compiacendo così i patroni, nonché far parte
dell’esercito, assicurando così una fonte inesauribile di nuovi soldati romani.
Secondo Gabba, le motivazioni addotte da Servio, che evidenziano in particolare l’utilitas della riforma per i patrizi, potrebbero
essere una rielaborazione postuma[61], poiché un tale ragionamento, così palesemente teso
a placare le ire dei patrizi, deve ritenersi in contrasto con la politica filo-popolare che ha
distinto tale rex. In ogni caso, il
fenomeno di servirsi di liberti per ottenere la maggioranza nelle votazioni
comiziali, o per avere nell’esercito un seguito di fedelissimi su cui contare, non è un fatto insolito in Roma arcaica[62], fatto che può aver
contribuito a rendere la manumissio
dei servi e la loro ammissione alla civitas un aspetto politicamente
rilevante nella storia antica.
Il massiccio uso di manomissioni
determinerà in seguito la politica restrittiva di Augusto, volta a limitare il numero massimo di servi che un unico cittadino romano
poteva legittimamente liberare[63]. Va, in ogni caso, rilevato che, pur se non sono
mancati di tanto in tanto atteggiamenti contrastanti[64],
è riscontrabile nelle fonti un giudizio positivo circa la concessione della
cittadinanza ai servi manomessi, sia da parte degli stessi Romani, sia da parte degli stranieri, per i
quali è,
in alcuni casi, un esempio da seguire[65]. Ciò è bene evidenziato in un passo di Dionigi di Alicarnasso:
'Ρωμύλου
δέ την
έπώνυμον αύτοΰ
πόλιν
οίκίσαντος έκκαίδεκα
γενεαΐς των
Τρωικών
ύστερον, ην νϋν
εχουσιν
όνομασίαν
μεταλαβόντες,
έθνος τε
μέγιστον έξ ελαχίστου
γενέσθαι χρόνω
παρεσχεύασαν
καί περιφανέστατον
έξ άδηλοτάτου,
των τε
δεομένων
οίκήσεως παρά
σφίσι
φιλανθρώπφ
υποδοχή καί
πολιτείας μεταδόσει
τοις μετά τοΰ
γενναίου έν
πολέμω
κρατηθεΐσι,
δούλων τε δσοι
παρ* αύτοΐς
έλευθερωθεϊεν
άστοίς είναι
συγχωρήσει,
τύχης τε
ανθρώπων
ουδεμιάς εί
μέλλοι τό κοινον
ώφελείν
απαξιώσει·
υπέρ ταύτα δέ
πάντα κόσμφ
τοΰ
κολιτεύματος,
ον έκ πολλών
κατεστήσαντο
παθημάτων, έκ
παντός καιρού
λαμβάνοντες τι
χρήσιμον[66].
Lo storico afferma che i Romani - tra utilitas per la Res publica e pura filantropia - hanno sempre generosamente concesso la cittadinanza[67]. In un contesto di esaltazione della grandezza Romana, Dionigi spiega come Roma
sia cresciuta anche grazie
alla concessione della cittadinanza a stranieri, nemici vinti e schiavi
liberati. Questa tendenza, che caratterizzerà specialmente
l’esperienza giuridica romana antica, è
rilevabile dalla fondazione stessa di Roma.
La
percezione esterna della politica di concessione della cittadinanza ai servi
manomessi
emerge con chiarezza dalla lettera del 215 a.C. di Filippo V re di Macedonia ai
Larissei, in cui questi esorta i propri sudditi a seguire
l’esempio romano per risolvere la profonda crisi demografica della città
tessala:
ᾮν καὶ οἱ ‘Ρωμαῖ|οί εἰσιν, οῖ καὶ τοὐς oἰκέτας οταν ἐλευθερώσωςίν
προσδεχόμενοι
εἰς τὸ πολίτευμα
καὶ τῶν ἀρχαίον
με[ταδι]δόντες[68].
Il re esalta
l’usanza romana di liberare i propri servi ed accoglierli nella cittadinanza,
evidenziando come, in tal modo, Roma abbia potuto contare su un importante
fattore di crescita e forza, senza le limitazioni etniche che nelle popolazioni greche hanno determinato un grave
impoverimento demografico[69].
A
conclusione dell’analisi sui modi ‘privati’ di acquisto della cittadinanza, si analizzeranno
ora quei modi tipici dei Latini[70], ma assegnabili per lex anche a stranieri, attraverso i
quali soggetti determinati possono ottenere la cittadinanza romana mediante
iscrizione alle liste censitarie romane, ovvero mediante dichiarazione ad un magistrato.
Si è detto
che si tratta di un genus
particolare, non immediatamente assimilabile ai modi ‘pubblici’ di concessione
della cittadinanza che si vedranno appresso e, per alcune caratteristiche, in
qualche modo accomunabile ai modi ‘privati’ di acquisto della civitas. In particolare, in questi modi
di acquisto compartecipano tre distinti elementi: il diritto concesso dal sistema romano di acquistare la
cittadinanza, la volontà dell’individuo di beneficiare di tale diritto, rinunciando così alla propria
cittadinanza, e l’atto pubblico di iscrizione al censo (o diversa dichiarazione) che, nel
caso sussistano i requisiti prescritti, diviene un atto costitutivo dovuto. Proprio in
considerazione del necessario compimento di tale atto volontario, gli acquisti
della cittadinanza qui analizzati sono stati trattati congiuntamente ai modi
‘privati’.
Un primo
rilevante diritto, perfettamente riassunto nella formula in
civitatem Romanam per migrationem et censum transire[71], si fonda
sullo ius migrandi[72], un antico privilegio concesso ai Latini[73], già
presente per De Ruggiero in uno degli accordi inseriti nell’antico trattato d’alleanza
tra Lazio e Roma[74]. Tale ius, una volta stabilito il domicilio
in Roma, permette di acquistare la cittadinanza romana con la semplice iscrizione
operata dal censore nelle liste dei cittadini[75].
Lo ius migrandi è stato certamente
utilizzato ampiamente, con conseguenti effetti negativi di spopolamento per il popolo Latino. Ciò è attestato da un racconto di Tito
Livio:
Legatis
deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes
convenerant, senatus datus est. His querentibus magnam multitudinem civium
suorum Romam commigrasse et ibi censos esse, Q. Terentio Culleoni praetori
negotium datum est, ut eos conquireret, et quem C. Claudio M. Livio censoribus
postue eos censores ipsum parentemve eius apud se censum esse probassent socii,
ut redire eo cogeret, ubi censi essent. Hac conquisitione duodecim milia
Latinorum domos redierunt, iam tum multitudine alienigenarum urbem onerante[76].
Il passo narra i fatti del 187 a.C. relativi all’arrivo a Roma dei
legati sociorum Latini nominis[77].
L’ambasciata si reca a Roma per chiedere un pronto intervento delle istituzioni
romane al fine di addivenire ad una soluzione che risolva il grave problema di spopolamento causato
dalla migrazione di molti Latini che avevano acquistato la cittadinanza romana mediante
l’iscrizione al censo. Secondo la ricostruzione liviana, si affida
al
pretore Terenzio Culleone l’incarico di avviare un’inchiesta che, una
volta conclusasi, farà emergere problematiche su ben 12.000 Latini iscritti al
censo. Tali soggetti saranno privati della cittadinanza romana e fatti rientrare nelle proprie città, pur se il passo non spiega
chiaramente le motivazioni giuridiche a fondamento di un simile provvedimento.
Non si può certo
affermare che i Latini espulsi avessero ottenuto la cittadinanza romana
in violazione del requisito della dimora a Roma, giacché Livio espressamente
dice che questi domos redierunt, fatto che
presuppone la loro residenza nell’Urbs e non invece nelle città
d’origine. Si può solo ipotizzare o che i Latini espulsi fossero congiuntamente
iscritti sia alle liste censitarie romane, sia a quelle delle loro città d’origine, e
che l’eventuale possibilità di una doppia cittadinanza[78]
fosse all’epoca condizione
idonea a
determinare un tale provvedimento estremo, o che l’acquisto della cittadinanza
attraverso lo ius migrandi fosse
subordinata ad alcune condizioni. Proprio la possibile sussistenza di limiti
allo ius migrandi emerge da una lex Claudia de sociis[79] richiamata
da Tito Livio:
Lex
sociis [ac] nominis Latini, qui stirpem ex sese domi relinquerent, dabat, ut
cives Romani fierent. Ea lege male utendo alii sociis, alii populo Romano
iniuriam faciebant. Nam et ne stirpem domi relinquerent, liberos suos
quibuslibet Romanis in eam condicionem, ut manu mitterentur, mancipio dabant,
libertinique cives essent; et quibus stirps deesset, quam relinquerent, ut
cives Romani * * fiebant. Postea his quoque imaginibus iuris spretis, promiscue
sine lege, sine stirpe in civitatem Romanam per migrationem et censum
transibant. Haec ne postea
fierent, petebant legati, et ut redire in civitates iuberent socios; deinde ut
lege cauerent, ne quis quem civitatis mutandae causa suum faceret neue
alienaret; et si quis ita civis
Romanus factus esset, <civis ne esset>. Haec
impetrata ab senatu[80].
Lo storico
riferisce le richieste delle delegazioni socium nominis Latini del 177
a.C., analoghe a quelle di appena 10
anni prima viste sopra, le quali giungono in Senato per lamentarsi
ancora una volta dello spopolamento delle loro terre. Questa volta l’ambasceria
precisa l’antigiuridicità dei cambi di cittadinanza, ottenuti in violazione della
richiamata lex Claudia[81]
che consentiva di acquistare la cittadinanza romana trasferendosi a Roma e
lasciando nelle città d’origine la propria stirpe.
Il passo non è integro nella parte che qui è più rilevante[82], ovvero
nella precisazione dei tipi di frode lamentati dalla delegazione. È chiaro,
infatti, che alcuni soci fossero soliti aggirare la legge dando in mancipium la prole a cittadini romani,
dietro accordo che questi poi la manomettessero con conseguente acquisto della
cittadinanza romana[83].
Tuttavia, non è dato conoscere inequivocabilmente il secondo tipo di uso
distorto della lex richiamato nel
passo. Si può, tuttavia, ipotizzare che il richiamo al ‘suum faceret’ accanto all’‘alienaret’, possa leggersi come la prassi di adottare un soggetto al solo fine di
avere i requisiti necessari per ottenere la cittadinanza[84].
Va, tuttavia, rilevato che, poco oltre, Livio precisa l’adozione da parte
del Senato di una deliberazione in accoglimento delle richieste delle delegazioni socium nominis Latini per cui all’atto
della manomissione, il dominus
avrebbe dovuto prestare davanti al magistrato un giuramento attraverso il quale
dichiarava solennemente che la manumissio
non era compiuta al mero scopo di modificare la cittadinanza. La
sanzione in caso di rifiuto del giuramento era l’inefficacia della manomissione
stessa:
Ad legem et edictum
consulis senatus consultum adiectum est, ut dictator, consul, interrex, censor,
praetor, qui nunc esset <quive postea futurus esset>, apud eorum quem
<qui> manu mitteretur, in libertatem vindicaretur, ut ius iurandum daret,
qui eum manu mitteret, civitatis mutandae causa manu non mittere; in quo id non
iuraret, eum manu mittendum non censuerunt[85].
Nonostante le lacune,
per quanto qui rileva, il racconto liviano è interessante perché esprime
chiaramente il largo uso dello ius
migrandi, sino alla sua definitiva abrogazione nel 95 a.C. attraverso la lex Licinia Mucia de civibus redigundis[86].
Altro
beneficio[87],
stavolta esteso a tutti gli stranieri[88], attraverso
il quale un soggetto può decidere di acquistare la cittadinanza romana è
stabilito dalla lex Acilia repetundarum,
un plebiscito fatto votare da M. Acilus Glabrio - tribuno collega di Caio
Gracco - nel 123-122 a.C.[89] attraverso il quale si
prometteva la cittadinanza romana allo straniero che avesse intentato con
successo un processo repetundarum. Qui si riporta la parte
significativa per questa ricerca:
De civitate danda sei quis eoru//m quei ceivis Romanus non erit ex hace
lege alteri nomen [--- ad praetor]em quoius ex hace lege quaestio erit
detolerit et is [eo] iudicio hace lege condemnatus erit tu[m eis quei eius
nomen detolerit quoius eorum opera maxime unius eum condemnatum esse
constiterit --- sei volet ipse filieique quei eiei gnatei] / [erunt quom] //
ceivis Romanus ex hace lege fiet nepotesque [tu]m eiei filio gnateis ceivis
Romanei iustei sunto [et in quam tribum quoius is nomen ex h(ace) l(ege)
detolerit sufragium tulerit in eam tribum sufragiu]m ferunto inque ea[m] tribum
censento militiaeque eis vocatio esto aera stipendiaque o[mnia eis merita sunto
neiqui magistratus prove magistratu][90].
La cittadinanza
romana è nel plebiscito in esame uno dei premi cui avrà diritto lo straniero
che abbia
fondatamente mosso l’accusa di crimen
repetundarum contro un cittadino romano[91] risultato condannato nel
relativo processo. Per lo straniero che non avesse accettato la cittadinanza
romana è, in ogni caso, previsto il beneficio di godere a Roma dello ius provocationis[92]. Anche nel
caso richiamato, dunque, emerge la volontarietà, ovvero la scelta autonoma dell’individuo di beneficiare
della cittadinanza.
Si fonda
sempre su
un plebiscito, la lex Plautia Papiria de
civitate proposta dai tribuni C.
Papirius Carbo e M. Plautius Silvanus dell’89 a.C., la
possibilità per tutti i socii domiciliati in Italia di ottenere la cittadinanza romana attraverso la
semplice presentazione di una dichiarazione al pretore. Il contenuto della
norma è ricordato da Cicerone:
Data est
civitas Silvani lege et Carbonis: si qui foederatis civitatibus adscripti fuissent;
si tum, quum lex ferebatur, in Italia domicilium habuissent; et, si sexaginta
diebus apud praetorem essent professi[93].
Secondo A.N. Sherwin-White il
passo riporterebbe una clausola integrativa della precedente lex Iulia, analizzata nel paragrafo successivo, nella quale non era
stato disciplinato il caso di concessione della cittadinanza anche agli adscripticii delle città federate[94].
Tali modi di
acquisto della cittadinanza rappresentano uno strumento interessante che
consente l’integrazione nel sistema romano di determinati soggetti, siano essi
membri di specifiche civitates,
ovvero specificatamente riconosciuti meritevoli, lasciando che siano questi a
scegliere volontariamente la civitas
Romana.
I modi qui definiti
‘pubblici’ riguardano concessioni della
cittadinanza operate
attraverso il necessario intervento delle istituzioni romane. L’uso
politico che si fa di queste concessioni, le cui finalità variano a seconda del
periodo storico analizzato, è in tali casi particolarmente evidente.
Questi modi
di datio della cittadinanza
romana particolarmente elastici possono essere rivolti sia singoli individui, sia comunità più
vaste.
Durante il Regnum, si assiste alla concessione della
cittadinanza da parte del rex, mentre, in epoca repubblicana, è la lex lo strumento principale di
concessione della civitas Romana[95].
I modi più arcaici di
concessione della cittadinanza
romana
durante il Regnum sono ricondotti,
dalle fonti letterarie, ai poteri del rex,
pur se, data l’inadeguatezza delle fonti, è impossibile valutare se in ciò vi sia l’indicazione completa degli
strumenti per la concessione della civitas
dell’età regia.
L’istituto più arcaico per la
concessione della cittadinanza romana coincide, secondo il racconto tradizionale
riferito da Tito Livio, con l’asylum romuleo:
Nobilis Romulus
imaginem urbis magis quam urbem fecerat: nam incolae deerant. Erat in proximo
vetus lucus; Romulus eum asylum facit, et statim singularis vis hominum
collecta est: Latini Tuscique pastores, quidam etiam transmarini: Phryges sub
miti Aenea, Arcades sub insigni Evandro duce influxerant. Ita ex
variis elementis congregavit potens corpus unum, populumque Romanum insignis
rex fecit. Sed omnes viri unius aetatis erant. Itaque quia matrimonia a
nationibus finitimis petiverant et non impetrabant, feroci vi ea ceperunt.
Simulaverunt ludos equestres; virgines ad spectaculum venerant et praedae fuere[96].
Secondo la
tradizione accolta da Livio, Romolo apre le porte della nuova città a varii elementi, sia liberi, sia
servi, i quali, in tal modo, divengono nuovi cives[97]. I soggetti che
usufruiscono dell’asylum acquistano
la cittadinanza romana e parimenti la libertà, nel caso in cui la
loro condizione fosse di servi. In
tal modo l’asylum diviene uno
strumento fondamentale per la consolidazione stessa di Roma[98].
Al di fuori dell’istituto dell’asylum, le fonti riferiscono al rex altri modi di concessione della cittadinanza. Sul punto, un’importante testimonianza riferita a Romolo può
leggersi in un
passo liviano:
Duplicique victoria ovantem Romulum
Hersilia coniunx precibus raptarum fatigata orat ut parentibus earum det veniam
et in civitatem accipiat: ita rem coalescere concordia posse[99].
La moglie di
Romolo, Ersilia,
chiede al proprio marito di rendere cittadini i parenti delle Sabine rapte e sposate dai Romani. Dal
passo emerge chiaramente il potere del rex di concedere autonomamente la cittadinanza.
Le fonti
ricordano poi altri atti di concessione della cittadinanza ad opera dei
reges successivi. La
concessione effettuata dal terzo re di Roma, Tullo Ostilio, è riportata in
un passo
di
Dionigi di Alicarnasso in cui si ricorda la distruzione di Alba Longa e il
successivo assorbimento dei suoi cittadini come civis romani:
Οὐδὲν ἔτι ἔξεστιν ὑμῖν νεωτερίζειν
οὐδ´ ἐξαμαρτάνειν, ἄνδρες Ἀλβανοί. Ὑμεῖς γὰρ ἂν παρακινεῖν τι
τολμήσητε, πάντες ἀπολεῖσθε ὑπὸ τούτων· δείξας τοὺς ἔχοντας τὰ ξίφη. Δέχεσθε
Oὖν τὰ διδόμενα
καὶ γίνεσθε ἀπὸ τοῦ χρόνου τοῦδε Ῥωμαῖοι. Δυεῖν γὰρ ἀνάγκη
θάτερον ὑμᾶς
ποιεῖν ἢ Ῥώμην
κατοικεῖν ἢ
μηδεμίαν ἑτέραν
γῆν ἔχειν
πατρίδα. Οἴχεται γὰρ ἕωθεν
ἐκπεμφθεὶς ὑπ´ ἐμοῦ Μάρκος Ὁράτιος
ἀναιρήσων
τὴν πόλιν ὑμῶν ἐκ θεμελίων καὶ τοὺς ἀνθρώπους
ἅπαντας εἰς Ῥώμην
μετάξων.
Ταῦτα οὖν εἰδότες ὅσον
οὔπω γενησόμενα παύσασθε θανατῶντες καὶ ποιεῖτε τὰ
κελευόμενα.
Μέττιον δὲ Φουφέττιον ἀφανῶς τε ἡμῖν ἐπιβουλεύσαντα καὶ οὐδὲ νῦν ὀκνήσαντα
ἐπὶ τὰ ὅπλα
τοὺς
ταραχώδεις
καὶ
στασιαστὰς καλεῖν τιμωρήσομαι τῆς κακῆς καὶ δολίου ψυχῆς ἀξίως[100].
Dionigi rappresenta
la ricostruzione del discorso di Tullo Ostilio atto ad esortare gli Albani a
trasferirsi a Roma e conseguentemente divenire cittadini romani. Il rex, in particolare, quale condizione di
resa, concede agli Albani la cittadinanza romana in cambio del loro
trasferimento Roma. Attraverso tale provvedimento, Roma si amplia ancora una
volta sia
nel numero dei cives, sia da un punto
di vista territoriale con l’annessione del monte Celio[101].
Altra
concessione della cittadinanza attribuita ad Anco Marzio è ricordata da Tito Livio in un passo sulla vittoria dei
Romani contro la città Latina di Politorio:
Ancus [...] exercitu novo conscripto profectus,
Politorium, urbem Latinorum, vi cepit; secutusque morem regum priorum, qui rem
Romanam auxerant hostibus in civitatem accipiendis, multitudinem omnem Romam
traduxit. Et cum circa Palatium, sedem veterum Romanorum, Sabini Capitolium
atque arcem, Caelium montem Albani implessent, Aventinum novae multitudini
datum[102].
Livio riferisce che
Anco Marzio concede la cittadinanza ai vinti, integrandoli così nella civitas Romana, nel rispetto di quella che era la tradizione dei
suoi predecessori. Anche in seguito a tale concessione si determinerà una modifica
dell’assetto territoriale e numerico di Roma.
Pur se, come si è
detto, lo stato
delle fonti rende impossibile operare un’analisi dettagliata dei modi di concessione della
cittadinanza che hanno caratterizzato il Regnum; dalle fonti
richiamate, sembra, in ogni caso, evidente che in questa prima fase la concessione della
cittadinanza rappresenti già uno
strumento politico. Nello specifico, la civitas
è concessa per integrare e accrescere Roma[103],
sia numericamente, sia territorialmente. Ciò emerge anche dalla terminologia
utilizzata nei passi: per
Romolo si parla di congregare ovvero,
su richiesta di Ersilia, di accipere;
accipere è utilizzato sempre da Livio
per la concessione della cittadinanza operata da Anco Marzio, mentre Dionigi
utilizza per Tullo Ostilio il verbo κατοικέω. Tutti i passi
analizzati, dunque, parlano di concessioni per assimilazione in stretto
contatto con l’Urbs[104].
I nuovi cittadini, siano essi stranieri, servi o popolazioni vinte, diventano, in vario modo, parte di Roma.
Le leges rappresentano lo strumento per
eccellenza di concessione della civitas
Romana in epoca repubblicana, siano esse le leggi votate nei comizi, i plebiscita,
ovvero
i provvedimenti dei magistrati dotati di imperium[105]. Si tratta di uno strumento che si adatta bene
all’uso romano di operare concessioni di differente portata e tipo a seconda
delle esigenze del caso. La tendenza a rapportare la scelta dei contenuti
della concessione a precise valutazioni ed esigenze specifiche, emerge chiaramente
in un passo di Tito Livio:
‘Patres conscripti,
quod bello armisque in Latio agendum fuit, id iam deum benignitate ac virtute
militum ad finem Venit. Caesi ad Pedum Asturamque sunt exercitus hostium;
oppida Latina omnia et Antium ex Volscis aut vi capta aut recepta in deditionem
praesidiis tenentur vestris. Reliqua consultatio est, quoniam rebellando saepius
nos sollicitant, quonam modo perpetua pace quietos obtineamus. Dii immortales
ita vos potentes huius consilii fecerunt ut, sit Latium deinde an non sit, in
vestra manu posuerint; itaque pacem vobis, quod ad Latinos attinet, parare in
perpetuum vel saeviendo vel ignoscendo potestis. Voltis crudeliter consulere in
deditos victosque? Licet delere omne Latium, vastas inde solitudines facere,
unde sociali egregio exercitu per multa bella magnaque saepe usi estis. Voltis
exemplo maiorum augere rem Romanam victos in civitatem accipiendo? Materia
crescendi per summam gloriam suppeditat. Certe id firmissimum longe imperium
est quo oboedientes gaudent. Sed maturato opus est quidquid statuere placet;
tot populos inter spem metumque suspensos animi habetis; et vestram itaque de
eis curam quam primum absolui et illorum animos, dum exspectatione stupent, seu
poena seu beneficio praeoccupari oportet. Nostrum fuit efficere ut omnium rerum
vobis ad consulendum potestas esset; vestrum est decernere quod optimum vobis reique
publicae sit’[106].
Il testo
riporta il discorso di Furio Camillo che, evidenziando l’attuale vittoria ed egemonia romana sui Latini, chiede al Senato di adottare
provvedimenti tesi al mantenimento di una pace duratura con le
popolazioni sottomesse secondo l’esempio degli antichi, i quali
hanno reso cittadini i vinti in battaglia, poiché, evidenzia il dictator, è più agevole governare una popolazione serena.
Secondo la
ricostruzione liviana, il princeps del Senato, pur giudicando
corrette le parole pronunciate da Camillo, ritiene più opportuno procedere a
concessioni della cittadinanza solo successivamente alla valutazione specifica
degli elementi che hanno caratterizzato la condotta di ogni singolo popolo:
Principes senatus relationem consulis de
summa rerum laudare sed, cum aliorum causa alia esset, ita expediri posse
consilium dicere, [si] ut pro merito cuiusque statueretur, [si] de singulis
nominatim referrent populis. Relatum igitur de singulis decretumque[107].
In tal modo, si procede con
diverse forme di concessione più o meno ampie a seconda dell’atteggiamento
tenuto dalle singole civitates durante la guerra[108].
Il passo è
interessante anche per un ulteriore aspetto; la deferenza del dictator è, infatti, tale che, pur con
l’ampiezza dei suoi poteri, questi si attiene al consilium del Senato, la cui decisione appare essenziale nella
valutazione della concessione ‘pubblica’ della cittadinanza romana e dei suoi
eventuali limiti.
È notevole il numero di
concessioni della cittadinanza romana attraverso leges rogatae o plebiscita[109] di cui è rimasta traccia nelle
fonti.
L’evento più risalente di cui si ha
notizia è la concessione della cittadinanza del 504 a.C. ad Appio Claudio,
considerato il principale strumento di successo nella guerra con i Sabini, e al
suo seguito:
Ταύτην ὀρρωδῶν τὴν δίκην·
ἔδει γὰρ αὐτὴν ὑπὸ τῶν ἄλλων δικασθῆναι πόλεων· ἀναλαβὼν τὰ χρήματα καὶ τοὺς φίλους τοῖς Ῥωμαίοις προστίθεται ῥοπήν τ´ οὐ μικρὰν εἰς τὰ πράγματα
παρέσχε
καὶ τοῦ κατορθωθῆναι τόνδε τὸν πόλεμον
ἁπάντων
ἔδοξεν αἰτιώτατος γενέσθαι· ἀνθ´ ὧν ἡ βουλὴ καὶ ὁ δῆμος
εἴς τε τοὺς πατρικίους αὐτὸν ἐνέγραψε
καὶ τῆς πόλεως
μοῖραν
εἴασεν ὅσην ἐβούλετο λαβεῖν εἰς
κατασκευὴν οἰκιῶν χώραν
τ´ αὐτῷ προσέθηκεν
ἐκ τῆς
δημοσίας τὴν μεταξὺ Φιδήνης
καὶ
Πικετίας[110].
Dionigi
utilizza il verbo ἐγγράφω per specificare l’iscrizione di
Claudio a patrizio che diviene così cittadino romano unitamente
all’assegnazione di ager. Il passo purtroppo
non chiarisce esattamente i modi di concessione della civitas Romana e, pertanto, non consente di affermare con certezza
che ci si trovi davanti ad una concessione mediante lex; in ogni caso il passo precisa che il provvedimento con cui Attius Clausus è divenuto patrizio e
cittadino romano è stato assunto con decisione unanime di Senato e Popolo.
Altra
arcaica, seppur anch’essa controversa, possibile concessione della cittadinanza romana
mediante lex è collocabile intorno all’anno 458 a.C.:
Eo
die L. Mamilio Tusculano, adprobantibus cunctis, civitas data est[111].
Si tratta
della menzione, piuttosto sintetica, della concessione personale a L. Mamilio Tusculano. Il fatto che Livio
precisi che la concessione della cittadinanza
sia avvenuta adprobantio
cunctis può,
tuttavia, far ipotizzare che ci sia stato l’intervento di partes
politiche, forse proprio di Senato e Popolo come emerge dal passo di Dionigi,
rispettivamente per autorizzarne l’evento ed assumere un conseguente provvedimento
che possa far rientrare questa concessione tra quelle mediante leges. In ogni caso,
non si può tacere che in dottrina
l’attendibilità di tale concessione è fortemente criticata[112], in ragione principalmente dell’alta risalenza della stessa.
La norma più risalente considerata generalmente come attendibile è collocata tra il 389 e il 365 a.C. e coincide con la concessione della cittadinanza a quei Veienti, Capenati e Falisci che, durante la guerra contro Veio, sono stati dalla parte dei Romani[113]:
Eo anno in civitatem
accepti qui Veientium Capenatiumque ac Faliscorum per ea bella transfugerant ad
Romanos, agerque his novis civibus adsignatus[114].
Il passo non fornisce informazioni sullo
specifico provvedimento adottato. Tuttavia, considerato
che si tratta di un tipo di concessione diretta a premiare il comportamento di
determinati individui, i quali sono assimilati alla civitas anche con assegnazione di appezzamenti di terra, si può certamente
dedurre si tratti di una lex.
Più avanti nella narrazione liviana troviamo il richiamo alla lex Papiria de civitate Acerranorum, una legge dal contenuto simile alla precedente datata 332 a.C. e proposta dal praetor L. Papirio[115] che, tuttavia, concede una civitas sine suffragio:
Romani facti Acerrani
lege ab L. Papirio praetore lata, qua civitas sine suffragio data[116].
Nel 111 a.C. si avrà
una lex agraria[117] nella quale
è ricordata la concessione, anch’essa di natura premiale, di terre e forse di cittadinanza
romana[118] a quei popoli amici
di Roma e soldati
cartaginesi, i quali - nell’ultima guerra punica – non avevano combattuto contro Roma o avevano disertato per
unirsi alle fila di Scipione.
Molteplici
furono in seguito i provvedimenti normativi di concessione della cittadinanza con riferimento alla
spinosa questione degli Italici[119]. Proseguendo, è
interessante richiamare la lex Iulia de
civitate Latinis et sociis danda del 90-89 a.C.[120], la cui
effettiva portata è discussa in dottrina in ragione delle difficoltà
interpretative della prescrizione qui fundi populi facti non essent civitatem non haberent[121]:
Ipsa denique Iulia,
qua lege civitas est sociis et Latinis data, qui fundi populi facti non essent
civitatem non haberent. In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum
fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati
anteferret[122].
Tale legge concede
la cittadinanza optimo iure a soci e Latini; è tuttavia discusso se la concessione sia
stata operata in ragione della premiata condotta di quei popoli che non
avessero preso
le armi contro Roma o, in ogni caso, le avessero deposte[123], ovvero se si tratti
di una mera offerta sub condizione della cittadinanza[124]. La discussione di
Eraclensi e Napoletani, che valutano con difficoltà l’abbandono del loro vigente diritto, fa capire
che questa datio civitatis prescrive
espressamente l’estensione dell’applicazione del diritto romano ai nuovi
cittadini. Tale aspetto, tuttavia, non inficia la natura premiale della
concessione che, secondo la narrazione di Velleio Patercolo, è diretta a qui arma aut non
ceperant aut deposuerant maturius[125].
La caratteristica che
emerge con immediatezza dai provvedimenti di concessione della cittadinanza mediante
specifiche leges è l’uso
politico della stessa, sia preventivo, sia conseguente ad una specifica azione
meritevole, come aver sostenuto Roma durante una campagna militare. La
natura premiale sembra essere, in ogni caso, una caratteristica piuttosto
ricorrente nelle concessioni della cittadinanza attraverso leges rogatae o plebiscita. Non è
insolito, infatti, che nello stesso provvedimento venga precisato che la concessione della civitas Romana rappresenti la ricompensa per una
determinata condotta meritevole.
A differenza delle
concessioni più arcaiche operate dal rex,
in cui i nuovi cives venivano
assimilati nell’urbs Roma, la
concessione della cittadinanza attraverso leges
supera il limite territoriale dell’Urbs[126]. Nello specifico, la
civitas è concessa ancora per
accrescere Roma, ma in un senso più ampio, universale, a riprova che il
concetto di cittadinanza romana è ormai divenuto uno status giuridico e sociale che caratterizza i
compartecipi a principi comuni, ovvero ad un medesimo diritto e ad una medesima religione.
Tale aspetto emerge
con chiarezza dagli atti di concessione operati dai magistrati dotati di imperium, i quali, seppur investiti di
tale potestas da specifiche leges autorizzative, possiedono, in ogni
caso, una propria autonomia decisionale attraverso la quale si integrano, attraverso
la concessione della cittadinanza, soggetti ritenuti meritevoli nel sistema
giuridico-religioso romano.
Per completare l’analisi
delle
principali leges di concessione della
cittadinanza, sarà, dunque, necessario ricordare quegli atti di concessione della civitas operati da magistrati muniti di imperium. Da un punto di vista generale,
i magistrati cum imperio sono intrinsecamente in
grado di dare leges[127]. Tuttavia, come si è visto
nel paragrafo precedente, le concessioni ‘pubbliche’ della cittadinanza romana passano attraverso l’intervento del Popolo[128] su
autorizzazione del Senato. Dunque, anche la facoltà del magistrato di operare concessioni
di cittadinanza si fonda su una specifica lex emanata ad hoc, e si
manifesta in una sorta di regolamento di esecuzione di quest’ultima.
Le fonti ricordano
questa facoltà in capo a Mario, sancita da una lex
Apuleia agraria del 100 a.C.:
Itaque cum
paucis annis post hanc civitatis donationem acerrima de civitate quaestio
Licinia et Mucia lege venisset, num quis eorum, qui de foederatis civitatibus
esset civitate donatus, in iudicium est vocatus? Nam Spoletinus T. Matrinius,
unus ex iis quos C. Marius civitate donasset, dixit causam ex colonia Latina in
primis firma et inlustri. Quem cum disertus homo L. Antistius accusaret, non
dixit fundum Spoletinum populum non esse factum, videbat enim populos de suo
iure, non de nostro fundos fieri solere, sed cum lege Apuleia coloniae non
essent deductae, qua lege Saturninus C. Mario tulerat ut in singulas colonias
ternos civis Romanos facere posset, negabat hoc beneficium re ipsa sublata
valere debere[129].
Il
plebiscito
in esame assegna a Mario, in caso di fondazione di nuove colonie[130], il potere di
attribuire autonomamente la cittadinanza a tre coloni[131].
Altro importante
esempio dell’esercizio di tale facoltà è dato dal decretum Cn. Pompei Strabonis de civitate equitibus
Hispanis danda del 89 a.C.[132]:
Cn. Pompeius Sex. [f. imperator] virtutis causa / equites Hispanos
ceives [Romanos fecit in castr]eis apud Asculum a. d. XIV k. dec. / ex lege
Iulia. / In consilio fuerunt: / Turma Sallvitana / Cn. Pompeius Sex. f.
imperator / virtutis caussa turmam / Sallvitanam donavit in / castreis apud Asculum
/ cornuculo et patella, torque, / armilla, palereis; et frumentum / duplex[133].
Si tratta del primo
esempio riportato dalle fonti di una lex data
di concessione della cittadinanza secondo le previsioni della lex Iulia[134]. Il testo contiene il decreto emanato dal console Cn. Pompeo Strabone[135], padre del triumviro
Pompeo, attraverso il quale si concede la cittadinanza romana alla turma che ha combattuto ai suoi ordini durante l’assedio di Firmum e Asculum all’atto
della guerra sociale (91-88 a.C.). Accanto a tale concessione vi sono, per lo stesso squadrone, una serie di
altre onorificenze accompagnate dall’assegnazione di una doppia razione di
frumento. La concessione è caratterizzata dalla natura premiale che, in
questo caso, riconosce la condotta valorosa di soldati con l’attribuzione della cittadinanza ex virtute.
Nel 72 a.C. si ha poi
la lex Gellia Cornelia de civitate:
Nascitur, iudices,
causa Corneli ex ea lege quam L. Gellius Cn. Cornelius ex
senatus sententia tulerunt; qua lege videmus <rite> esse sanctum ut cives
Romani sint ii quos Cn. Pompeius de consili sententia singillatim civitate
donaverit. Donatum esse L. Cornelium praesens Pompeius dicit, indicant publicae
tabulae. Accusator fatetur, sed negat ex foederato populo quemquam potuisse,
nisi is populus fundus factus esset, in hanc civitatem venire[136].
La norma conferisce a
Cn. Pompeius Magnus[137] il potere di concedere la cittadinanza
romana de consili sententia, a coloro, ritenuti
degni, che lo hanno sostenuto nella campagna contro Sertorio[138].
Da questo
momento inizia la prassi di concedere la cittadinanza attraverso i diplomi militari rilasciati ai soldati
distintisi per valore durante le campagne militari. Tale modo di
concessione della cittadinanza sarà un istituto tipico del principato, utilizzato largamente a
partire da Claudio.
Mi pare
si possa pervenire alla conclusione che la cittadinanza romana è un concetto
formato sin dalle origini di Roma a conferma dell’idea di Gaio sul principium[139], per
cui gli initia Urbis sono presentati «come principium della storia delle istituzioni romane, e
quindi come potissima pars di quelle istituzioni; che, nel divenire
storico della vita del popolo romano, hanno accresciuto e perfezionato
la loro completezza iniziale»[140].
È così emerso un concetto di civitas che nasce in stretto
collegamento con l’Urbe ed i suoi
abitanti, ben rappresentato nei modi ‘privati’ di acquisto della
cittadinanza, espressione della struttura collettiva del Populus Romanus[141]
dove anche il civis crea il civis[142], colui che concorre
alla formazione e alla vita stessa della comunità politico-religiosa
organizzata, costituitasi proprio con gli individui e nella comunanza
d’interesse in capo agli stessi[143].
Il concetto di cittadinanza romana, con la sua vocazione universale[144],
si sposta ben presto da una dimensione ‘territoriale’ ad una dimensione
giuridica[145], per
andare a definire quello status giuridico e sociale tipico dei
partecipanti a un medesimo diritto e a una medesima religione.
Come
mi pare di aver dimostrato con l’analisi dei diversi modi di acquisto della
cittadinanza, le richiamate tendenze universalistiche[146] e
il correlato atteggiamento
di apertura verso l’alienus[147]
- spesso esaltato nelle fonti a dimostrazione di grandezza e virtù romane –
rendono la cittadinanza un efficace strumento in mano alle classi dirigenti
romane[148].
Il carattere politico della civitas
ben si riscontra nelle concessioni ‘pubbliche’ sin dall’età regia, in cui le dationes civitatis hanno il fine di
accrescere il Populus Romanus e i fines Populi Romani[149].
Tale tendenza prosegue in età repubblicana, con inevitabili trasformazioni,
quali ad esempio la cittadinanza non più legata alla residenza nell’Urbs.
La cittadinanza appare, quindi,
il principale motore di crescita fin dalla Roma più antica, che – combinata con
la propensione universalistica insita fin dai primordi nella religione – ha
favorito la costante aggregazione, per lo più volontaria, di elementi sempre
nuovi (per quanto etnicamente differenziati).
[1] Sul concetto di elasticità della
cittadinanza romana si veda, in particolare, F. De
Visscher, L’espansione della civitas
Romana, Milano 1960, 185.
[2] In materia rimando in particolare a: A.H.M. Jones, Another Interpretation of the ‘Constitutio Antoniniana’, in The Journal of Roman Studies 26.2
(1936), 223 ss.; P. de Francisci, Ancora intorno alla Costituzione Antoniniana, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano
65 (1962), 1 ss.; P. Romanelli, Constitutio Antoniniana, in Romanitas 4 (1962), 29 ss.; R.G. Boehm,
Studien zur Civitas Romana III, in Aegyptus 43 (1963), 278 ss.; W. Seston,
Marius Maximus et la date de la
“Constitutio Antoniniana”, in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie et d’histoire offerts à
Jérome Carcopino, Paris 1966, 877 ss.; V. Arangio-Ruiz, v. Editto di Caracalla, in Novissimo
Digesto Italiano VI (1968), 403 s.; G. De
Sensi-Sestito, Problemi della Constitutio Antoniniana, in Helikon 9-10 (1969-1970), 243 ss.; P. Keresztes, The Constitutio Antoniniana
and the Persecutions under Caracalla,
in The American Journal of Philology
91.4 (1970), 446 ss.; M. Talamanca,
Su alcuni passi di Menandro di Laodicea
relativi agli effetti della “Constitutio Antoniniana”, in Studi in onore di E. Volterra V, Milano
1971, 433 ss.; N.A. Sherwin-White, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, in The Journal of Roman Studies 63 (1973), 86 ss.; H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana
und Papyrus Gissensis 40.1, Köln 1976, 28 ss.; J. Modrzejewski, Édit de Caracalla conférant aux habitants de
l’Empire le droit de cité romaine (Constitutio Antoniniana, 212 ap. J.-C.), in P.F. Girard-F. Senn, Les lois des Romains. 7e édition des «Textes
de droit romain» II, Napoli 1977, 478 ss.; P. Pinna
Parpaglia, Sacra peregrina, civitatis romanorum, dediticii nel papiro
Giessen 40, Sassari 1995; L. De Giovanni, Gli effetti della
Constitutio Antoniniana: un’ulteriore prospettiva d’indagine, in Fraterna munera. Studi in onore di L. Amirante, Salerno 1998, 145 ss.; V. Marotta, La cittadinanza
romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una
sintesi, Torino 2009.
[3] Si veda in
particolare E. Cantarella, Filiazione
legittima e cittadinanza, in Symposion 1995. Vorträge
zur griechischen und hellenistischen Rechtsgeschichte (Korfu 1-5 September
1995), Köln-Wien 1997, 97 ss.
[4] Dion. Hal. 2.15.1-2: Τεταγμένην
μὲν οὖν
καὶ
κεκοσμημένην
πρὸς εἰρήνην
τε ἀποχρώντως
καὶ πρὸς
τὰ πολέμια
ἐπιτηδείως
ἐκ
τούτων τῶν
πολιτευμάτων
τὴν πόλιν
ὁ Ῥωμύλος
ἀπειργάσατο,
μεγάλην δὲ
καὶ πολυάνθρωπον
ἐκ
τῶνδε. Πρῶτον
μὲν εἰς
ἀνάγκην
κατέστησε τοὺς
οἰκήτορας
αὐτῆς
ἅπασαν
ἄρρενα
γενεὰν ἐκτρέφειν
καὶ θυγατέρων
τὰς πρωτογόνους,
ἀποκτιννύναι
δὲ μηδὲν
τῶν γεννωμένων
νεώτερον
τριετοῦς,
πλὴν εἴ
τι γένοιτο
παιδίον ἀνάπηρον
ἢ
τέρας εὐθὺς
ἀπὸ
γονῆς. Ταῦτα
δ´ οὐκ ἐκώλυσεν
ἐκτιθέναι
τοὺς γειναμένους
ἐπιδείξαντας
πρότερον πέντε
ἀνδράσι
τοῖς ἔγγιστα
οἰκοῦσιν,
ἐὰν
κἀκείνοις
συνδοκῇ.
κατὰ δὲ
τῶν μὴ
πειθομένων
τῷ νόμῳ
ζημίας ὥρισεν
ἄλλας
τε καὶ τῆς
οὐσίας
αὐτῶν
τὴν ἡμίσειαν
εἶναι
δημοσίαν. Sull’analisi del passo rimando, in
particolare, a L. Capogrossi-Colognesi,
Tollere Liberos, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 102 (1990), 110 ss.,
http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mefr_0223-5102_1990_num_102_1_1662.
Per la dottrina sulla rilevanza della
cerimonia del tollere liberos si
vedano anche: S. Perozzi, Tollere liberum, in Studi in onore di Vincenzo Simoncelli,
Napoli 1917 (ora in Id,
Scritti giuridici III, Milano 1948,
95 ss.) per il quale l’apprensione del figlio da parte del pater non ha una espressa rilevanza giuridica, ma solo sociale; E. Volterra, Un’osservazione in tema di
tollere liberos, in Festschrift Fritz Schulz I, Weimar 1951, 388 ss.; Id., Ancora in tema di “tollere
liberos”, in Iura 3 (1952), 216 s.; P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, 280; A. Romano, Tollere
liberos: uomo, donna e potere, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino II, Napoli 1984, 881 ss.; M.
Corbier, La petite enfance à Rome: lois, normes,
pratiques individuelles et collectives, in Annales 54 (1999),
1257 ss.; N. Santoro, Sul ‘tollere liberos’, in Index 28 (2000), 273 ss.
[5] Liv. 1.9.1-5.
[6] Liv. 1.9.14.
[7] Gai. Inst.
1.78: Quod autem diximus inter civem Romanum peregrinamque nisi
conubium sit, qui
nascitur, peregrinum esse,
lege Minicia cavetur, ut is
quidem deterioris parentis condicionem sequatur. Eadem lege autem
ex diverso cavetur, ut si
peregrinus, cum qua
ei conubium non
sit, uxorem duxerit civem Romanam, peregrinus ex eo coitu
nascatur. Sed hoc
maxime casu necessaria lex Minicia fuit;
nam remota ea
lege diversam condicionem sequi debebat, quia ex eis,
inter quos non
est conubium, qui
nascitur, iure gentium matris condicioni accedit. Qua parte autem
iubet lex ex
cive Romano et
peregrina peregrinum nasci, supervacua videtur; nam et remota ea lege hoc
utique iure gentium futurum erat. La medesima legge si trova menzionata
anche nei Tit. ex
corp. Ulp. 5.8:
Conubio interveniente liberi semper patrem sequuntur; non interveniente conubio matris conditioni accedunt, excepto eo, quod ex peregrino et cive Romana peregrinus nascitur, quoniam lex Minicia ex alterutro peregrino natum deterioris parentis condicionem sequi iubet.
[8] La datazione della legge è incerta, sul punto rimando a: O. Karlowa, Römische
Rechtsgeschichte II, Leipzig 1901, 182; G. Rotondi, Leges
publicae populi romani, Milano 1912, 338; C. Castello, L’acquisto della cittadinanza e i suoi riflessi
familiari nel diritto romano, Milano 1951; Id., La
data della legge Minicia, in Studi in
onore di V. Arangio-Ruiz 3, Napoli 1953, 308 ss.; G. Luraschi, Sulla data e sui destinatari della ‘lex Minicia de liberis’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
42 (1976), 440 s.; Id., La questione della cittadinanza nell’ultimo secolo della
repubblica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
61 (1995), 54; D. Cherry, The Mincian Law: Marriage and the
Roman Citizenship, in Phoenix 44 (1990), 244 ss.; C. Williamson, The Laws of
the Roman People. Public Law in the Expansion and Decline of the
Roman Republic,
Ann Arbor 2005, 230.
[10] C. Fayer, La familia romana: aspetti
giuridici ed antiquari. Sponsalia. Matrimonio.
Dote II, cit., 40.
[11] Gai. Inst. 1.56; concetto identico è
ribadito poco più avanti, 1.76: Loquimur autem
de his scilicet, inter quos conubium non sit; nam alioquin si civis Romanus
peregrinam, cum qua ei conubium est, uxorem duxerit, sicut supra quoque
diximus, iustum matrimonium contrahitur, et tunc ex iis qui nascitur, civis
Romanus est et in potestate patris erit. Vedi anche Cic. top. 20: Si mulier, cum fuisset nupta cum eo quicum
conubium non esset, nuntium remisit; quoniam qui nati sunt patrem non
sequuntur, pro liberis manere nihil oportet.
[13] Si veda P. Ferretti, In rerum natura esse / in rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero
giurisprudenziale classico, Milano 2008, 121 ss.
[14] Per il significato etimologico si veda A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la
langue latine. Histoire des mots 3a ed., Paris
1979,
v. nubo, -is -psi, -nuptum, -ere, 449; per le varie accezioni del termine
rimando a L., v. cōnūbium, -(i)ī, in Thesaurus
Linguae Latinae IV, fasc. IV continosus-cornix,
coll. 814 ss. Per l’analisi della dottrina
sull’istituto, rinvio, tra i tanti, a: E Volterra, La nozione
giuridica del conubium, in Studi in memoria di Emilio Albertario 2, Milano 1950, 381
ss.; F. De Visscher, ‘Conubium’ et ‘civitas’, in Revue internationale des droits de
l’antiquité I (1952), 401 ss.; A. De
La Chevalerie, Observations sur la
nature du ‘conubium’ et la situation juridique des Campaniens avant et après
les guerres d’Annibal, in Revue
internationale des droits de l’antiquité III (1954), 271 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Ius commercii, conubium, civitas sine suffragio. Le origini
del diritto internazionale privato e la romanizzazione delle comunità
romano-campane, in Le Strade del
Potere: Maiestas Populi Romani,
Imperium, Coercitio, Commercium (a
cura di A. Corbino), Catania 1994, 3 ss.; Id.,
La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, in Mélanges de l’École française de Rome 122.1 (2010), 147
ss.; F. Sturm, Conubium,
ius migrandi, conventio in manum, in Le droit de la famille
en Europe. Son évolution depuis l’antiquité jusqu’à nos jours, Strasbourg 1992, 717 ss.; M. Humbert, Le conubium des
patriciens et plébéiens: une hypothèse, in Nonagesimo anno. Mélanges
en hommage à
Jean Gaudemet, Paris 1999,
281 ss.; G. Brizzi,
Forme di integrazione a Roma tra l’età monarchica
e la prima repubblica: qualche ulteriore considerazione, in Integrazione
mescolanza rifiuto. Incontri di popoli, lingue e culture in Europa dall’Antichità
all’Umanesimo. Atti del convegno internazionale, Cividale del Friuli, 21-23
settembre 2000 (a cura di G. Urso), Roma 2001, 115 ss., http://www.fondazionecanussio.org/atti2000/brizzi.pdf;
R. Astolfi, Il matrimonio nel
diritto romano preclassico, 2a
ed., Padova 2002, 32 ss.; Id., Il
matrimonio nel diritto romano classico, Milano 2006; M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - Matrimonium
iniustum, Napoli 2012, 1 ss.
[15] L’arcaicità
dell’istituto emerge dalla narrazione liviana sul ratto delle Sabine, in cui si
evidenzia, inoltre, il tentativo, seppur infruttuoso, di concludere accordi di conubium con le popolazioni vicine al fine di preservare attraverso un’adeguata crescita della
popolazione la grandezza raggiunta da Roma (Liv. 1.9.1-4: Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum civitatum bello
par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem duratura magnitudo erat, quippe
quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia essent. Tum ex consilio
patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui societatem conubiumque
novo populo peterent: urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua
virtus ac di iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire,
origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem; proinde ne
gravarentur homines cum hominibus sanguinem ac genus miscere).
[16] Intorno al problema
dell’attribuzione dell’identità all’autore dell’opera e sul suo contenuto
rinvio a F. Mercogliano, “Tituli ex corpore Ulpiani”. Storia di un
testo, Napoli 1997; Id., Una ricognizione sui Tituli ex corpore
Ulpiani, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantiniana XIV Convegno Internazionale in memoria di Guglielmo
Nocera, Napoli 2003, 407 ss.; M. Avenarius,
Der Pseudo-Ulpianische ‘liber singularum
regularum’. Entsetehung. Eigenart und
Überlieferung einer hochklassischen Juristenschrift, Göttingen 2005 (con nuova edizione e
trad. in ted.); Id., Il liber singularis regularum pseudo-ulpianeo: sua specificità come opera
giuridica altoclassica in comparazione con le Institutiones di Gaio, in Index 34 (2006), 455 ss.; L. De
Giovanni, Istituzioni scienza
giuridica codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia,
Roma 2007, 276 ss. n. 316.
[18] Si veda l’analisi sui
vari significati assunti dal termine conubium
operata da M.P. Baccari,
Il conubium nella legislazione di Costantino, in Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino imperatore
tra Oriente e Occidente (a cura di F. Sini e P.P. Onida), Torino 2003,
197 ss.
[19] Sul punto, si
vedano:
Gai. Inst. 1.77: Item si civis Romana peregrino, cum quo ei conubium est, nupserit,
peregrinus sane procreatur et is iustus patris filius est, tamquam si ex
peregrina eum procreasset. Hoc tamen tempore e senatus consulto, quod auctore
divo Hadriano sacratissimo factum est, etiamsi non fuerit conubium inter civem
Romanam et peregrinum, qui naseitur, iustus patris filius est; Liv. 1.9.2: Iam res Romana adeo erat valida ut cuilibet finitimarum
civitatum bello par esset; sed penuria mulierum hominis aetatem duratura
magnitudo erat, quippe quibus nec domi spes prolis nec cum finitimis conubia
essent. Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit qui
societatem conubiumque novo populo peterent.
[20] Per un’analisi generale dell’opera di
Servio rinvio in particolare a: P. Wessner,
v. Servius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 2,
Stuttgart 1923, coll. 1834 ss.; N. Marinone,
Elio Donato, Macrobio e Servio
commentatori di Virgilio, Vercelli 1946; H. Naumann, Die
Arbeitsweise des Servius, in Rheinisches
Museum für Philologie 118 (1975), 166 ss.; S. Timpanaro, Per la
storia della fililogia virgiliana antica, Roma 1986, 148 s.; C.E. Murgia, Aldhelm and Donatus’s Commentary on Virgil, in Philologus 131 (1987), 289 ss.; F. Sini, Documenti
sacerdotali di Roma antica I. Libri e
commentarii, Sassari 1983, 108 ss.; G. Brugnoli,
v. Servio, in Enciclopedia Virgiliana IV, Roma 1988, 805 ss.; Id., Il consolidamento della glossa virgiliana nella programmazione di Elio
Donato, in Cultura latina pagana fra
terzo e quinto secolo dopo Cristo. Atti del Convegno. Mantova, 9-11 ottobre
1995, Firenze 1998, 161 ss., A. Pellizzari, Servio.
Storia, cultura e istituzioni nell’opera di un grammatico tardoantico, Torino 2003.
[22] Per ragioni di brevità, si utilizzerà qui
genericamente il termine ‘matrimonio’ per indicare tutti quegli istituti di diritto
romano attraverso i quali si otteneva l’unione di un uomo con una donna
rilevante per il sistema giuridico-religioso romano. Per un approfondimento e,
in particolare, sulla diatriba sorta su matrimonio e acquisto della manus richiamo, senza presunzione di
completezza, i lavori di: F. Bozza,
Manus e matrimonio, in Annali dell’Università di Macerata 15
(1941), 119; E. Volterra, Ancora sulla ‘manus’ e sul matrimonio,
in Studi in onore di S. Solazzi,
Napoli 1948, 687; E. Cantarella, Sui rapporti fra matrimonio e conventio
in manum, in Rivista Italiana per le
Scienze Giuridiche (1959-1962), 181 ss.; R. Villers, Manus et
mariage, in The Irish Jurist 4
(1969), 173; C.S. Tomulescu, Les rapports de la mancipatio et de la monnaie dans l’ancien droit romain,
in Revue internationale des droits de
l’antiquité 16 (1969), 345 ss.; L. Capogrossi
Colognesi, Idee vecchie e nuove
sui poteri del paterfamilias, in ‘Poteri’
‘negotia’ ‘actiones’ nella esperienza romana arcaica. Atti del Convegno di
diritto romano, Copanello 12-15 maggio 1982, Napoli 1984, 62; G.L. Falchi, Osservazioni sulla natura della ‘coemptio matrimonii causa’ nel diritto
preclassico, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 50 (1984), 375 ss.; C. Fayer,
La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia. Matrimonio. Dote II, cit., 196 ss.; L. Peppe, Uso e Ri-uso del diritto romano, Torino 2012, 131 ss.; M.V. Sanna, Matrimonio e altre situazioni matrimoniali nel diritto romano classico.
Matrimonium iustum - Matrimonium
iniustum, cit.; A. Maiuri, Sacra privata. Rituali domestici e istituti giuridici in
Roma antica, Roma 2013, 41 ss.
[23] II concetto di matrimonium iustum è ben espresso nella
formula riportata nei Tituli ex corp.
Ulp. 5.2: Iustum matrimonium est, si
inter eos qui nuptias contrahunt conubium sit, … si in potestate sunt. Per
un’analisi del passo rinvio a C. Fayer,
La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia. Matrimonio. Dote II, cit., 400 s.
[24] Rimando a E. Manni, Per la storia dei municipi fino alla guerra sociale, Roma 1947, 29
ss. e G. Luraschi, ‘Foedus’, ‘Ius Latii’, ‘Civitas’. Aspetti
costituzionali della romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, 238 ss.
[25] Liv. 31.31.10-12. Sul
passo si veda
G. Brizzi, Forme di integrazione a Roma tra l’età monarchica e la prima
repubblica: qualche ulteriore considerazione, cit., 115
ss.
[27] In particolare, E. Volterra, La nozione
dell’adoptio e dell’adrogatio secondo i giuristi romani del II e del III sec.
d.C., in Bullettino dell’Istituto di
Diritto Romano 69 (1966), 134 ss., limita adoptio ed adrogatio
esclusivamente a soggetti già in possesso della cittadinanza romana. Si vedano,
inoltre: G. Mancinetti Santamaria,
La concessione della cittadinanza a Greci
e orientali nel II e I sec. a.C., in Les
bourgeoisies municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av.J.-C., Colloque
internationaux, Naples 7-10 décembre 1981 (ed. M. Cébeillac-Gervasoni),
Naples-Paris 1983, 125 ss.; C. Russo
Ruggeri, La datio in adoptionem I.
Origine, regime giuridico e riflessi politico-sociali in età repubblicana ed
imperiale, Milano 1990, 86 ss. e 209; J. Gardner,
Status, Sentiment and Strategy in Roman
Adoption, in Adoption et fosterage
(a cura di M. Corbier), Paris 1999, 69 ss.
[28] D. 50.1.0 (Ulpianus lib. 2 ad ed.). Si veda anche C. 10.40.7pr.: (Imperatores Diocletianus, Maximianus). Cives
quidemorigo manumissio adlectio adoptio, incolas vero, sicut et divus hadrianus
edictosuo manifestissime declaravit, domicilium facit.
[29] Sul giurista si vedano, in particolare: E. Klebs, v. Aelius, in Real-Encyclopädie der classischen
Altertumswissenschaft 1, Stuttgart
1893, coll. 492 s.; H. Bardon, La littérature latine inconnue I.
L’époque républicaine, Paris 1952, 302; R.
Orestano, v. Gallo C. Elio,
in Novissimo Digesto Italiano
VII, Torino 1961, 738; F. Bona, Alla ricerca del “De verborum, quae ad
ius civile pertinent, significatione” di C. Elio Gallo, in Bullettino dell’Istituto di diritto
romano 90 (1990), 119 ss.; G.
Falcone, Per una datazione
del «de verborum quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico
dell’Università di Palermo 41
(1991), 225 s.; F. Sini, A quibus
iura civibus praescribebantur. Ricerche
sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, 59 ss., nonché n. 55 sulla
questione se Elio Gallo debba qualificarsi o meno giurista, http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Ricerche-giuristi-III-secolo-I-Cap-2.htm#_ftn41.
[30] Fest. v. Municipes 126 L.
[31] Sulla datazione dell’iscrizione si vedano:
H. Gummerus, Der Ärztestand im römischen Reiche nach der Inschriften, Helsinki
1932, 58; H. Solin, Zu Lukanischen Inschriften, Helsinki 1981, 36; V. Nutton,
Ancient Medicine, London 2004, 164;
G. Mancinetti Santamaria, La concessione della cittadinanza a Greci e
Orientali nel II e I sec. a.C., cit., 130; L. Vecchio, Menekrates di
Tralli oinodotes physikòs, in Synergia.
Festschrift für Friederich
Krinzinger (hrsg. von B. Brandt-V. Gassner-S. Landstätter), Wien 2005, 367 n. 2; A. Cristofori, Menecrate di Tralles, un medico greco nella Lucania romana, in L’arte
di Asclepio. Medici e malattie in età antica Atti della giornata di studio sulla
medicina antica (a cura di
G. De Sensi), Catanzaro 2008, 71 ss. http://www.fondazionecanussio.org/palaestra/cristofori.pdf.
[32] CIL I (II ed.) 1684; X.388.
[33] Propendono per l’adoptio: G. Kaibel, Inscriptiones Graecae XIV. Inscriptiones Siciliae et Italiae, Berlin 1890, 721 il
quale precisa L. Manneius Q. f.; H. Dessau, Inscriptiones
Latinae Selectae, Berlin 1892-1916, num. 7791, https://archive.org/details/inscriptioneslat22dessuoft,
che legge Μενεκράτης Δημη/τρίου come «Sic apellabalur more Graeco, antequam per
adoptionem puto in civitatem Romanam receptus esset»; H. Gummerus, Der Ärztestand im römischen Reiche nach der Inschriften, cit., 57; A. Russi,
v. Lucania, in Dizionario epigrafico di antichità romane IV.33, Roma 1959, 1924; A. Degrassi,
Inscriptiones Latinae Liberae Rei
Publicae II,
Firenze 1963, num. 799; G.
Mancinetti Santamaria, La concessione della cittadinanza a Greci e
Orientali nel II e I sec. a.C., cit., 130; V. Nutton,
Ancient Medicine, cit., 164; L. Vecchio, Menekrates di Tralli oinodotes physikòs, cit., 367 ss. e in part. 370: «Appare
probabile, dunque, che Menecrate giunto in Italia come libero cittadino per
esercitarvi la professione di medico, in un periodo in cui la maggior parte dei
medici attivi in Italia era appunto di origine greca, sia stato successivamente
adottato dalla gens Manneia».
[34] Si veda la formula L. Manneius Q. (l.) negli indici CIL X.1045. A favore della manumissio del medico greco: Th. Mommsen, Inscriptiones
Regni Neapolitani Latinae, Lipsiae 1852, 16 num. 236, https://archive.org/stream/gri_inscriptione00momm#page/n53/mode/2up;
Id., Observationes epigraphicae. XLVIII. Civium romanorum libertinorum
appellatio graeca, in Ephemeris
Epigraphica. Corporis Inscriptionum Latinarum Supplementum. Edita iussu
Instituti Archaeologici Romani VII, Roma 1892, 453 n. 3, https://archive.org/stream/ephemerisepigrap07deut#page/452/mode/2up,
per il quale il termine φύσει indicherebbe un’adozione che,
tuttavia, l’A. esclude nel caso specifico in ragione dell’impossibilità
di adottare a Roma uno straniero; R. Cagnat,
Inscriptiones Graecae ad Res Romanas
Pertinentes I, Paris 1901, 156 num. 473, https://archive.org/details/inscriptionesgra01cagnuoft,
che legge Μενεκράτης Δημη/τρίου come «hic vir de patre servo, Demetrio nomine, natus
primum Menecratus vocabatur; post libertatem L. Manneius»; S. Treggiari, Roman Freedmen During the Late Republic, Oxford 1969, 131 s.; G. Fabre, Libertus. Recherches sur les rapports patron-affranchi à la fin de la République
romaine, Rome 1981, 236; H. Solin, Zu Lukanischen Inschriften, cit.,
35 s. Restano dubbiosi tra adoptio e manumissio: E. Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic, Baltimore 1985, 85;
A. Cristofori, Menecrate di Tralles, un medico greco nella
Lucania romana, cit.: «Le diverse formule onomastiche che compaiono rispettivamente
nella parte latina – L(ucius) Manneius Q(uinti) – e nella parte greca del
documento – fuvsei de; Menekravth “Dhmhtrivou Trallianov” – sono certamente
indizio di un mutamento della condizione giuridica di Menecrate occorso tra la
sua nascita a Tralles e il momento in cui egli fece redigere la sua iscrizione
sepolcrale. L’assenza della normale formula f(ilius) o l(ibertus) dopo il
ricordo del prenome Quintus, da riferire al padre o al patrono, non consente
tuttavia di comprendere con certezza se Menecrate sia entrato nella gens
Manneia, assumendo il nome di L. Manneius, per adozione oppure per
manomissione».
[35] Gell. noct.
Att. 5.19.13. Sulle fonti che riportano l’adozione del servus si veda anche: Plaut. Men.
57-62: Epidamniensis ille, quem dudum
dixeram, / Geminum illum puerum qui surrupuit alterum, / Ei liberorum, nisi
divitiae, nil erat. / Adoptat illum puerum surrupticium / Sibi filium eique
uxorem dotatam dedit / Eumque heredem fecit, quom ipse obiit diem; Poen. 72-77: Ille qui surripuit puerum, Calydonem avehit: / Vendit eum domino hic
diviti quoidam seni, / cupienti liberorum, osori mulierum. / Emit hospitalem is
filium inprudens senex / Puerum illum eumque adoptat sibi pro filio / eumque
heredem fecit, quom ipse obiit diem; 901-904: Nimium lepidum memoras facinus: nam erus meus Agorastocles / Ibidem
gnatust, inde surruptus fere sexennis: postibi / Qui eum surrupuit huc devexit
meoque ero eum hic vendidit: / Is in divitias homo adoptavit hunc, quom diem
obiit suom; 1045: Siquidem
Antidama[t]i quaeris adoptaticium, Ego sum ipsus, quem tu quaeris; 1058 s.:
Surruptus sum illinc, hic me Antidama[s]
hospes tuos / Emit et is me sibi adoptavit filium.
[36] Gell. noct. Att. 5.19.111: Libertinos vero ab ingenuis adoptari iure quidem posse Massurius Sabinus scripsit. sed id neque permitti dicit neque permittendum esse unquam putat, ut homines libertini ordinis per adoptiones in iura ingenuorum invadant. In materia si veda C. Cosentini, Per la storia della adrogatio libertorum, Napoli 1948, 4 ss.
[37] Gell. noct. Att. 5.19.14. Idque ait plerosque iuris veteris
auctores posse fieri scripsisse. Sulla risalenza dell’istituto rinvio a: O. Lenel, Palingenesia Iuris Civilis II, Lipsiae 1889
[rist. a cura di L. Capogrossi Colognesi, Roma 2000], coll. 215 s.; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
Antehadrianae quae supersunt II.1, Lipsiae
1898 [rist. an., Roma 1964], 484 fr. 60; Id.,
Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt II.2, Lipsiae 1901 [ed.
an., Roma 1967], 509 s. fr. 19; P.E.
Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae
Anteiustinianae reliquias I, 6a ed., Lipsiae 1908 [rist. an., Leipzig
1988], 79 fr. 27. Sul passo si
veda da ultimo C.M.A. Rinolfi,
Servi e religio, in Diritto@Storia 9 (2010), §3 in part. n.
49, anche per la bibliografia precedente, http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Rinolfi-Servi-religio.htm.
[38] A. Calonge,
Problemas de la adopción de un esclavo,
in Revue internationale des droits de
l’antiquité 14 (1967), 248; D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e
adozione nelle norme giustinianee, in Scritti
in onore di A. Falzea IV, Milano 1991, 237 s.; G. Luchetti, La legislazione
imperiale nelle Istituzioni di Giustiniano, Milano 1996, 82 ss. e n. 103; C.M.A.
Rinolfi, Servi e religio, cit., in part. n. 53 con ampi
riferimenti dottrinali sull’interpretazione del termine veteres.
[39] Si veda, in particolare, M. Melluso, La
schiavitù nell’età
giustinianea. Disciplina giuridica e rilevanza sociale,
Paris 2000, 93 ss.
[40] I. 1.11.12. Vedi
anche C. 7.6.1.10: (Imp. Iustinianus A. Iohanni pp.) Similique modo si dominus inter acta quendam servum filium suum nominaverit,
voci eius quantum ad liberam condicionem credendum est. si enim ipse tali
adfectione fuerat accensus, ut etiam filium servum suum nominare non
indignetur, et hoc non secreto neque inter solos amicos, sed etiam actis
intervenientibus et quasi in iudicii figura nominaverit, quomodo potest eum
servum iterum saltem morientem habere? sed producatur et ipse in civitatem
romanam, vera liberalitate et non falso sermone domini sui sustentatus.
[41] D. Dalla, L’adoptio servi tra
manomissione e adozione, cit., 176; G. Luchetti, La legislazione
imperiale, cit., 80 n. 99; M.
Melluso, La schiavitù nell’età giustinianea,
cit., 93 n. 317; C.M.A. Rinolfi,
Servi e religio, cit. Contra C. Russo Ruggeri, La datio in
adoptionem, cit., 63, che fa riferimento
a Catone il Censore.
[42] F. Serrao, Diritto privato economia
e società nella storia di
Roma, cit., 165; C. Russo
Ruggeri, La datio in adoptionem, cit., 58 ss.; D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione, cit., 239; C.M.A. Rinolfi, Servi e religio, cit., in part. n. 54 con riferimenti bibliografici
sull’uso dell’istituto, se per fini di effettiva adozione, ovvero di
manomissione.
[43] Interessante sul punto è la definizione
riportata da Sesto Pompeo Festo v. Manu mitti 149 L.: Servus dicebatur, quum dominus eius, aut caput
eiusdem servi, aut aliud membrum tenens dicebat: Hunc hominem liberum esse
volo, et emittebat eum e manu. In dottrina rimando,
tra i tanti lavori sull’argomento, a: C.B. Welles, Manumission and Adoption, in Revue internationale des droits de
l’antiquité 3 (1949), 507 ss.; E. Volterra, Manomissione e cittadinanza, in Studi
in onore di U.E. Paoli, Firenze 1955, 695 ss.; M. Balestri Fumagalli, “Libertas
id est civitas” (Cic., pro Balbo 9,24), in Labeo 33 (1987), 63 ss.; G. Crifò,
Remarques sur les problèmes de l’égalité
et de la liberté à Rome, in Ktèma
6 (1981), 193 ss.; Id. Normazione e libertà. Il rapporto tra
legislazione altorepubblicana ed identità civica, in Staat und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik. Akten eines
Symposiums, 12.-15 Juli 1988 (hrsg. W. Eder), Stuttgart 1990, 344 ss.; L. Amirante, Famiglia, libertà, città nell’epoca decemvirale, in Società e diritto nell’epoca decemvirale.
Atti del convegno di diritto romano, Copanello, 3-7 giugno 1984, Napoli
1988, 67 ss.; D. Dalla, L’adoptio servi tra manomissione e adozione, cit.; Sklaven und Freigelassene in der Gesellschaft der römischen Kaiserzeit
(hrsg. Eck Werner-Heinrichs Johannes), Darmstadt 2005 (rist. ed. 1993); K.R. Bradley, Slavery and Society at Rome, Cambridge 1994; G.J. Wolf, Funktion und Struktur der ‘mancipatio’, in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain, Paris 1998,
501 ss.; Id., In iure cessio und manumissio vindicta. Überlegungen zu zwei archaischen Rechtsgeschäften, in Liber amicorum Christoph Krampe zum 70. Geburtstag
(hrsg. M. Armgardt-F. Klinck-I. Reichard), Berlin 2013, 375 ss.; M. Melluso, La schiavitù nell’età giustinianea. Disciplina giuridica e rilevanza
sociale, cit.; F.M. De Robertis,
Occorrenze destabilizzanti e sbandamenti
dottrinali in tema di schiavitù, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 69 (2003), 623 ss.; B.K. Vetter, The Historical Development of Some Important Methods of Manumission in
Roman Law, in Revue internationale
des droits de l’antiquité 51 (2004), 355 ss., http://local.droit.ulg.ac.be/sa/rida/file/2004/Vetter.pdf; V. Arena, Liberti and libertas: A Call for Civic Freedom, in The Faces of Freedom. The Manumission and Emancipation of Slaves in Old
World and New World Slavery, Leiden-Boston 2006, 71 ss.; G. Crifò, Semitae et vestigia libertatis, in Studi per Giovanni Nicosia I, Milano 2007, 60 ss.; P. López Barja de Quiroga, Historia de la manumisión en Roma: de los
orígenes a los Severos, Madrid 2007; C. Venturini,
Note in materia di emancipata e di parens
manumissor, in Φιλία. Scritti per Gennaro Franciosi IV (a cura di
F.M. D’Ippolito), Napoli 2007, 2749 ss.; E. Herrmann-Otto,
Sklaverei und Freilassung in der
griechisch-römischen Welt, Hildesheim 2009; G. Gulina, In iure cessio
e mancata vindicatio contraria nella
legis actio contenziosa, in Iuris
antiqui historia 3 (2011), 109 ss.; W. Wołodkiewicz, Libertas privata sed non res publica est,
in Civis civitas libertas. Index
per Franco Salerno, Napoli
2011, 38 ss.
[44] Rinvio in particolare a E. Volterra,
Manomissione e
cittadinanza, cit., 695 ss.; Id., La nozione dell’adoptio e dell’adrogatio secondo i giuristi
romani del II e del III secolo d.C., cit., 109 ss.; G. Crifò, ‘Civis’. La
cittadinanza tra antico e moderno,
Bari 2000, 87 ss.
[45] D. 1.1.4 (Ulpianus lib. 1 Inst.). Sul passo rinvio in part. ad A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 393.
[46] Secondo alcuni autori la nozione è
ispirata da una visione stoica, si veda C.M.A. Rinolfi, Servi e
religio, cit.,
con bibl. ivi.
[47] Il richiamo allo ius gentium si rinviene anche in Gai. Inst. 1.52: In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris
gentium est: nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus dominis in
servos vitae necisque potestatem esse, et quodcumque per servum adquiritur, id
domino adquiritur; 1.82: Illud quoque
his consequens est, quod ex ancilla et libero iure gentium servus nascitur, et
contra ex libera et servo liber nascitur; D. 1.5.5.1 (Marcianus lib. 1 Inst.): Servi autem in dominium
nostrum rediguntur aut iure civili aut gentium: iure civili, si quis se maior
viginti annis ad pretium participandum venire passus est. Iure gentium servi
nostri sunt, qui ab hostibus capiuntur aut qui ex ancillis nostris nascuntur.
[48] Sul concetto di libertas come naturalis facultas si veda: D. 1.5.4. pr.-1 (Florentinus lib. 9 Inst.): Libertas est naturalis
facultas eius quod cuique facere libet, nisi si quid vi aut iure prohibetur.
Servitus est constitutio iuris gentium, qua quis dominio alieno contra naturam
subicitur. Sul passo
si vedano in particolare: Ch. Wirszubski, Libertas
as a Political Idea at Rome during the
Late Republic and Early Principate, cit., 2 ss.; S. Querzoli, Il sapere di
Fiorentino: etica, natura e logica nelle Institutiones, cit., 110 ss.; G. Crifò,
Semitae et vestigia libertatis, cit., 60 ss.; R. Quadrato, Hominum gratia, in Studi in onore di Remo Martini III, Milano
2010, 276 ss. Mi si permetta di rinviare alle osservazioni già svolte in A. Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica:
storiografia annalistica ed elaborazioni giurisprudenziali, in Diritto @ Storia 11 (2013), http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm.
[49] Sugli effetti dell’addictio si vedano in part. P. Meylan,
L’individualité de la manumissio
vindicta, in Studi Arangio-Ruiz
IV, cit., 469 ss. e V. Devilla,
La ‘manumissio vindicta’ nel diritto
giustinianeo, in Studi in onore di P.
de Francisci II, cit., 273 ss.
[50] Cic. Phil. 8.8; Liv. 9.29, 26.47. Si veda Ae. Forcellini, v. servus, in Totius latinitatis Lexicon (consilio et cura J.
Facciolati) IV, Lipsiae 1835, 98, e, per la dottrina, in particolare: N. Rouland, A propos des servi publici Populi Romani, in Chiron 7 (1977), 261 ss.; W. Eder,
Servitus publica. Untersuchungen zur
Entstehung, Entwicklung und Funktion der öffentlichen Sklaverei in Rom, Wiesbaden
1980, 37 ss.
[51] L’intervento
necessario del magistrato per operare la manumissio
del servus publicus emerge da Varr. de ling. lat. 8.83: Habent plerique libertini a municipio manumissi, in quo, ut
societatum et fanorum servi, non servarunt proportione rationem, et Romanorum
liberti debuerunt dici ut a Faventia Faventinus, ab Reate Reatinus sic a Roma
Romanus, ut nominentur libertini orti a publicis servis Romani, qui manumissi
ante quam sub magistratuum nomina, qui eos liberarunt, succedere coeperunt. Sul passo si
vedano: F. D’Ippolito, Concessioni pubbliche di libertà, in Labeo 10 (1964), 38 ss.; N. Rouland, A propos des servi publici Populi Romani, cit., 261 ss.; R. Düll, Rechtsprobleme in Bereich des römischen Sakralrechts, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt
I.2, Berlin-New York 1972, 287 s. Si veda anche D. 38.2.4 (Paulus lib. 42 ad edict.): Si necem domini
detexerit servus, praetor statuere solet, ut liber sit: et constat eum quasi ex
senatus consulto libertatem consecutum nullius esse libertum, che, pur se
riferisce del caso di manomissione di un servus
appartenente a un privato che soleva essere liberato qualora avesse scoperto
l’assassino del padrone, può fornire indicazioni utili sulle manomissioni del servus publicus.
[52] Vedi in tal senso A. Giardina, L’uomo romano, Bari 1993, XVII: «impressionante nel caso romano,
era l’iniziativa del singolo dominus:
la sua volontà, accompagnata da un rituale semplice e dall’approvazione formale
del magistrato, era sufficiente a liberare uno schiavo e a farne un cittadino.
Il cittadino, in altre parole, creava il cittadino». Rinvio anche a L. Capogrossi Colognesi, Il potere romano: cittadinanza e schiavitù,
in Ankara Üniversitesi Hukuk Fakültesi
Dergisi 43 (1993), 285 ss.
[53] Nella legislazione
augustea vengono inserite una serie di restrizioni alle manomissioni relative
sia al numero di schiavi in proprietà del dominus (si veda la lex Fufia Caninia: Gai. Inst. 2.228: In libertatibus quoque dandis nimiam licentiam conpescuit lex Fufia
Caninia, sicut in primo conmentario rettulimus), sia rispetto all’età del servus o del dominus (vedi la lex Aelia
Sentia: I. 1.5.3: Libertinorum autem
status tripertitus antea fuerat: nam qui manumittebantur, modo maiorem et
iustam libertatem consequebantur et fiebant cives Romani, modo minorem et
Latini ex lege Iunia Norbana fiebant, modo inferiorem et fiebant ex lege Aelia
Sentia dediticiorum numero). Sul punto
rinvio a J.P.V.D.
Baldson, Romans and Aliens,
London 1979, 86 s.
[54] Gai. Inst. 1.17. Si veda anche Tit. ex corp.
Ulp. 1.6.
Per la dottrina intorno
alla manumissio vindicta (Liv. 2.5.9: Secundum poenam nocentium, ut in utramque
partem arcendis sceleribus exemplum nobile esset, praemium indici pecunia ex
aerario, libertas et civitas data. Ille primum dicitur vindicta liberatus;
quidam vindictae quoque nomen tractum ab illo putant; Vindicio ipsi nomen
fuisse. Post illum obseruatum ut qui ita liberati essent in civitatem accepti
viderentur) rinvio a: H. Lévy-Bruhl,
L’affranchissement par la vindicte, in Studi in onore di Salvatore Riccobono 3,
Palermo 1936, 1 ss.; P. Meylan, L’individualité
de la manumissio vindicta, in Studi
Arangio-Ruiz IV, Napoli 1953; R. Monier,
Contribution à l’étude des rites de la
manumissio vindicta, in Studi in memoria
di Emilio Albertario 1, Milano 1953, 197 ss.; V. Devilla, La ‘manumissio
vindicta’ nel diritto giustinianeo, in Studi
in onore di P. de Francisci II, Milano 1956, 273 ss.; B.K. Vetter, The historical development of some manumissio in
roman law, in Revue internationale
des droits de l’antiquité 51 (2004), 355
ss.; P. López Barja de Quiroga, Historia de la Manumisión en Roma. De los origenes a los Severos, Madrid 2007, 15 ss.; J.G. Wolf, In iure cessio und manumissio vindicta. Überlegungen zu zwei archaischen
Rechtsgeschäften, cit., 375 ss. Sull’origine e sul significato del
termine vindicta si veda inoltre S. Tondo, Aspetti simbolici e magici nella struttura giuridica della
manumissio vindicta, Milano 1967, 88 s.
Sul procedimento di
affrancamento mediante iscrizione nelle liste del censo (Tit. ex corp. Ulp. 1.8: Censu manumittebantur olim, qui lustrali censu Romae iussu dominorum
inter cives Romanos censum profitebantur; cfr. anche Boeth. in Cic. top. 1.2.10) si rinvia a C. Cosentini, Studi
sui liberti: contributo allo studio della condizione giuridica dei liberti
cittadini I, Catania 1948; M. Lemosse,
L’affranchissement par le cens, in Revue historique de droit francais et
étranger 27 (1949), 161 ss.; R. Danieli, In margine ad un recente studio sulla
«manumissio censu», in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 15 (1949), 198 ss.; Id.,
Contributi alla storia
delle manomissioni
romane I. Origine ed efficacia delle forme civili di manomissione,
Milano 1953, 152 ss.; P. Frezza,
Note esegetiche di diritto pubblico
romano, in Studi in onore di Pietro de
Francisci 1, Roma 1956, 199 ss.
Quanto
alla manumissio testamentum (Tit. ex corp. Ulp. 2.1-4: Qui sub condicione testamento liber esse
iussus est, statu liber appellatur. Statu liber quamdiu pendet condicio, servus
heredis est. Statu liber seu alienetur ab herede, sive usu capiatur ab aliquo,
libertatis condicionem secum trahit. Sub hac condicione liber esse iussus: “si
decem milia heredi dederit” etsi ab herede abalienatus sit, emptori dando
pecuniam ad libertatem perveniet; idque lex Duodecim Tabularum iubet) si veda
in materia: W.W. Buckland, The Roman Law of Slavery: The Condition of
the Slave in Private Law from Augustus to Justinian, Cambridge 1921, 442;
G.B. Impallomeni, Le manomissioni mortis causa, Padova
1963, 20 ss.; C. Cosentini, Studi sui liberti: contributo allo studio
della condizione giuridica dei liberti cittadini I, cit., 32 ss.
Va riferito
che accanto
a queste forme di manomissione si ammisero anche altri modi, non solenni, attraverso i quali si
conferiva al manomesso solo la libertà, ma non la cittadinanza. È questo il
caso dei Latini Iuniani di cui alla lex Iunia
Norbana del I sec. d.C.; si veda sul punto Gai. Inst. 3.56: Quae pars iuris ut manifestior
fiat, admonendi sumus, id quod alio loco diximus, eos, qui nunc Latini Iuniani
dicuntur, olim ex iure Quiritium servos fuisse, sed auxilio praetoris in
libertatis forma servari solitos; unde etiam res eorum peculii iure ad patronos
pertinere solita est. Postea vero per legem Iuniam eos omnes, quos praetor in
libertate tuebatur, liberos esse coepisse et appellatos esse Latinos Iunianos:
Latinos ideo, quia lex eos liberos proinde esse voluit, atque si essent cives
Romani ingenui, qui ex urbe Roma in Latinas colonias deducti Latini coloniarii
esse coeperunt; Iunianos ideo, quia per legem Iuniam liberi facti sunt, etiamsi
non essent cives Romani. Legis itaque Iuniae lator cum intellegeret futurum, ut
ea fictione res Latinorum defunctorum ad patronos pertinere desinerent, quia
scilicet neque ut servi decederent, ut possent iure peculii res eorum ad
patronos pertinere, neque liberti Latini hominis bona possent manumissionis
iure ad patronos pertinere, necessarium existimavit, ne beneficium istis datum
in iniuriam patronorum converteretur, cavere [voluit], ut bona eorum proinde ad
manumissores pertinerent, ac si lex lata non esset. Itaque iure quodam modo
peculii bona Latinorum ad manumissores ea lege pertinent.
[55] Sulla posizione giuridica dei liberti rimando, tra i molteplici, a: B.
Loreti Lorini, La condizione del liberto orcino nella
compilazione giustinianea, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 34 (1925), 29 ss.; C. Cosentini, Studi sui liberti. Contributo allo studio della condizione giuridica
dei liberti cittadini II, Catania 1950, 11 s.; Id., Nota minima sui liberti, in Sodalitas.
Scritti in onore di Antonio Guarino III, Napoli 1984, 1345 ss.; O. Robleda,
Il diritto degli schiavi nell’antica Roma,
Roma 1976, 170 ss.; B. Albanese, Le persone nel diritto privato romano,
Palermo 1979, 56 ss.; G. Fabre,
Libertus. Recherches sur les rapports
patron-affranchi à la fin de la République romaine, cit.; M.A. Levi, Cittadinanza dei
liberti, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantiniana, IV
Convegno
Internazionale, in onore di Mario De Dominicis, Perugia 1981, 501 ss.; C. Masi Doria, Civitas operae obsequium: tre studi sulla condizione giuridica dei
liberti, Napoli 1993; R. Quadrato,
Beneficium manumissionis e obsequium,
in Index 24 (1996), 341 ss.; M. Melluso,
La schiavitù nell’età giustinianea,
cit., 123 ss.
[56] Si veda in
particolare l’orazione ciceroniana in favore del poeta Archia, descritto come
degno della civitas Romana, Cic. pro Arch. 6: Interim satis
longo intervallo, cum esset cum M. Lucullo in Siciliam profectus, et cum ex ea
provincia cum eodem Lucullo decederet, venit Heracliam: quae cum esset civitas
aequissimo iure ac foedere, ascribi se in eam civitatem voluit; idque, cum ipse
per se dignus putaretur, tum auctoritate et gratia Luculli ab Heracliensibus
impetravit.
[58] Sul regno di Servio
Tullio si vedano: M. Pallottino, Servius Tullius à la lumière des nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques, in Comptes-Rendus, Académie des Inscriptions et et Belles Lettres 121.1 (1977), 216 ss.
http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/crai_0065-0536_1977_num_121_1_13345;
G. Valditara, Aspetti religiosi del regno di Servio Tullio,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris 52 (1986), 395 ss.; A. Fraschetti, Servio Tullio e la partizione del corpo civico, in Mètis. Anthropologie des mondes grecs anciens 9-10 (1994), http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/metis_1105-2201_1994_num_9_1_1017;
V.E. Vernole, Servius Tullius, Roma 2002; N.J. ALLEN, «The Founders of Rome as a Sequence of Mythic
Figures», in A. MEURANT (ed.), Routes et parcours mythiques : des textes à
l’archéologie. Actes du Septième colloque
international d’anthropologie du monde indo-européen et de mythologie comparée
(Louvain-la-Neuve, 19-21 mars 2009),
Brussels 2011.
[59] Successivamente, nel 311 a.C. il
censore Appio Claudio ordinerà la distribuzione dei liberti in tutte le tribù (Plut.
Public. 7; Liv. 9.46; Diod.
Sic. 20.36). Nel 304 saranno ricollocati nelle quattro tribus urbanae (Liv. 9.46) e si ha notizia di un reinserimento
nelle stesse anche del 220 a.C. (Liv. perioch. 20), fatto che può
far ipotizzare una ulteriore modifica intermedia. Nel 169, durante la censura di
Tiberio Gracco, i liberti sono stati distribuiti a sorte nelle tribù urbane
(Liv. 45.15; cfr. Dion. Hal. 4.22), o come riferisce Cicerone (de orat. 1.9) nutu atque verbo. In seguito, con una
legge del 116 a.C., la loro posizione sarà mantenuta costante nelle tribù urbane fino alla fine della
repubblica.
[61] Si veda la
trattazione di E. Gabba, Studi su Dionigi di Alicarnasso. II, in Athenaeum 39 (1961), 98 ss., in part. 112.
[62] M.A. Levi, Cittadinanza dei liberti, cit., 501
ss.; C. Cosentini, Nota minima sui liberti, cit., 1345 ss.;
C. Masi Doria, Civitas operae
obsequium: tre studi sulla condizione
giuridica dei liberti, cit.; R. Quadrato,
Beneficium manumissionis e obsequium,
cit., 341 ss.
[65] Si veda, in particolare, M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, Milano
1987, 31.
[66] Dion. Hal. 1.9.4.
[67] Per il concetto di
cittadinanza espresso da Dionigi di Alicarnasso rinvio a G. Poma, Dionigi d’Alicarnasso e la cittadinanza romana, in Mélanges de l’École française de Rome 1
(1989), 187 ss.
[68] Sylloge, II
(3a ed.) 543 (Decretum Larisaeorum, quod
duas Philippi regis epistulas continet), 32 ss. Sulla datazione del decretum rinvio a C. Habicht, Epigraphische Zeugnisse zur Geschichte Thessaliens unter der
Makedonische Herrschaft, in Arcaia Makedonia, Thessaloniki 1970, 273 ss. Analogamente Appiano parla della
cittadinanza romana incrementata da stranieri e servi emancipati, ma, al
contrario di Filippo, manifesta un giudizio negativo sulla sostanziale assenza di distinzione fra cittadini e
liberti, App. bell. civ. 2.120: Οὕτω δ’ ἔχοντες
τὸ
Καπιτώλιον σὺν τοῖς μονομάχοις ἀνέθορον. Καὶ αὐτοῖς βουλευομένοις ἔδοξεν ἐπὶ τὰ πλήθη μισθώματα περιπέμπειν·ἤλπιζον
γάρ, ἀρξαμένων
τινῶν ἐπαινεῖν τὰ
γεγενημένα, καὶ τοὺς ἄλλους
συνεπιλήψεσθαι
λογισμῷ τε τῆς ἐλευθερίας καὶ πόθῳ τῆς
πολιτείας. Ἔτι γὰρ ᾤοντο
τὸν δῆμον εἶναι Ῥωμαῖον ἀκριβῶς, οἷον ἐπὶ τοῦ πάλαι
Βρούτου
τὴν τότε
βασιλείαν καθαιροῦντος ἐπυνθάνοντο
γενέσθαι
καὶ οὐ συνίεσαν δύο τάδε ἀλλήλοις ἐναντία
προσδοκῶντες,
φιλελευθέρους ὁμοῦ καὶ μισθωτοὺς σφίσιν ἔσεσθαι
χρησίμως τοὺς παρόντας. Ὧν θάτερον εὐχερέστερον ἦν, διεφθαρμένης ἐκ
πολλοῦ τῆς
πολιτείας. Παμμιγές τε γάρ ἐστιν ἤδη τὸ πλῆθος ὑπὸ ξενίας, καὶ ὁ ἐξελεύθερος
αὐτοῖς ἰσοπολίτης ἐστὶ καὶ ὁ
δουλεύων ἔτι τὸ σχῆμα τοῖς δεσπόταις ὅμοιος·χωρὶς γὰρ τῆς
βουλευτικῆς ἡ ἄλλη
στολὴ τοῖς θεράπουσίν ἐστιν ἐπίκοινος. Τό τε
σιτηρέσιον τοῖς πένησι χορηγούμενον ἐν μόνῃ Ῥώμῃ τὸν ἀργὸν καὶ πτωχεύοντα καὶ
ταχυεργὸν τῆς Ἰταλίας λεὼν ἐς τὴν Ῥώμην ἐπάγεται. Τό τε πλῆθος τῶν ἀποστρατευομένων, οὐ διαλυόμενον ἐς τὰς πατρίδας ἔτι ὡς πάλαι
καθ’ ἕνα ἄνδρα δέει τοῦ μὴ δικαίους πολέμους ἐνίους
πεπολεμηκέναι, κοινῇ δὲ ἐς
κληρουχίας ἀδίκους
ἀλλοτρίας τε γῆς καὶ ἀλλοτρίων οἰκιῶν ἐξιόν, ἄθρουν τότε ἐστάθμευεν
ἐν τοῖς ἱεροῖς καὶ τεμένεσιν ὑφ’ ἑνὶ
σημείῳ καὶ ὑφ’ ἑνὶ ἄρχοντι
τῆς ἀποικίας, τὰ μὲν ὄντα σφίσιν ὡς ἐπὶ ἔξοδον ἤδη
διαπεπρακότες, εὔωνοι δ’ ἐς ὅ τι μισθοῖντο.
[69] Vedi M. Sordi, Paolo a Filemone o della schiavitù, cit., 31.
[70]
Per lo status generale dei Latini
«second only to the Roman citizenship», rinvio a N.A. Sherwin-White, The
Roman Citizenship, Oxford 1973, 110.
[72] Per un approfondimento del tema rinvio a:
C. Castello, Il cosidetto ‘ius migrandi’ dei Latini a Roma (ricerche in tema di
concessione e di accertamento degli ‘status civitatis et familiae’ dal 338 al
95 av.C.), in Bullettino
dell’Istituto di diritto romano 61 (1958), 209 ss.; E. Ferenczy, Zur Vorgeschichte des ius Latii. Das Problem der «römischen Hegemonie»
über Latium,
in Religion, société
et politique. Mélanges en hommage à Jacques Ellul, Paris 1983, 233 ss.; M. Talamanca, I mutamenti della
cittadinanza, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 103.2 (1991), 703 ss., http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/mefr_0223-5102_1991_num_103_2_1733;
F. Sturm, Conubium, ius migrandi,
conventio in manum, cit.,
717 ss.; L. Capogrossi Colognesi, Ius commercii, conubium, civitas sine suffragio. Le
origini del diritto internazionale privato e la romanizzazione delle comunità
romano-campane, cit., 3 ss.; W. Broadhead, Rome’s migration policy and the so-called
ius migrandi, in Cahiers du Centre Gustave-Glotz 12 (2001), 69 ss., http://www.persee.fr/web/revues/home/prescript/article/ccgg_1016-9008_2001_num_12_1_1544;
Id., Rome and the mobility of the Latins: problems of control, in La mobilité des personnes en Méditerranée,
de l’antiquité à l’époque moderne. Procédures de
contrôle et documents d’identification II.
La mobilité négociée, Rome 2004, 315 ss.; O.
Licandro,
Domicilium habere: Persona
e territorio nella disciplina del domicilio romano, Torino 2004, 135; L. Gagliardi,
Mobilità e integrazione delle persone nei
centri cittadini romani: La classificazione degli incolae, Milano 2006, 331
ss.
[73] Merita una menzione, un altro importante
privilegio concesso ai Latini, seppur forse meno arcaico: lo ius adipiscendae
civitatis Romanae per magistratum per il quale questi potevano
divenire cittadini romani qualora nella loro patria avessero ricoperto una
magistratura (Gai. Inst. 1.95: Quod ius
quibusdam peregrinis civitatibus datum est vel a populo Romano vel a senatu vel
a Caesare aut maius est Latium aut
minus; maius est Latium, cum et hi, qui decuriones leguntur, et ei, qui honorem
aliquem aut magistratum gerunt, civitatem Romanam consecuntur; minus Latium
est, cum hi tantum, qui vel magistratum vel honorem gerunt, ad civitatem
Romanam perveniunt). In materia rinvio a: G. Luraschi, Foedus Ius Latii Civitas. Aspetti costituzionali della
romanizzazione in Transpadana, Padova 1979, 179 ss.; D.J. Piper, The ius adipiscendae civitatis Romanae per magistratum and its effect on Roman-Latin relations,
in Latomus 47 (1988), 59 ss.; J. González,
El ius Latii y la lex Irnitana, in Athenaeum
65 (1987), 327; F. Lamberti, Tabulae Irnitanae. Municipalità e «ius
Romanorum»,
Napoli 1993, 26 ss.; P. Le Roux, Rome et le droit latin, in Revue historique de droit français et
étranger 76 (1998), 315 ss.; D. Kremer, Ius latinum. Le concept de droit latin sous la
République et l’Empire. Romanité et modernité du droit, Paris 2006, 119 ss.; A. Torrent, Ius Latii y Lex Irnitana, in Revista
Internacional de derecho romano 2 (2009), 159 ss. http://www.ridrom.uclm.es/documentos2/IusLatii_pub.pdf;
Id., Exclusión de
los hijos adoptivos del “ius adipiscendae civitatis romanae per magistratum vel
honorem” en la “lex Irnitana” cap. 21, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 77 (2011), 105 ss.
[74] E. De Ruggiero, v. Civitas (Romana), in Dizionario epigrafico di antichità romane
II, Roma 1920, 261. Si tratta di un istituto assai risalente anche per G. Luraschi, Foedus, ius Latii, civitas. Aspetti
costituzionali della romanizzazione in Transpadana, cit., 223.
[76] Liv. 39.3.4-6. Sul passo si vedano: G. Tibiletti, Ricerche di storia
agraria romana, in Athenaeum 28 (1950), 247
ss.; Id., Latini
e Ceriti, in Studi Vanoni, Pavia 1961, 247; P. Frezza, Note esegetiche di diritto pubblico romano: I) Pro cive se gerere (Acquisto della cittadinanza romana e
iscrizione nel censo), in Studi in
onore di Pietro de Francisci I, cit., 202 s.; V. Ilari, Gli Italici nelle strutture
militari romane, Milano
1974, 76 s.; U. Laffi, Sull’esegesi di alcuni passi di
Livio relativi ai rapporti tra Roma e gli alleati latini e italici nel primo
quarto del II sec. a.C., cit.,
43 ss. (ora in Id., Studi
di storia romana e di diritto, Roma 2001, 45 ss.).
[77] L’espressione tratta da Liv. 41.8.6 per
U. Laffi, Sull’esegesi
di alcuni passi di Livio relativi ai rapporti tra Roma e gli alleati latini e
italici nel primo quarto del II sec. a.C., in Pro Populo
Ariminense, Faenza 1995 (ora in
Id., Studi di storia
romana e di diritto, Roma 2001, 51) è «asindetica, com’è nell’uso normale di Livio, ed indica globalmente gli
alleati di Roma in Italia, Latini e Italici». Contra J. Briscoe, A Commentary on Livy, Books 41-45, Oxford
2012, 63, per il quale il termine indica i soli Latini.
[78] Il divieto di doppia cittadinanza emerge in Cic. pro Balb. 11.28: Duarum civitatum civis noster esse iure civili nemo potest.
L’argomento è dibattuto in dottrina, sul punto, tra i tanti, rinvio a: V. Arangio-Ruiz, Sul problema della doppia cittadinanza nella Repubblica e nell’Impero
romano, in Scritti giuridici F.
Carnelutti IV, Padova 1950, 53 ss.; G. Luraschi, La questione della cittadinanza
nell’ultimo secolo della Repubblica, in Res publica e princeps. Vicende politiche,
mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano, Atti del
Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 25-27 maggio 1994, Napoli 1996, 35 ss.; M. Talamanca, I
mutamenti della cittadinanza, cit., 703 ss.; S. Barbati,
Gli studi sulla cittadinanza romana prima
e dopo le ricerche di Giorgio Luraschi, in Rivista di Diritto Romano 12 (2012), 34 ss. http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano12Barbati.pdf.
[79] Sulla lex
si veda in particolare G. Grosso, Note critiche di diritto romano, I. La lex Claudia de
sociis e i rapporti fra lex e ius, in Mélanges Meylan I. Droit Romain, Lausanne 1963, 167 ss.
[81] In materia si veda G. Rotondi, Gli atti di frode alla legge nella dottrina romana e nella sua
evoluzione posteriore, Torino 1911, 50; L. Fascione, Fraus legi.
Indagini sulla concezione della frode alla
legge nella lotta politica e nell’esperienza giuridica romana, Milano 1983,
45 ss.
[82] Liv. 41.8.9. Unica fonte
dei libri XLI-XLV è il Codex
Vindobonensis, di cui alcune parti, tra cui il passo in analisi, sono
andate perse. Sulle difficoltà ricostruttive e sull’esegesi del passo rimando
a: U. Laffi, Sull’esegesi
di alcuni passi di Livio relativi ai rapporti tra Roma e gli alleati latini e
italici nel primo quarto del II sec. a.C., cit., 43 ss.; W. Broadhead, Rome’s migration policy and the
so-called ius migrandi, cit., 69 ss.
[83] A.J. Toynbeee,
Hannibal’s Legacy II, London 1965,
140; U. Laffi, Sull’esegesi
di alcuni passi di Livio relativi ai rapporti tra Roma e gli alleati latini e
italici nel primo quarto del II sec. a.C., cit. (ora in Id., Studi di storia
romana e di diritto, cit., 51). Sulla limitazione di questo potere ai
soli Latini dotati di ius commerci si
veda M. Kaser, Vom Begriff des ‘commercium’, in Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz nel 45 anno del suo
insegnamento II, Napoli 1953, 131 ss.
[84] Parla di adrogatio Th. Mommsen, Droit public romain VI.2, cit., 252 s. Contra M. Kaser, Vom Begriff des
‘commercium’, cit., 148; C. Russo
Ruggeri, La datio in adoptionem,
cit., 91 s. che propendono, invece, per la frode consistente nell’adozione in
patria di un soggetto per potersi trasferire a Roma ed acquistare la
cittadinanza.
[86] Vedi sul
punto: Cic. de off. 3.47: Male etiam, qui peregrinos urbibus uti prohibent eosque exterminant, ut Pennus apud patres nostros,
Papius nuper. Nam esse pro cive, qui civis non sit, rectum est non licere; quam
legem tulerunt sapientissimi consules Crassus et Scaevola;
pro Balb. 48: Itaque cum paucis annis post hanc civitatis donationem acerrima de civitate
quaestio Licinia et Mucia lege venisset, num quis eorum, qui de foederatis
civitatibus esset civitate donatus, in iudicium est vocatus?; 54: Quod si acerbissima
lege Servilia principes viri ac gravissimi et sapientissimi cives hanc Latinis,
id est foederatis, viam ad civitatem populi iussu patere passi sunt, neque ius
est hoc reprehensum Licinia et Mucia lege, cum praesertim genus ipsum
accusationis et nomen eius modi praemium quod nemo adsequi posset nisi ex
senatoris calamitate neque senatori neque bono cuiquam nimis iucundum esse
posset, dubitandum fuit quin, quo in genere iudicum praemia rata essent, in
eodem iudicia imperatorum valerent?; Brut. 63: Catonis autem orationes non minus multae fere sunt quam Attici Lysiae,
cuius arbitror plurumas esse - est enim Atticus, quoniam certe Athenis est et
natus et mortuus et functus omni civium munere, quamquam Timaeus eum quasi
Licinia et Mucia lege repetit Syracusas. Si veda anche Ascon. pro Corn. 67-68: Legem Liciniam et Muciam de civibus redigendis
video constare inter omnis, quamquam duo consules omnium quos vidimus
sapientissimi tulissent, non modo inutilem sed perniciosam rei publicae fuisse. - L. Licinium Crassum oratorem et Q. Mucium Scaevolam pont. max.
eundemque et oratorem et iuris consultum significat. Hi enim legem eam de qua loquitur de
redigendis in suas civitates sociis in consulatu tulerunt. Nam cum summa
cupiditate civitatis Romanae Italici populi tenerentur et ob id magna pars
eorum pro civibus Romanis se gereret, necessaria lex visa est ut in suae
quisque civitatis ius redigeretur. Verum ea lege ita alienati animi sunt
principum Italicorum populorum ut ea vel maxima causa belli Italici quod post
triennium exortum est fuerit. Per
la letteratura rimando a: Th. Mommsen, Römische Geschichte II, Breslau 1856, 214; Id., Le Droit public
romain 6.2,
trad. fr., Paris 1889, 262; Id., Le
Droit pénal romain III, trad. fr., Paris 1907, 186; G. Rotondi, Leges
publicae populi Romani, cit., 335; O. Behrends, La lex
Licinia Mucia de civibus redigundis de 95 a.C. Une loi néfaste d’auteurs savants et bienveillants, in Antiquité et Citoyenneté, Actes du Colloque
International tenu à Besançon les 3, 4 et 5 novembre 1999, Paris 2002, 15
ss. Sull’attribuzione dello status di municipia civium Romanorum si veda per tutti U. Laffi, Studi di storia romana e di diritto, Roma 2001, 152 ss. (fonti e
bibliografia ivi).
[87] E. De Ruggiero, v. Civitas
(Romana), in Dizionario epigrafico di antichità romane II, cit., 261; secondo il
De Ruggiero tale privilegio è stato istituito con la legge che fondò la colonia
di Ariminum.
[88] Cicerone riferisce
che, più avanti, la lex Servilia repetundarum
limiterà questa prerogativa ai soli Latini. Cic. pro Balb. 54: Quod si
acerbissima lege Servilia principes viri ac gravissimi et sapientissimi cives
hanc Latinis, id est foederatis, viam ad civitatem populi iussu patere passi
sunt, neque ius est hoc reprehensum Licinia et Mucia lege, cum praesertim genus
ipsum accusationis et nomen <et> eius modi praemium quod nemo adsequi
posset nisi ex senatoris calamitate neque senatori neque bono cuiquam nimis
iucundum esse posset, dubitandum fuit quin, quo in genere iudicum praemia rata essent,
in eodem iudicia imperatorum valerent? Num fundos igitur factos populos Latinos arbitramur aut Serviliae legi aut
ceteris quibus Latinis hominibus erat propositum aliqua ex re praemium
civitatis? Cfr. anche Cic. pro Rab. post. 9. Sulla lex
Servilia rimando a G. Crifò, Ecumene e cittadinanza, in Φιλία. Scritti per Gennaro Franciosi I,
Napoli 2007, 627 ss.; F. Lamberti, Romanización y ciudadanía. El camino de
la expansión de Roma en la República, Lecce 2009; Id., Civitas Romana e diritto latino fra tarda
repubblica e primo principato, in Index 39 (2011), 227 ss.
[89] Sulla lex
si veda C.G. Bruns, Fontes iuris Romani antiqui I, cit.,
55 ss.; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, pars
prima. Leges, Firenze
1941, 84 ss. e n. 7; P.F. Girard-F.
Senn, Les lois des Romains. 7e édition des «Textes de droit
romain» II, cit.,
90 ss.; C. Williamson, The laws of the Roman people: public law in
the expansion and decline of the Roman Republic, cit., 302 s.
[90] CIL I (II ed.) 583. La dottrina prevalente
ritiene che il testo epigrafico tratto dalla Tabula Bembina sia parte della lex
Acilia, vedi sul punto: A. Lintott,
The ‘leges de repetundis’ and Associate
Measures under the Republic, cit., 182 ss., e da ultimo P. Lepore, Introduzione allo studio dell’epigrafia giuridica latina, Milano
2010, 73. Si vedano anche le tesi contrarie di G. Tibiletti, Le leggi ‘de
iudicii repetundarum’ fino alla guerra sociale, cit., 19 ss., per il quale
l’epigrafe conterrebbe piuttosto la lex
Sempronia iudiciaria e H.B. Mattingly,
The Extortion Law of the ‘Tabula Bembina’,
in The Journal of Roman Studies 60
(1970), 154 ss., il quale ritiene si tratti invece della lex Servilia Glauciae del 104-100 a.C.
[91] Sul crimen repetundarum e il suo giudizio rimando a: C.W. Göttling, Fünfzehn römische Urkunden auf Erz und Stein nach den Originalen neu verglichen und herausgegeben, Halle 1845, 36 ss.; L. Guenoun, La lex Sempronia iudiciaria, in Études Girard I, Paris 1912, 85 ss.; N.A. Sherwin-White, Procurator Augusti, in Papers of the British School at Rome 15 (1939), 15 ss.; L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 373; F. Pontenay De Fontette, Leges repetundarum, Paris 1954, 82 s.; G. Tibiletti, Le leggi de iudiciis repetundarum fino alla guerra sociale, in Athenaeum 31 (1955), 388; A.C. Johnson-P.R. Coleman-Norton-F.C. Bourne, Ancient Roman Statutes, Austin 1961, 38 ss. e n. 45; W. Kunkel, Untersuchungen zur Entwicklung des römischen Kriminalverfahrens in vorsullanischer Zeit, Münich 1962; B. Schmidlin, Das Rekuperatoren verfahren, Freiburg 1963, 71 ss.; C. Nicolet, L’ordre équestre à l’époque républicaine (312-43 av. J.-C.). Définitions juridiques et structures sociales I, Paris 1966, 88 ss.; E.S. Gruen, Roman politics and the criminal courts, 149-78 BC, Cambridge 1968, 88 ss.; F. Serrao, v. Repetundae, in Novissimo Digesto Italiano 15 (1968), 459; Id., Classi, partiti e legge nella Repubblica Romana, Pisa 1974, 216 s.; W. Eder, Das vorsullanische Repetundenverfahren, München 1969, 120 ss.; A.H.M. Jones, The criminal courts of the roman Republic and Principate, Oxford 1972, 45 ss.; P.F. Girard-F. Senn, Les lois des Romains, cit., 90 ss. e n. 7; C. Venturini, Studi sul crimen repetundarum nell’età repubblicana, Milano 1979, 6 ss.; A. Lintott, The ‘leges de repetundis’ and Associate Measures under the Republic, in Zeitschrift der Savigny - Stiftung für Rechtsgeschichte (Romanistische Abteilung) 98 (1981), 182 ss.; Id., Judicial Reform and Land Reform in the Roman Republic, Cambridge 1992, 32 s.; D. Mantovani, Il problema d’origine dell’accusa popolare, Padova 1989; C. Williamson, The laws of the Roman people: public law in the expansion and decline of the Roman Republic