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Praga-marzo-2008-120 -1francesco Sini

Università di Sassari

 

Urbs: concetto e implicazioni normative nella giurisprudenza *

 

 

SOMMARIO: 1. Urbs tra terminologia e dogmatica nei Digesta dell’Imperatore Giustiniano. – 2. Centralità del pomerium per la definizione religiosa e giuridica di urbs. Esposizione delle fonti.A) Fonti da cui si ricava che il pomerio è il confine religioso e giuridico dell’urbs. – B) Pomerio come luogo inaugurato per poter costruire le mura della città. 3. Riti di fondazione. Terminologia degli inizi: initia, principia, origines, primordia urbis. Concezione giurisprudenziale del principium come “potissima pars. – 4. L’urbs (auspicato inauguratoque condita) come “città degli dèi”. – 5. Realtà spirituali e materiali dell’urbs: la santità delle mura. – 6. Conclusione [sulla giurisprudenza]. – Abstract.

 

 

1. – Urbs tra terminologia e dogmatica nei Digesta dell’Imperatore Giustiniano

 

Per il concetto di urbs nella giurisprudenza sarà bene muovere dai Digesta dell’imperatore Giustiniano[1]. Naturalmente sono molte le occorrenze di urbs fra i frammenti giurisprudenziali di tale opera, ma poche presentano interesse per gli aspetti terminologici. Solo alcuni frammenti del cinquantesimo libro, raccolti nel titolo XVI sotto la rubrica “De verborum significatione”, lasciano ancora intravvedere tracce delle discussioni dei giuristi romani intorno al concetto e alle implicazioni normative di urbs[2].

I tre frammenti in questione sono rispettivamente del giurista Marcello (D. 50.16.87 [Marcellus libro XII digestorum])[3], del giurista Pomponio (D. 50.16.239.6-8 [Pomponius libro singulari enchiridii]) e del giurista Paolo (D. 50.16.2 pr.[Paulus libro primo ad edictum])[4].

Per quanto riguarda il primo ed il terzo frammento, sarà sufficiente evidenziare che l’interesse definitorio di Marcello e Paolo si sostanzia nel rilevare la configurazione dell’urbs (nel caso specifico la urbs Roma) sia in rapporto alla cinta muraria che la circonda, sia in rapporto agli edifici che essa contiene al suo interno.

Voglio, invece, analizzare più nel dettaglio il citato frammento di Pomponio[5], tratto dal liber singularis enchiridii:

 

D. 50.16.239 (Pomponius libro singulari enchiridii): [6] "Urbs" ab urbo appellata est: urbare est aratro definire. Et Varus ait urbum appellari curvaturam aratri, quod in urbe condenda adhiberi solet. [7] "Oppidum" ab ope dicitur, quod eius rei causa moenia sint constituta. [8] "Territorium" est universitas agrorum intra fines cuiusque civitatis: quod ab eo dictum quidam aiunt, quod magistratus eius loci intra eos fines terrendi, id est summovendi ius habent.

 

Di questo frammento è notevole la potenzialità definitoria; troviamo infatti esplicitato in esso, fra diverse verborum significationes (es. pupillus, servus, incola, munus publicum, advena, decuriones) anche il significato delle parole urbs, oppidum, territorium.

Di grande interesse l’etimologia proposta per urbs nel § 6: secondo Pomponio urbs deriva da urbum ed il verbo urbare significa aratro definire, cioè tracciare confini con l’aratro. Il richiamo al rito di fondazione dell’urbs risulta meglio precisato nel prosieguo del paragrafo, dove con le parole et Varus ait si introduce una citazione del giurista Alfeno Varo, il quale aveva affermato chiamarsi urbum la curvatura dell’aratro, poiché si era soliti usarlo in urbe condenda; con sotteso ma chiaro riferimento al tracciamento del solco del pomerio dell’urbs[6].

Come si è detto, il frammento di Pomponio (o di Alfeno Varo) definisce, sempre partendo dall’etimologia, anche i concetti di oppidum e di territorium.

Nell’indicare l’etimologia di oppidum il giurista segue la prassi antica di ricavare il significato di un termine dall’uso o dalla funzione di esso: Oppidum ab ope dicitur; poiché per ragione di difesa sono appunto costruite le mura, moenia sint costituta. Da notare che nel caso dell’oppidum si mette l’accento sulla fortificazione delle mura, mentre manca qualsiasi riferimento ai riti di fondazione, che qualificano in senso giuridico le urbes rispetto ad altre forme di insediamenti umani.

Infine la definizione di territorium. L’insieme delle campagne (universitas agrorum) che si trova dentro i confini (intra fines) di una qualsiasi civitas costituisce il territorium; in tal modo per il giurista intra fines civitatis si determina anche la connessione di urbs e ager[7]; mentre il riferimento etimologico allo ius dei magistrati che si esercita nel territorio, evidenzia la dicotomia urbs / ager o domi / militiae nello ius pubblicum del popolo romano.

 

 

2. – Centralità del pomerium per le realtà religiose e giuridiche dell’urbs. Esposizione delle fonti e definizione del concetto

 

Le significationes di urbs, oppidum e territorium proposte dal giurista Pomponio mostrano, dunque, il ruolo insostituibile del pomerio nella determinazione delle realtà religiose e giuridiche dell’urbs. è infatti l’esistenza del pomerio che contraddistingue l’urbs rispetto agli altri centri abitati (oppida); ed al tempo stesso ne delinea la diversa fisionomia (umana e divina) rispetto a suo territorio (ager) e agli altri territori (vedi gli agrorum genera degli auguri)[8], con rilevanti conseguenze nel campo della religione e dello ius (sacrum, publicum, privatum).

Sarà bene, a questo punto, esporre alcune fonti da cui si rileva il concetto normativo di pomerium nel linguaggio giuridico-religioso romano. I testi sono molto noti, quindi si procederà ad una ricognizione sommaria.

 

A) Fonti da cui si ricava che il pomerio è il confine religioso e giuridico dell’urbs

 

1

Varr. De ling. Lat. 5.143. Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum iactam murum. Post ea qui fiebat orbis, urbis principium; qui quod erat post murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur. Cippi pomeri stant et circum Ariciam et circ[o]um Romam. Quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et uruo urb[s]es[t]; ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbes, quod item conditae ut Roma, et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra pomerium ponuntur[9].

 

Nel passo Marco Terenzio Varrone[10] riferisce dell’Etruscus ritus, utilizzato da molti anche nel Lazio all’atto di fondare una città. Il rito, descritto dal grande antiquario con cura dei particolari[11], si svolgeva nel modo seguente: in un giorno di auspicii favorevoli, si aggiogavano un toro e una vacca, lasciando quest’ultima dalla parte interna, con l’aratro si tracciava un solco circolare al fine di essere difesi da un fossato (rappresentato dallo spazio da cui si era estratta la terra) e da un muro (rappresentato da quella stessa terra, gettata verso l’interno rispetto al solco).

Ed ecco la definizione di pomerium: «Il circolo (orbis) che si trovava dietro questi elementi segnava il principium urbis; e poiché esso stava dopo il muro (post murum) fu chiamato postmoerium e andava fin dove auspicia urbana finiuntur».

Il testo varroniano continua menzionando i cippi pomeriali ancora esistenti ai suoi tempi ad Ariccia e a Roma; e poi vi si legge la sua etimologia di urbs, da orbis (solco circolare) e urvum (aratro); etimologia che quasi certamente – dato il grandissimo prestigio di cui godeva già fra i contemporanei la sapienza di M. Terenzio Varrone – ha influenzato la dottrina dei giuristi citati in precedenza[12].

Il testo chiude con la notazione che le colonie romane erano fondate ut Roma, cioè poste dentro un pomerio, e che per questa ragione erano esse stesse chiamate urbes; lasciando così intrevvedere quella configurazione urbana dello spazio romano, per cui si afferma, non senza ragione, che l’imperium del popolo romano fu un impero di città.

 

2

Gell. Noct. Att. 13.14.1-6. Quid sit "pomerium". "Pomerium" quid esset, augures populi Romani, qui libros de auspiciis scripserunt, istiusmodi sententia definierunt: «Pomerium est locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani auspicii»[13]. [2] Antiquissimum autem pomerium, quod a Romulo institutum est, Palati montis radicibus terminabatur. Sed id pomerium pro incrementis reipublicae aliquotiens prolatum est et multos editosque collis circumplexum est. [3] Habeat autem ius proferendi pomerii, qui populum Romanum agro de hostibus capto auxerat. [4] Propterea quaesitum est ac nunc etiam in quaestione est, quam ob causam ex septem urbis montibus, cum ceteri sex intra pomerium sint, Aventinus solum, quae pars non longinqua nec infrequens est, extra pomerium sit, neque id Servius Tullius rex neque Sulla, qui proferundi pomerii titulum quaesivit, neque postea divus Iulius, cum pomerium proferret, intra effatos urbis fines incluserint. [5] Huius rei Messala aliquot causas videri scripsit, sed praeter eas omnis ipse unam probat, quod in eo monte Remus urbis condendae gratia auspicaverit avesque inritas habuerit superatusque in auspicio a Romulo sit: [6] «Idcirco» inquit «omnes, qui pomerium protulerunt, montem istum excluserunt quasi avibus obscenis ominosum»[14].

 

Aulo Gellio, per spiegare che cosa sia il pomerio si appella ad una sententia definitoria di certi augures populi Romani, che avevano scritto libri de auspiciis: «Il pomerio è lo spazio fissato (dagli auguri con solenne dichiarazione), tutt’intorno alla città, dietro le mura (pone muros), delimitato da confini determinati, che stabilisce il confine dell’auspicio urbano».

Il passo prosegue con una notizia sul più antico pomerio istituito da Romolo, che era delimitato dalle falde del monte Palatino, ed espone modalità e protagonisti dei successivi ampliamenti in corrispondenza con l’ampliarsi della res publica: da Servio Tullio, a Silla[15], a Giulio Cesare. Aveva il diritto di allargare il pomerio chi avesse “accresciuto” il popolo romano con territorio strappato ai nemici (per la religione e per il diritto, vi era una interconnessione tra il pomerium [e dunque l’urbs] e i fines populi Romani)[16]. Tuttavia, risulta inspiegabile all’autore latino il perché solo sei delle sette alture di Roma siano state incluse nel pomerio, mentre l’Aventino ne è rimasto escluso fino all’epoca dell’imperatore Claudio.

Sul punto Gellio trascrive una citazione dell’augure e giurista Marco Valerio Messala (console nel 53 a.C. ed autore di De auspiciis libri, da cui quasi per certo è tratta la citazione di Gellio), dove si leggeva questa spiegazione: tutti coloro che allargarono il pomerio esclusero l’Aventino, ritenendolo luogo di malaugurio; poiché sull’Aventino Remo trasse gli auspici per la fondazione di Roma, ma gli uccelli non gli furono propizi.

Dalle definizioni degli auguri, qui libros de auspiciis scripserunt, e di Varrone si ricava, dunque, che il pomerio è il confine dell’urbs. Questo dato assume grande rilevanza nel campo giuridico-religioso: nel sistema romano certi poteri e certe norme si plasmavano sull’esistenza del concetto di confine dell’urbs; così come certe attività pubbliche potevano compiersi solo fuori del pomerio o solo al suo interno.

Nell’esercizio dei poteri dei magistrati e delle prerogative derivanti dall’imperium, espressioni quali extra pomerium ed extra urbem assumevano il medesimo senso ed addivenivano al medesimo risultato; come insegnava il giurista Lelio Felice citando la norma di ius publicum che recitava: centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum […] intra urbem imperari ius non sit[17]. La linea pomeriale dell’urbs distinguevano auspicia urbana e militaria ed allo stesso modo connotava i poteri dei magistrati, in quanto l’imperium domi e l’imperium militiae si concretizzavano nella modalità di esercizio intra o extra pomerium[18].

 

B) Pomerio come luogo inaugurato per poter costruire le mura della città

 

3

Liv. 1.44.4-5: [4] Pomerium, verbi vim solam intuentes, postmoerium interpretantur esse; est autem magis circamoerium, locus, quem in condendis urbibus quondam Etrusci, qua murum ducturi erant, certis circa terminis inaugurato consecrabant, ut neque interiore parte aedificia moenibus continuarentur, quae nunc vulgo etiam coniungunt, et extrinsecus puri aliquid ab humano cultu pateret soli. [5] Hoc spatium, quod neque habitari neque arari fas erat, non magis, quod post murum esset, quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt; et in urbis incremento semper, quantum moenia processura erant, tantum termini hi consecrati proferebantur[19].

 

Tito Livio propende per una definizione di pomerium che, per sua stessa ammissione, trascende la mera etimologia che porterebbe ad interpretare la parola nel senso di «che si trova dietro il muro» (postmoerium); esso sta piuttosto intorno alle mura, poiché designa lo spazio dove di doveva costruire un muro, che nel fondare la città gli antichi Etruschi consacravano dopo aver preso gli auspici (inaugurato consecrabant) fissando intorno dei cippi, così da impedire che dalla parte interna le costruzioni venissero addossate alle mura e da lasciare al di fuori un tratto di terreno libero da ogni coltivazione. Secondo Livio questo spazio, che non era lecito né urbanizzare né coltivare, i Romani lo chiamarono pomerio tanto perché stava dietro il muro (quod post murum esset), quanto perché il muro stava dietro di esso (quod murus post id); ed ogni volta che la città veniva ampliata di quanto dovevano avanzare le mura, tanto erano spostai in avanti i cippi consacrati a delimitare il pomerio.

La definizione accolta da Tito Livio identifica il pomerio come il luogo su cui era stata chiesta l’approvazione divina, e quindi inaugurato, perché vi si potessero costruire le mura[20]; da cui consegue che le mura della città erano sante[21], come discuteremo meglio più avanti.

 

 

3. – Riti di fondazione. Terminologia degli inizi: initia, principia, origines, primordia urbis. Concezione giurisprudenziale del principium come “potissima pars

 

Per i giuristi romani, l’esistenza giuridica di una città richiedeva il compimento del rito di fondazione[22], solenne atto giuridico-religioso improntato come già detto all’Etruscus ritus. Senza dubbio, l’elaborazione etrusca del rito di fondazione di città (e la sua adozione da parte della religione e del diritto di Roma) va datata in età piuttosto risalente; Macrobio attesta, infatti, che in tale cerimonia il vomere utilizzato per tracciare il solco pomeriale doveva essere necessariamente di bronzo[23].

Vediamo anzitutto la rielaborazione ovidiana (e quindi augustea) della Urbis origo; soprattutto per evidenziare la fortissima connotazione spazio/temporale che i riti di fondazione davano agli initia Urbis, sia determinando il tempo della città (e delle sue istituzioni), sia qualificando religiosamente e giuridicamente le diverse porzioni dello spazio terrestre.

è noto che la vicenda della Urbis origo viene trattata dal poeta nel IV libro dei Fasti ai versi 807-862[24], nel quadro dell’illustrazione della festività dei Parilia[25]; che i calendari antichi annotavano con la formula Roma condita o Natalis Urbis. La narrazione poetica presenta diverse articolazioni: a) la consultazione divina per mezzo degli uccelli (vv. 807-818); b) il rituale della fondazione (vv. 819-836); c) il sacrilegio, la morte e il funerale di Remo (vv. 837-856); d) la preghiera per Roma (vv. 857-862).

Nella descrizione della Urbis origo proposta da Ovidio, i riti di fondazione della città sono stati improntati «secondo i concetti del diritto augurale che vediamo consolidato nella Repubblica»[26]. Va altresì sottolineata l’attenzione del poeta nel configurare con esattezza terminologia e realtà giuridiche (precedenti e successive) connesse alla fondazione dell’Urbs. I due gemelli, che ancora guidavano un vulgus di pastori[27], convengono di fondare la città (moenia ponere) al fine di contrahere agrestis (Fasti 4.810); quindi si procede alla consultazione delle aves, che ha esito favorevole per Romolo (Fasti 4.818: et arbitrium Romulus urbis habet); solo a questo punto hanno inizio i riti di fondazione veri e propri: col tracciamento del solco pomeriale, la preghiera di Romolo alle divinità, la costruzione delle mura (Fast. 4.819-836)[28].

Il testo, come ho detto, è stato assai ben studiato dal punto di vista dello ius augurium: non sarebbe, dunque, molto significativo soffermarsi ulteriormente a descrivere le varie fasi del manifestarsi della volontà degli dèi, i quali col tuono e col fulmine determinano l’augurium che perfeziona e conferma l’avvenuta fondazione della città. Dal momento in cui si manifesta l’augurium, che costituisce anche l’atto conclusivo della fondazione, ha inizio l’esistenza (religiosa e giuridica) della urbs Roma e quindi anche dei suoi cives; i quali, infatti, non più vulgus ma cives, costruiranno in breve tempo le mura della città. Da sottolineare, ancora una volta, l’aderenza del poeta alla tradizione sacerdotale dello ius augurium: è noto, infatti, che gli augures publici populi Romani distinguevano tra il pomerio, confine religioso dell’Urbs, e la cinta muraria della città, che non si identificava con il pomerio, né era indispensabile per l’esistenza giuridica dell’Urbs[29].

Dopo i riti, la terminologia. Per quanto l’espressione – e quindi la categoria – initia Urbis compaia con maggiore frequenza nelle opere di storici, come Tito Livio[30] e di antiquari come Marco Terenzio Varrone, il quale aveva dedicato un libro alla narrazione degli initia urbis [Romanae][31], essa non risulta, però, estranea alla lingua dei giuristi romani. Mi limiterò a proporre qualche considerazione sull’esempio più famoso, almeno per i giuristi:

 

D. 1.2.1: (Gaius libro primo ad legem duodecim tabularum) Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi, non quia velim verbosos commentarios facere, sed quod in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est[32].

 

Non posso, né sarebbe opportuno, presentare ora un’articolata esegesi del celebre testo gaiano, che peraltro non è esente da sospetti di interpolazioni[33]. Al riguardo, mi pare da condividere l’impostazione di Lelio Lantella, il quale ha studiato il passo in relazione alla proposizione metodologica affermata dal giurista «cuiusque rei potissima pars principium est», in un denso e stimolante saggio pubblicato nel 1983 negli Studi Sanfilippo. Il testo gaiano è stato poi ristudiato da Sandro Schipani[34]; il quale – superando in parte i risultati di Lantella – è pervenuto alla conclusione che principium in D. 1.2.1 vada intepretato come «inizio, che ha in sé, più che ogni altra parte, il proprio fondamento»[35].

Al di là delle possibili implicazioni derivanti dalle diverse letture proposte (vuoi che si debba leggere: necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi[36]; oppure: necessario p[opuli] R[omani] ius ab urbis initiis repetendum existimavi[37]), il testo di Gaio mi pare molto importante, proprio per la concezione storico-giuridica degli initia Urbis che in esso si appalesa. Gli initia Urbis sono presentati da Gaio come principium della storia delle istituzioni romane, e quindi come potissima pars di quelle istituzioni; che, nel divenire storico della vita del popolo romano, hanno accresciuto e perfezionato la loro completezza iniziale.

Per quanto, a proposito dell’«initium civitatis nostrae», non manchi nello stesso titolo dei Digesta, precisamente nel successivo frammento di Pomponio, una visione più “dinamica” proprio dell’origine e dell’evoluzione del diritto[38].

 

 

4. – L’urbs (auspicato inauguratoque condita) come “città degli dèi”

 

L’urbs sacralizzata dall’inaugurazione del pomerio, e dunque auspicato inauguratoque condita, viveva affidandosi alla tutela delle sue divinità[39]; prosperava accogliendo sempre nuovi dèi, sia mediante ricorso ai sacra peregrina[40], sia che si trattasse di evocationes delle divinità dei nemici[41].

Nei libri ab urbe condita di Tito Livio[42] traspare più volte la convinzione che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come nelle vicende umane «omnia prospera evenisse sequentibus deos»[43]: per lo storico la pietas e la fides[44] avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la legittimazione divina dell’imperium dei Romani; gli dèi si erano mostrati, in ogni circostanza, più ben disposti verso coloro i quali avevano osservato la pietas ed onorato la fides[45].

A mio avviso, risulta di estrema importanza il passo di Tito Livio 5.21.1-3: vi si teorizza – seguendo la dottrina teologica e giuridica dei sacerdoti romani – l’esistenza di un legame imprescindibile tra dèi e luoghi deputati al loro culto; di tale legame proprio la urbs Roma costituisce il caso più significativo, in ragione dei riti primordiali della fondazione della città (urbs augurato inauguratoque condita)[46].

In questo testo, relativo alla narrazione degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma, proprio in ragione dei suoi initia (cioè dei riti della sua fondazione), come lo spazio terrestre massimamente votato alla religione («Abbiamo una città fondata con regolari auspici e augurii, dove non vi è luogo che non sia pieno di cose sacre e di dèi»)[47].

La valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta assai bene da Huguette Fugier nel suo libro dedicato all’espressione del sacro nella lingua latina[48]. Del resto, il testo di Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo sosteneva che il popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il sito dell’Urbs Roma, dove peraltro «nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento degli initia Urbis) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e giuridica del popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale seguendo il volere degli dèi. Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è che non si potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo ambito locale (la Urbs Roma) adatto a contenere i riti e i sacrifici che ordinariamente assicuravano al popolo romano la conservazione della pax deorum. Anzi nella parte finale del testo, si confondono volutamente i luoghi con gli dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio, infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe all’abbandono degli dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi dèi, pubblici e privati?».

Tuttavia, questo imprescindibile legame tra dèi e la urbs Roma non deve far dimenticare, che la religione politeista romana fu sempre caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti “aperture” cultuali verso l’esterno[49].

 

 

5. – Realtà spirituali e materiali dell’urbs: la santità delle mura

 

Agli initia Urbis, attraverso i riti di fondazione e la definizione del pomerio, possono farsi risalire alcune concrete realtà materiali di res sanctae: in particolare le mura dell’Urbs (e poi, per assimilazione del rito augurale di fondazione, di tutte le città dell’orbe romano) e, almeno in età giustinianea, anche le porte della città[50].

Prima di esaminare nel dettaglio la santità delle mura, conviene delineare brevemente l’emersione tra sacerdoti e giuristi di categorie giuridiche e religiose quali sacrum, sanctum e religiosum. Regolare una materia così ardua e dai profili incerti, richiedeva un’intensa attività speculativa e decisionale, che assorbiva gran parte dell’attività decretale e rispondente dei pontefici[51].

Purtroppo, lo stato miserevole dei materiali provenienti da documenti sacerdotali non consente di farsi un’idea precisa di questa immensa attività interpretativa, che, stando all’enunciazione di Macrobio, coinvolgeva l’intera realtà del mondo conoscibile. Decretare in merito a che cosa sia sacrum, cosa sia profanum, sanctum o religiosum significava per i pontefici dover tracciare linee di demarcazione non sempre definibili, né in maniera chiara né una volta per tutte. Ben poco risulta comprensibile di questi antichi decreti[52], di cui giuristi e antiquari sintetizzano quasi sempre le conclusioni, avulse da ogni contesto argomentativo ed esemplificativo. Ne conseguono definizioni lacunose e poco soddisfacenti, quali appunto le definizione di sanctum; testimonianze evidenti delle difficoltà dei pontefici a ricondurre a un’idea semplice il significato vago e multicomprensivo della parola. Esemplare al riguardo la definizione di sanctum proposta dal giurista Trebazio Testa[53], definizione che possiamo leggere in una citazione tratta dai Saturnalia di Macrobio[54].

Per Trebazio sanctum «talora è sinonimo di sacro e di religioso, talora ha significato diverso, cioè né sacro né religioso». Il giurista enuclea una nozione di sanctum – così come aveva fatto per sacrum e per religiosum – priva di riferimenti giuridici, che sembrerebbe collocarsi al di fuori del dibattito relativo alla concettualizzazione delle res sanctae; seppure, per qualche autorevole romanista non sarebbe del tutto fuori luogo «accostare gli svolgimenti di Trebazio … alla problematica delle classificazione delle res divini iuris»[55].

Neanche il ricorso all’etimologia antica offre alcunché di positivo: i grammatici sembrano essere d’accordo nel far derivare sanctum da sancitum e sancitum da sanguis; ma fra i giuristi (Marciano) si rileva un’altra interpretazione che lega sanctum a sagmina: Sanctum autem dictum est a sagminibus[56].

Secondo Servio, tardo commentatore di Virgilio, il significato originale di sanctum sarebbe quello di «reso sacro attraverso la consacrazione con sangue sacrificale»[57]. In tal modo l’epiteto si adatterebbe a tutti gli oggetti santificati con l’immolazione di vittime, ma senza che per essi sia stato celebrato alcun rito di consacrazione. Per quanto il contesto virgiliano[58], di sapore arcaizzante, con la stretta relazione tra sancio, sanctum e i fulgura – che santificavano i luoghi –, sembra piuttosto avvalorare la tesi che sanctum fu usato prima in riferimento a luoghi, poi per gli uomini che partecipavano della protezione sacra[59].

Nelle testimonianze giurisprudenziali più antiche (Servio Sulpicio Rufo, Trebazio Testa, Elio Gallo, Masurio Sabino), la terminologia non si presenta affatto netta. Termini come sanctum e religiosum sono presentati spesso come sinonimi, avviluppati e confusi in un concetto più ampio e onnicomprensivo di religiosità.

Neanche dai giuristi dell’età imperiale viene maggior chiarezza sul concetto di res sanctae, di cui resta emblematica la definizione del giurista Gaio:

 

Gai Inst. 2.8: Sanctae quoque res, velut muri et portae, quodammodo divini iuris sunt[60].

 

Altri giuristi romani, quali Marciano, Paolo e Ulpiano citano le res sanctae accanto alle res sacrae e alle res religiosae, senza però ricomprenderle esplicitamente nella categoria delle res divini iuris[61]. Si potrebbe argomentare in negativo, rilevando che i giuristi appena citati tendono comunque a differenziare (contrapponendole) le res sanctae dalle res publicae. Questo si evince da Paolo in D. 39.3.17.3 e, ancora prima, da un frammento del commento all’editto provinciale di Gaio (D. 41.3.9)[62], in cui appare altrettanto netta la contrapposizione alle res publicae sia delle res sacrae sia delle res sanctae, che però non risultano accomunate nello stesso genus.

Nel pensiero dei giuristi romani la specificità delle res sanctae sembra concretizzarsi piuttosto sotto il profilo della protezione giuridica ad esse accordata[63] e, quindi, della sanzione che ne vietava la violazione. È quanto si legge nel frammento di Ulpiano D. 1.8.9.3[64]. Ma anche le Istituzioni di Giustiniano (Inst. 2.1.10) collegano la santità di una res alla sanzione che ne punisce la violazione[65].

Il testo giustinianeo però ribadisce il carattere ‘santo’ delle mura della città. Del resto, molti secoli prima, sul finire dell’età repubblicana, proprio la santità delle mura era stata utilizzata come caso esemplificativo di sanctum dal giurista Elio Gallo[66], autore di un’opera intitolata «De verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione», laddove distingueva tria divini iuris genera[67]

Ora, a proposito dei tria divini iuris genera, si può notare che, mentre per sacrum e per religiosum il giurista individua sia le res (edificio; sepolcro) sia le procedure operative (consecratio; inumazione del cadavere), nel caso di sanctum indica invece solo l’oggetto della santità, tacendo sulle procedure operative, e quindi sulla competenza a rendere sancta una res.

Ci soccorre al riguardo Cicerone, il quale nel de natura deorum ricollega la santità delle mura alla teologia e al diritto elaborati dal collegio dei pontefici («urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis»)[68]. Ancora più importante appare la glossa Tesca dell’epitome di Festo, pervenuta purtroppo irrimediabilmente mutila[69]. Tuttavia, nel testo festino si leggono con sicurezza le parole sancta loca, pontifici libri e dedicaverit. Si tratta, in tutta evidenza, di una citazione testuale dai libri pontificum; sulla base della quale non risulta difficile affermare – ritengo senza alcun dubbio – la presenza nei libri pontificum[70] di formule solenni, di regole rituali e di procedure relative alla santificazione dei luoghi; nonché una competenza più generale dei pontefici in materia di sorveglianza e regolamentazione dei loca sancta.

In relazione alla regolamentazione dei sancta loca, i pontefici dovevano certo raccordare la loro attività a quella degli àuguri; in quanto – scrive al rigurdo il Catalano – «Dapprima, come ha dimostrato il Valeton (riferendosi alla dottrina dei glossatori anteriori a Varrone), ciò che era inauguratus era sanctus; anche se, ovviamente, la sanctitas non era esclusiva delle realtà inaugurate»[71].

In questa prospettiva, non pare possibile accedere alla tesi proposta da F. Fabbrini, il quale sostiene che la santità delle mura sarebbe più tarda rispetto alle realtà inaugurate[72]. È certo, invece, che la teologia e il diritto dei sacerdotes, considerava la santità delle mura connessa agli stessi riti di fondazione dell’Urbe; attraverso le prescrizioni di quei libri rituales etruschi, a cui secondo la tradizione si sarebbe richiamato il fondatore di Roma[73].

Anche nella compilazione giustinianea numerose disposizioni tutelano la santità delle mura cittadine e punivano con la massima severità le infrazioni. Basterà citare, di seguito, alcuni dei testi più significativi.

Nel frammento D. 1.8.9.4, Ulpiano[74] attesta che non era lecito alcun rifacimento delle mura (municipali), né affiancarvi o sovrapporvi una costruzione, senza l’autorizzazione del principe o del preside. Forse delle procedure relative a quest’autorizzazione, in età repubblicana, erano competenti gli stessi pontefici: ipotesi già prospettata nella tesi dottorale dedicata a questo collegio sacerdotale da Eduard Lübbert, discussa «in Universitate Litterarum Vratislaviensi» alla fine degli anni cinquanta dell’Ottocento[75].

In D. 1.8.11 Pomponio[76] qualifica punibile con la pena capitale ogni violazione delle mura della città, sia che si tratti di transcendere scalis admotis «scavalcare le mura avendovi accostato delle scale», oppure alia quilibet ratione «in qualsiasi altro modo», con la motivazione che per i cittadini romani era un atto da traditori e da sacrileghi (hostile et abominandum) uscire dalla città passando per vie diverse dalle porte; come dimostra l’esempio canonico della morte di Remo[77]: occisus traditur ob id, quod murum trascendere voluit[78].

Mentre in un frammento del giurista Modestino, D. 49.16.3.17, questa santità delle mura (forse perché attraverso l’inviolabilità dei loca era volta, in ultima analisi, a tutelare la sicurezza degli homines) risulta estesa anche al vallum degli accampamenti militari, che a nessuno era lecito violare, pena la morte[79].

 

 

6. – Conclusione [sulla giurisprudenza]

 

La discussione fin qui condotta suggerisce, infatti, una riflessione più generale sulle potenzialità di ricerca insite nell’uso sistematico delle cosiddette fonti letterarie da parte dei giusromanisti contemporanei[80].

Ho avuto modo di esporre le mie posizioni, soprattutto, nello studio che ho dedicato ai giuristi del III secolo a.C.[81]. Un secolo emblematico e significativo per la storia della scienza giuridica romana; che si apre con la lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe creandis, cioè con l'ammissione dei plebei ai collegi sacerdotali[82] e si chiude con i tripertita di Sesto Elio Peto, peraltro egli stesso appartenente ad una famiglia di tradizione sacerdotale[83].

Fu un secolo di sviluppo della giurisprudenza romana interamente caratterizzato dall'azione di pontefici-giuristi, i quali mostrarono di possedere una molteplicità di interessi che investiva i diversi (ma non separati) campi dello ius: sacrum, publicum, privatum.

A ciò si combinava una salda capacità di interpretazione innovativa (è il caso del decreto del pontefice massimo Tiberio Coruncanio su qui adstringatur sacris)[84] e di difesa intransigente della tradizione dello ius publicum (tale è il caso dell'intervento di un altro pontefice massimo, Cornelio Lentulo, sulle prerogative popolari in materia di vota publica)[85].

La dottrina moderna, con alcune eccezioni, ha sottovalutato il contributo di questi giuristi alla iuris scientia; forse, in ragione delle tematiche dibattute, spesso difficili da classificare negli schemi giuridici contemporanei; oppure, a causa dell'atteggiamento preclusivo verso il problema dell'interazione tra ius pontificium e ius civile presente nella romanistica odierna[86].

Emergono, dunque, alcune questioni di metodo essenziali per lo studio dei giuristi romani dell’età repubblicana. Ciò significa dover affrontare, in primo luogo, il problema dell'interazione tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum; mentre la seconda questione da risolvere attiene al valore delle fonti che tramandano i loro frammenti[87].

Per risolvere entrambe le questioni, appare indispensabile misurarsi con la metodologia compilatoria (e con l'ideologia ad essa sottesa) della Palingenesia iuris civilis di Otto Lenel[88]; esplicitata nel paragrafo iniziale della Praefatio[89], dove il giurista tedesco dà conto dei criteri adottati per la scelta dei frammenti giurisprudenziali, soffermandosi ampiamente anche sulle esclusioni operate[90].

Il Lenel prosegue, quindi, illustrando la disposizione dei singoli giureconsulti[91], la restituzione delle loro opere e l'esegesi dei frammenti ad essi attribuiti[92]. La lettura dei paragrafi citati, mentre da un lato lascia emergere l'estremo rigore professato nella scelta dei testi[93] e nella loro esegesi[94]; dall'altro, con le ragioni addotte a sostegno della lista delle omissioni, rivela le motivazioni culturali e metodologiche, che hanno determinato la linea di condotta del Lenel nella sua impresa palingenetica.

Più che discutibile sono, invero, le omissioni: «Omissa sunt praeterea quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta tradita». Non si possono di certo condividere le motivazioni che indussero il Lenel a omettere, seppure a suo dire «invitus et quodam modo coactus», sia la quasi totalità dei testi in materia di ius publicum e di ius sacrum, sia i frammenti di opere giuridiche citati nel De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo.

Anche a proposito di queste motivazioni conviene distinguere. Mentre per i frammenti giurisprudenziali contenuti nell'epitome festina, si adducevano ragioni di critica filologica, legate in gran parte alla consapevolezza della «misera condicio» delle principali edizioni dell’opera allora esistenti[95]; alla praticabilità (e utilità) di una Palingenesia iuris publici il Lenel opponeva obiezioni metodologiche e “fattuali” ritenute veramente insuperabili.

Non a caso il grande studioso sottolineava con vigore le immani difficoltà che avrebbe dovuto affrontare colui che avesse voluto distinguere, con buona approssimazione, fra le variegate fonti di ius publicum e di ius sacrum «quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad antiquitates referenda sint». Prevaleva, insomma, nella valutazione del Lenel un radicato pessimismo sulla qualità delle fonti, in gran parte “letterarie”, da utilizzare per la raccolta di questo tipo di materiali; dovendo muoversi più tra fonti storico-antiquarie che giuridiche, il giurista moderno rischiava di smarrire in quel terreno infido e senza confini la dimensione stessa del “giuridico”[96].

Mette conto, infine, formulare un’ultima notazione riguardo all’assunto leneliano che nello «ius proprie sic dictum» non potessero trovare collocazione né lo ius publicum, né lo ius sacrum[97]: la logica delle omissioni opera così sui due piani della provenienza e del contenuto; il Lenel omette, tendenzialmente, tutto ciò che non proviene dai Digesta[98], ma riserva un ruolo attivo all'intervento dell'interprete, al quale è demandato il compito di enucleare nel concreto i frammenti che per contenuto «sive ius publicum sive sacrum spectant».

Proprio l'esclusione di queste parti rilevantissime degli iura populi Romani[99], ha provocato reazioni contrarie nella dottrina più avvertita[100]; fra cui mette conto ricordare, per l'autorevolezza dello studioso, le posizioni di R. Orestano: il quale, nell'ultima edizione del suo libro Introduzione allo studio del diritto romano, ha sollecitato ancora una volta un ripensamento critico sulle omissioni leneliane, raccomandando come «sommamente utile una Palingenesia iuris romani publici»[101].

«La pensée des plus anciens Romains regagne l'estime qu'elle merite»: iniziano con questa frase le «Remarques préliminaires sur la dignité et l'antiquité de la pensée romaine», che Georges Dumézil scrisse alla fine degli anni sessanta del XX Secolo, per il suo libro Idées romaines; dove l'illustre studioso dimostra, fra l'altro, che «des techniques aussi complexes que l'augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l'Empire»[102].

Sono sempre stato convinto che anche negli studi sulla giurisprudenza romana si potrebbe trarre profitto dalla lezione di quelle «remarques préliminaires». Assumendo, infatti, come dato acquisito la contestuale risalente elaborazione dello ius augurium e dello ius civile, si supera l'ingiustificabile discrasia di considerare i primi «Fachjuristen der antikokzidentalen Welt»[103], per un verso arcaici e primitivi nella iuris civilis scientia e, contestualmente, capaci di raffinata concretezza nella teologia e di ammirevole perizia nell'interpretatio dello ius sacrum.

Si tratta, insomma, di rovesciare la valutazione, che risale allo Schulz e, a tutt'oggi, predominante nei nostri studi, secondo cui solo nell'ultimo secolo della repubblica la giurisprudenza romana «raggiunse la sua adolescenza»[104]; per riscoprire la prudentia e la sapientia di quegli antichi giuristi: a quibus iura civibus praescribebantur[105].

 

 

Abstract

 

Indagine sui concetti fondanti delle visioni romane del rapporto spazio-tempo e della proiezione umana e divina del Territorio di Roma. La ricerca chiarisce la tecnica definitoria dei giuristi romani, mostrando come essi partissero da dati di evidenza immediata, come il solco tracciato con l’aratro o il confine segnato dalle mura, per costruire nozioni più sofisticate, legate all’auspicium. Si indaga su Urbs e pomerium nelle loro connessioni con i riti di fondazione della città. L’inizio della città costituisce la potissima pars delle sue istituzioni, mentre l’intervento degli dei e la presenza del “sacro” appaiono nella dinamicità che consegue all’apertura ai sacra peregrina ed al ricorso alle evocationes delle divinità dei nemici.

Posta in evidenza la sacralità del luogo su cui sorgeva Roma, unico possibile per la determinazione dell’identità religiosa e giuridica del popolo romano, si approfondiscono le implicazioni che ne derivavano, come la santità delle mura, risalendo alle origini del significato di santità, legato all’uso del sangue e cogliendone i successivi sviluppi, che accanto alla santità dei luoghi abbracciarono gli “uomini che partecipavano alla protezione sacra”.

Le conclusioni tratte dalle fonti mettono in risalto il contributo dato dalla giurisprudenza pontificale alla scientia iuris e consentono di porre in evidenza alcune manchevolezze della Palingenesia del Lenel, soprattutto per l’omissione, operata dall’autore tedesco nella ricostruzione del pensiero giuridico dei romani, di tutto ciò che ci è pervenuto fuori dai Digesta di Giustiniano.

 

 

Investigation of the fundamental concepts of Roman visions of the relationship between space-time and the human and divine’s projection of Rome’s territory. The research clarifies the Roman jurist‘s definition technique, showing how they started from immediate evidence data, as the path traced by a plow or the border marked by the boundary walls, to create more sophisticated notions, linked to the auspicium. There‘s an investigation on Urbs and pomerium about their connection to the rites of the founding of the city. The beginning of a city is the potissima pars of its institutions  while the intervention of the Gods and the presence of the sacred appear in the dynamism that follows the opening to the sacra peregrina and the evocationes of the enemies Gods.

Once highlighted the sacredness of the place where Rome was born, the only one possible to determinate the religious and juridical identity of the Romans, we’ll deepen the implications that derive from it, as the sacredness of the walls,  back to the origins of the meaning of holiness, related to the use of blood and taking the later developments, that in addition to the sanctity of the places embraces all the “men who participated in the sacred protection”.

The conclusions drawn from sources emphasize the contribution of the pontifical jurisprudence to the scientia iuris and allows to highlight some deficiencies of the Palingenesia, especially for the omission, perpetrated by the german author in the reconstruction of the Roman’s juridical thought and everything that we reached out from the Digesta of Justinian.



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* L’articolo sviluppa, nel testo e nelle note, la relazione presentata nel «XXVII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma”: Il Popolo nella storia e nel diritto da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Campidoglio, 19-21 aprile 2007), organizzato per iniziativa dei professori Pierangelo Catalano e Paolo Siniscalco, in occasione del MMDCCLX Natale di Roma (in base alla Deliberazione unanime del Consiglio Comunale del 22 settembre 1983), con l’intervento del Consiglio Nazionale delle Ricerche, dell’Accademia delle Scienze di Russia e dell’Università di Roma ‘La Sapienza’.

 

[1] Sul tema, penetranti riflessioni, di F.P. Casavola, Il concetto di urbs Roma: giuristi e imperatori romani, in L'idea giuridica e politica di Roma e personalità storiche I (Roma 1991) 39 ss- 55 [= Labeo 38 (1992) 20 ss.]

 

[2] Sul tema sono ormai imprescindibili i risultati delle ricerche di P. Catalano: Contributi allo studio del diritto augurale I (Torino 1960) 292 ss.; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.1 (Berlin-New York 1978) 479 ss.

 

[3] D. 50.16.87 (Marcellus libro XII digestorum) Ut Alfenus ait, "urbs" est "Roma", quae muro cingeretur, "Roma" est etiam, qua continentia aedificia essent: nam Romam non muro tenus existimari ex consuetudine cotidiana posse intellegi, cum diceremus Romam nos ire, etiamsi extra urbem habitaremus. Valutazione di sintesi sul giurista: H. Ankum, Quelques observations sur la méthode et les opinions juridiques d’Ulpius Marcellus, in Au-delà des frontières. Melanges de droit romain offerts à Witold Wolodkiewicz, I, édités par Maria Zablocka et Jerzy Krzynówek, Jabuk Urbanik, Zuzanna Sluzewska, (Varsovie 2000), 17 ss.

 

[4] D. 50.16.2 pr.(Paulus libro primo ad edictum) "Urbis" appellatio muris, "Romae" autem continentibus aedificiis finitur, quod latius patet. Più in generale sul giurista: C. A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi: Iulius Paulus, in Aufstieg und Niedergang der römische Welt II.15 (Berlin-New York 1976) 667 ss.; sulla carriera, vedi H. Tapani Klami, Iulius Paulus. Comments on a Roman lawyer's career in the III Century, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino IV (Napoli 1984) 1829 ss.

 

[5] Sulla dimensione storica del giurista rinvio all’accurato studio di D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.15 (Berlin-New York 1976) 497 ss.[trad. it. D. Nörr, Pomponio o «della intelligenza storica dei giuristi romani», con una «nota di lettura» di A. Schiavone, a cura di M.A. Fino e E. Stolfi, in Rivista di Diritto Romano II (2002) = http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano02noerr.pdf]. Quanto poi ai problemi di critica testuale, vedi i risultati delle ricerche "pomponiane'' di M. Bretone, ora raccolte nel suo Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed. (Napoli 1982) 209 ss.; più di recente, sempre sul giurista, da vedere il lavoro di E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione e fonti (Napoli 2002); II. Contesti e pensiero (Collana della Rivista di Diritto Romano – LED Edizioni universitarie 2002).

 

[6] Fra la dottrina basterà citare: A. von Blumenthal, v. Pomerium, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 21.2 (Stuttgart 1952) coll. 1867 ss.; J. Le Gall, A propos de la Muraille Servienne et du Pomerium. Quelques rappels et quelques remarques, in Etudes d’archéologie classique 2 (1959) 41 ss.; P. Catalano, v. Pomerio, in Novissimo Digesto Italiano XIII (Torino 1966) 263 ss.; G. Lugli, I confini del pomerio suburbano di Roma primitiva, in Mélanges d’archéologie, d’épigraphie et d’histoire offerts à J. Carcopino (Rome 1966) 641 ss.; J. Gagé, La ligne pomériale el les catégories sociales de la Rome primitive. A propos de l’origine des Poplifugia et des «Nones Caprotines», in Revue Historique de Droit français et étranger 48 (1970) 5 ss. (ora in Id., Enquêtes sur les structures sociales et religieuses de la Rome primitive [Bruxelles 1977] 162 ss.); F. De Martino Storia della costituzione romana, I, 2a ed. (Napoli 1972) 126 ss.; A. Magdelain, Le pomerium archaïque et le mundus, in Revue des études latines 54 (1976) 71 ss. (= ora in Id., Jus imperum auctoritas. études de droit romain [Rome 1990] 155 ss.); R. Antaya, The Etymology of “pomerium”, in American Journal of Philology 101 (1980) 184 ss.; B. Liou-Gille, Le pomerium, in Museum Helveticum 50 (1993) 94 ss.

 

[7] Sulla connessione di urbs e ager secondo lo ius augurium, vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 491 ss.

 

[8] Varr. De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures pubblici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur. A. Brause, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae (Lipsiae 1875), 42 fr. XXVII.

La divisione dello spazio in cinque agrorum genera rappresenta un mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia interpretativa e delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale. Pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche verso gli Dèi), la classificazione dei genera agrorum mostra una fortissima propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti – tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con gli innumerevoli Dèi che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e tutelano.

 

[9] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone (Milano 1983) 35 fr. 67. Cfr. anche Ovid. Fast. 4.819 ss.; Fest. De verb. sign., p. 358 L. Per la dottrina, vedi P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 479 ss.

 

[10] Per la bibliografia più recente, rinvio a Y. Lehmann, Varron théologien et philosophe romain [Collection Latomus, 237] (Bruxelles 1997).

 

[11] Pur senza arrivare alle posizioni di C. Cichorius, Römische Studien. Historisches, Epigraphisches, Literargeschichtliches aus vier Jahrhunderten Roms (Leipzig-Berlin 1922) 198 ss., il quale riteneva probabile l’appartenenza di Varrone al collegio dei Quindecimviri sacris faciundis; la dottrina romanistica dominante è piuttosto unanime nel dare per scontate la conoscenza diretta e l’utilizzazione di prima mano dei documenti ufficiali dei collegi sacerdotali da parte del grande Reatino: cfr. per tutti G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices (Berlin 1936) 19 ss.; B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, II. Kommentar (Wiesbaden 1976) 239 ss.

 

[12] Penso alla vecchia tesi di F.D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867.

 

[13] H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta (Lipsiae 1907, rist. an. Roma 1961) 429 fr. 9, attribuisce la definizione ai libri de auspiciis dell’augure M. Valerio Messala.

 

[14] I §§ 4-6 del passo di Gellio sono classificati fra i frammenti di Messala ex incertis libris da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae que supersunt, I. Liberae rei publicae iuris consulti (Lipsiae 1896, rist. an. Roma 1964) 2640 fr. 3.; mentre li considera escerpiti dai libri De auspiciis Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta aucta et emendata ediderunt E. Seckel et B. Kuebler, I (Lipsiae 1908, Reprint der Originalausgabe Leipzig 1988) 48 fr. 3.

 

[15] Marta Sordi, Silla e lo "ius pomerii proferendi", in Il confine nel mondo classico, a cura di M. Sordi (Milano 1987) 200-211.

 

[16] Tac. Ann. 12.23.2:  et pomerium urbis auxit Caesar, more prisco, quo iis, qui protulere imperium, etiam terminos urbis propagare datur.

 

[17] Gell. Noct. Att. 15.27.5: Item in eodem libro hoc scriptum est: 'Cum ex generibus hominum suffragium feratur, 'curiata' comitia esse; cum ex censu et aetate, 'centuriata'; cum ex regionibus et locis, 'tributa'; centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem imperari ius non sit.

 

[18] P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 480 ss.

 

[19] Sul passo vedi commenti di j. bayet, Tite Live. Histoire romaine I (Paris 1965) 72 n. 3; R.M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5 (Oxford 1965 [reprinted 1998]) 179 s.

 

[20] Serv. Aen. 5.755, che cita Catone; Sol. 1.18, con citazione di Varrone.

 

[21] Cic. De nat deor. 3.94.

 

[22] Questa rilevanza giuridico-religiosa del rito di fondazione non sfugge a R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica (Torino 1967) 47: «per tutto il corso dell’esperienza romana s’attribuirà al compimento di tale rito valore costitutivo per l’esistenza giuridica di una città, proprio in quanto determinazione del “punto di riferimento” di situazioni giuridiche».

 

[23] Macr. Sat. 5.19.13 (Sed Carminii <viri> curiosissimi et docti, verba ponam, qui in libro de Italia secundo sic ait: prius itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum conderentur urbes solitos, in Tageticis eorum sacris invenio et in Sabinis ex aere cultros quibus sacerdotes tonderentur). Sul punto vedi P. de Francisci, Primordia civitatis (Roma 1959) 104; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit. 104; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 485.

 

[24] Per il testo seguo l’edizione di H. Le Bonniec, Ovide, Les fastes, tome II (Bologna 1970). Sulla figura del poeta non è possibile dare qui referenze bibliografiche complete: cfr., per tutti, F. Stella Maranca, Ius pontificium nelle opere dei giureconsulti e nei fasti di Ovidio, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Bari 1 (1927) 3 ss.; R. Düll, «Ovidius iudex». Rechtshistorische Studien zu Ovids Werken, in Studi in onore di Biondo Biondi I (Milano 1965), 73 ss.; R. Schilling, Ovide interpréte de la religion romaine, in Revue des études Latines 46 (1968) 222 ss.; A.W.J. Holleman, Ovid and politics, in Historia 20 (1971) 458 ss.; R. Syme, History in Ovid (Oxford 1978) in part. 21 ss.: «Evidence in the Fasti»; D. Porte, L’étiologie religieuse dans les ‘Fastes’ d’Ovide (Paris 1985), ivi ampia rassegna bibliografica, 539 ss.

 

[25] J.H. Vanggaard, On Parilia, in Temenos 7 (1971) 93 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico (Milano 1988) 128 ss.

 

[26] Tutto questo è stato già dimostrato da P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale cit. 580 ss.; lo studioso aveva anche evidenziato quanto siano correttamente descritte da Ovidio «l’inaugurazione di scelta circa il regnum (versi 812-818); implicitamente, l’auspicazione circa il dies (versi 819 ss.); e infine l’inaugurazione di approvazione del luogo, cioè del pomerio (verso 825 ss.)» (582).

 

[27] Ovid. Fast. 4.809-810: Iam luerat poenas frater Numitoris, et omne / pastorum gemino sub duce vulgus erat.

 

[28] Ovid. Fast. 4.819-836: Apta dies legitur, qua moenia signet aratro; / sacra Pales suberant: inde movetur opus. / Fossa fit ad solidum, fruges iaciuntur in ima / et de vicino terra petita solo; / fossa repletur humo, plenaeque imponitur ara, / et novus accenso finditur igne focus. / Inde premens stivam designat moenia sulco; / alba iugum niveo com bove vacca tulit. / Vox fuit haec regis: «Condenti, Iuppiter, urbem, / et genitor Mavors Vestaque mater, ades, / quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti! / auspicibus vobis hoc surgat opus. / Longa sit huic aetas dominaeque potentia terrae, / sitque sub hac oriens occiduusque dies». / Ille praecabatur, tonitru dedit omina laevo / Iuppiter et laevo fulmina missa polo. / Augurio laeti iaciunt fundamina cives, / et novus exiguo tempore murus erat.

 

[29] Varr. De ling. Lat. 5.143; Liv. 1.44.3-7; Gell. Noct. Att. 13.14.1.

 

[30] Liv. 9.17.10: Horum in quolibet cum indoles eadem, quae in Alexandro, erat animi ingeniique, tum disciplina militaris, iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat. L’annalista, peraltro, utilizza anche i termini primordia e origo: Praef. 1-2: Facturus ne operae pretium sim, si a primordio urbis res populi Romani perscripserim, nec satis scio nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum vulgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem vetustatem superaturos credunt. Praef. 7: Datur haec venia antiquitati, ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores: ea belli gloria est populo Romano, ut, cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo, quam imperium patiuntur. Cfr. Giustin. Epitoma hist. 43.1.2: Breviter igitur initia Romani imperii perstringit, ut nec modum propositi operis excedat nec utique originem urbis, quae est caput totius orbis, silentio praetermittat.

 

[31] Quint. Inst. orat. 1.6.12: Quaedam sine dubio conantur eruditi defendere, ut, cum deprensum est, ‘lepus’ et ‘lupus’ similia positione quantum casibus numerisque dissentiant, ita respondent non esse paria, quia ‘lepus’ epicoenon sit, ‘lupus’ masculinum, quamquam Varro in eo libro, quo initia urbis [Romanae] enarrat, lupum feminam dicit Ennium Pictoremque Fabium secutus.

 

[32] «Nell’accingermi all'interpretazione degli antichi “versetti” ho ritenuto che, occorresse necessariamente in primo luogo risalire agli inizi della città, non perché voglia scrivere commentari prolissi ma perché in tutte le cose ritengo perfetto solo ciò che consti di tutte le sue parti: e certo di ciascuna cosa è il principio la parte più importante»: trad. di L. Lantella, ‘Potissima pars principium est’ (D. 1.2.1), in Studi in onore di C. Sanfilippo IV (Milano 1983) 283 s. Sul testo gaiano, vedi anche F. Gallo, La storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del Convegno Torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. Silvio Romano (Milano 1981) 89 ss.; S. Morgese, Appunti su Gaio «Ad legem duodecim tabularum», ibid., 109 ss.

 

[33] Cfr. Th. Mommsen, Gaius ein Provinzialjurist (1868), in Id., Gesammelte Schriften. II. Juristische Schriften II (Berlin 1905), 33 n. 15; W. Kalb, Das Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, 2a ed. (Nürnberg 1888) 65; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen III (Tübingen 1913) 131; IV (Tübingen 1920) 233; F. Schulz, Einführung in das Studium der Digesten (Tübingen 1916) 18; Id., Storia della giurisprudenza romana (Oxford, 1946), trad. it (Firenze 1968) 333 s.; F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift O. Lenel (Leipzig 1921) 267 s.; E. Albertario, Sulla dotis datio ante nuptias (1925), in Id., Studi di diritto romano I (Milano 1933), 324 n. 6; A. Berger, Some remarks on D. 1.2.1, and CIL 6.10298, in Iura II (1951) 102 ss.; C.A. Maschi, Il diritto romano. I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica (Milano (1957) 1966) 132 ss.; A.M. Honoré, Gaius (Oxford 1962) 105 s.; M. Lauria, Jus romanum I.1 (Napoli 1963) 33; M. Wlassak, Rechtshistorische Abhandlungen, in Österreichische Akademie der Wissenschaften, Phil.-hist. Klasse, Sitzungsbericht 248 (Wien 1965) 128 ss.; F. Casavola, Gaio nel suo tempo, in Gaio nel suo tempo (Napoli 1966) 9 ss.; F. Guizzi, Aspetti giuridici del sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta (Napoli 1968) 16 ss.; G.G. Archi, Interpretatio iuris - interpretatio legis - interpretatio legum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 87 (1970) 8 n. 8 (= in Studi F. Santoro-Passarelli VI (Napoli 1972) 10 n. 8); M. Fuhrmann, Intepretatio. Notizen zur Wortgeschichte, in Sympotica F. Wieacker (Göttingen 1970) 101; D. Nörr, Divisio und Partitio (Berlin 1972) 49 s.; M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano, Quad. Lincei 221.II (Roma 1977) 189 n. 539.

 

[34] S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione formazione e intepretazione del diritto, dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al Professor Filippo Gallo (Napoli 1997) 631 ss.

 

[35] S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi generali del diritto cit. 649 ss.

 

[36] L. Lantella, ‘Potissima pars principium est’ (D. 1.2.1) cit. 293: «Orbene, se su questa frase non vi fossero perplessità di critica testuale si potrebbe serenamente sostenere ciò che segue. Il testo dice, in sostanza, che occorre risalire agli inizi della città: ne risulta allora che il correlato di ‘principium’ parrebbe identificarsi con la fondazione di Roma e tempi circostanti (inseriti in un racconto che purtroppo non è pervenuto e non possiamo certo immaginare, ma che avrà pur sempre utilizzato, analogamente a Pomponio, i ben noti elementi della tradizione)».

 

[37] L. Lantella, ‘Potissima pars principium est’ (D. 1.2.1) cit. 294: «se il testo originario fosse così occorrerebbe sostenere questa volta una diversa soluzione: infatti, come correlato di ' principium ', non potremmo più pensare genericamente a “gli inizi della città”, ma dovremmo invece pensare specificamente a “diritto del popolo romano agli inizi della città”. La differenza può sembrare minima tuttavia, quantomeno nella formulazione e nel senso, è abbastanza netta ed appare identificabile così: nel primo caso abbiamo “gli inizi della città di Roma”; nel secondo caso abbiamo, invece, “gli inizi del diritto romano”. La prima formulazione (quella pervenuta) sembra più liberale in quanto apre il campo alla storia tout court; la seconda (quella ipotizzata) sembra invece più ristretta in quanto fa riferimento a una storia settoriale e cioè alla storia giuridica in senso proprio».

 

[38] D. 1.2.2.1 (Pomponius libro singulari enchiridii): Et quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere istituit omniaque manu a regibus gubernabantur.

Legge il frammento in altra prospettiva G. Lobrano, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas (Milano 1984) 65: «La manus, con la quale “all’inizio” i re tutto governavano, non può, infatti, non rinviare il pensiero al (omonimo?) potere, così importante nell’ambito della organizzazione familiare».

 

[39] Serv. Dan. in Verg. Aen. 2.351: excessere quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possint. Et in Capitolio fuit clipeus consecratus, cui inscriptum erat ‘genio urbis Romae, sive mas sive femina’. Et pontifices ita precabantur ‘Iuppiter optime maxime, sive quo alio nomine te appellari volueris. Macr. Sat. 3.9.3 nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt.

 

[40] Fest. De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268 L.: Peregrina sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt † conata † [conlata Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta. Sui sacra peregrina vedi, per tutti, J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung III cit. 42 ss., 74 ss. = Id., Le culte chez les Romains I (Paris 1889) 44 ss., 81 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer cit. 348 ss.; M. van Doren, Peregrina sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten Rom, in Historia 3 (1955) 488 ss. Cfr. R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat», in Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari (Roma 1994) 23 ss.; F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans les systèmes juridiques de la Méditerranée, sous la direction de F. Castro et P. Catalano (Paris 2001, pubbl. 2004) 59 ss.

 

[41] Liv. 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat. L’evocatio di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain cit. 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veii, in Studi Etruschi 24 (1955) 106 ss.; J. Hubaux, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie légendaire du moyen âge romain (Paris 1958) 154 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays (Philadelphia 1974) 21 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque cit. 426 s. [= Id., La religione romana arcaica cit. 370 s.]; R. Bloch, Interpretatio cit. 15 ss.

Macr. Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura. P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum (Tilsit 1878) 11 fr. 52; F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt I cit. 29 fr. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung (Berlin 1906) 59 ss.; Huschke-Seckel-Kübler, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias I cit. 15 fr. 1. Quanto all’identità del Furio autore del vetustissimus liber, non sembrano esservi dubbi sull’identificazione di esso con L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a. C.: così M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur I, 4ª ed. (München 1927, rist. an. 1966)234; sul personaggio vedi F. Munzer, v. Furius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft VII.1 (Stuttgart 1910) 360; O. Behrends, Tiberius Gracchus und die Juristen seiner Zeit - die römische Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v. Chr., in Das Profil des Juristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages von F. Wieacker (Ebelbach 1980) 113 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC cit. 282 ss.

 

[42] Già G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Tito Livio, in Liviana (Milano 1943) 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana; nello stesso senso, C.St. Tomulescu, La valeur juridique de l’histoire de Tite-Live, in Labeo 21 (1975) 295 ss.

 

[43] Liv. 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. Liv. 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius iurandum pro legum ac poenarum metu civitatem regerent. Et cum ipsi se homines in regis velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea castra non urbem positam in medio ad sollicitandam omnium pacem crediderant, in eam verecundiam adducti sunt, ut civitatem totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit, ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos verterent, multa prodigia nuntiabantur.

 

[44] M.-L. Deißmann-Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. 1964 (Frankfurt am Main 1965); W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios (Diss. München 1969) 127 ss.; P. Boyancé, études sur la religion romaine (Rome 1972) 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les Romains, peuple de la Fides]; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133 B.C., edited by C. Bruun (Rome 2000) 223 ss.; su fides e pietas vedi T.J. Moore, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue (Frankfurt am Main 1989) in part. 35 ss., 56 ss.

 

[45] Livio 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit. Per una visione d’insieme delle concezioni religiose del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius (Stuttgart-Berlin 1941); I. Kajanto, God and fate in Livy (Turku 1957); A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di Tito Livio (Torino 1961); W. Liebeschuetz, The Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67 (1967) 45 ss.; D.S. Levene, Religion in Livy (Leiden-New York-Köln 1993); per le formule di preghiera, vedi invece F.V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid of Virgil (Stuttgart 1993).

 

[46] Liv. 5.52.1-3: Haec culti neglectique numinis tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum vixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. Hos omnes deos publicos privatosque, Quirites, deserturi estis?

 

[47] Cfr., in tal senso, A. Ferrabino, Urbs in aeternum condita (Padova 1942); J. Vogt, Römischer Glaube und römisches Weltreich (Padova 1943). Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71 (1964) 236 ss. [= Id., Römische Politik und römische Politiker (Heidelberg 1967) 74 ss.]; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per un’analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’ (Catania 1966) 129 ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy’s Perspective of the Past, in Transactions of the American Philological Association 118 (1988) 185 ss.; B. Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius, in Latomus 51 (1992) 3 ss.

 

[48] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine (Paris 1963) 207: «En fait, le populus ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette “paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies». Vedi anche la riflessione di C.M. Ternes, Tantae molis eratDe la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er siècle, in “Condere Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991) (Luxembourg 1992) 18 s.

 

[49] F. Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni in tema di universalismo e “tolleranza” nella religione politeista romana, in Sandalion. Quaderni di cultura classica, cristiana e medievale 21-22 (1998-1999 [pubbl. 2001]) 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica (Torino 2001) 44 ss.; Id., Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e del diritto pubblico di Roma, in Diritto @ Storia 2 (Marzo 2003) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm >; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans les systèmes juridiques de la Méditerranée, sous la direction de F. Castro et P. Catalano (Paris 2001, pubbl. 2004) 59 ss.

 

[50] W. Seston, Les murs, les portes et les tours des enceintes urbaines et le problème des res sanctae en droit romain, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire offerts à André Piganiol, III, Paris, 1966, 1489 ss.

 

[51] Macr. Sat. 3.3.1: Et quia inter decreta pontificum hoc maxime quaeritur quid sacrum, quid profanum, quid sanctum quid religiosum, quaerendum utrum his secundum definitionem suam Vergilius usus sit et singulis vocabuli sui proprietatem suo more servaverit. Cfr. Cic. De har. resp. 12: de sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est, quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.

 

[52] Decreta sacerdotali: Cic. De div. 2.35; in Vat. 20; Liv. 4.7.3; 21.1.15-19; 27.37.4; 27.37.7; 31.8.2-3; 31.9.8; 32.1.9; 34.45.8; 39.22.4-5; 40.45.2; 41.21.10-11; 45.12.10; Fest. De verb. sign., p. 152 L. Responsa: Cic. De domo 39, 40; Liv. 5.23.8-10; 5.25.7; 36.3.7-12; 41.18.8.

Per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi; cfr. Cic. De har. resp. 6.12: Quae tanta religio est qua non in nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.

La distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del tutto chiara: P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen (Berlin 1888) 29 ss.; E. De Ruggiero, v. Decretum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane II.2 (Roma 1910) 1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed. (München 1912) 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science , 2ª ed. (Oxford 1953) 15 ss. = Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera (Firenze 1968) 37 ss.; G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40 (1988) 78 ss.; infine da menzionare L.L. Cohee, Responsa and decreta of Roman priesthoods during the Republic, Dissertation University of Colorado at Boulder 1994.

 

[53] M. Talamanca, Trebazio Testa tra retorica e diritto, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana, a cura di G. G. Archi (Milano 1985) 46 ss. M. D’Orta, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa (Napoli 1990).

 

[54] Macr. Sat. 3.3.5: Sanctum est, ut idem Trebatius libro decimo Religionum refert, interdum idem quod sacrum idemque quod religiosum, interdum aliud, hoc est nec sacrum nec religiosum, est. F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae que supersunt I cit. 406 fr. 9. Ph. E. Huschke, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta I cit. 45 fr. 7.

 

[55] Così M. Talamanca, Trebazio Testa tra retorica e diritto cit. 56.

 

[56] D. 1.8.8 (Marcianus libro quarto regularum): Sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est. Sanctum autem dictum est a sagminibus: sunt autem sagmina quaedam herbae, quas legati populi romani ferre solent, ne quis eos violaret, sicut legati graecorum ferunt ea quae vocantur cerycia. In municipiis quoque muros esse sanctos Sabinum recte respondisse Cassius refert, prohiberique oportere ne quid in his immitteretur.

 

[57]  Serv. in Verg. Aen. 12.200: ‘Sancire’ autem proprie est sanctum aliquid, id est consecratum, facere fuso sanguine hostiae: et dictum ‘sanctum’, quasi sanguine consecratum. Cfr. Isid. Orig. 15.4.2: Sancta iuxta veteres exteriora templi sunt. Sancta autem sanctorum locus templi secretior, ad quem nulli erat accessus nisi tantum sacerdotis. Dicta autem Sancta sanctorum quia exteriori oraculo sanctiora sunt, vel quia sanctorum conparatione sanctiora sunt; sicut Cantica canticorum, quia cantica universa praecellunt. Sanctum autem a sanguine hostiae nuncupatum; nihil enim sanctum apud veteres dicebatur nisi quod hostiae sanguine esset consecratum aut consparsum. Item sanctum, quod extat esse sancitum. Sancire est autem confirmare et inrogatione poenae ab iniuria defendere; sic et leges sanctae et muri sancti esse dicuntur.

 

[58] Verg. Aen. 12.200: audiat hoc genitor qui foedera fulmine sancit.

 

[59] Cfr. K. Latte, Römische Religionsgeschichte (München 1960) 39, 81.

 

[60] M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano (Milano 1990) 382: «Le res sanctae non sono, in senso stretto, res divini iuris: già Gaio affermava che esse vi rientravano solo in un certo senso … Esse sono, in definitiva, res publicae poste sotto una specifica protezione dal punto di vista sacrale». L’opinione prevalente tenda a considerare le res sanctae come res divini iuris, in quanto poste sotto la speciale protezione degli Dèi: così ad es. P.F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, I (Paris 1929); G. Branca, Le “res extra commercium humani iuris”, in Annali dell’Università di Trieste (1941) 242 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19 (1953) pp. 38 ss. Tuttavia, sul tema sono ben noti gli approfondimenti e le divergenti riflessioni di studiosi insigni e autorevolissimi: P. Bonfante, Corso di diritto romano, II. La proprietà, 1 (1926), rist. a cura di G. Bonfante e G. Crifò (Milano 1966); G. La Pira, La genesi del sistema nella giurisprudenza romana classica I. Problemi generali, in Studi Virgili (Firenze l935) 159 ss.; G. Grosso, Corso di diritto romano. Le cose (Torino 1941); Id., Problemi sistematici del diritto romano. Cose-Contratti (Torino 1974); C. Gioffredi, La sanctio della legge e la perfectio della norma giuridica, in Archivio Penale 2.1 (1946) 166 ss.; e di studiosi a noi più vicini come F. Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano XV (Torino 1968) 510 ss.; Id., Dai Religiosa loca alle Res religiosae, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 73 (1970) 197 ss.; C. Busacca, «Ne quid in loco sacro religioso sancto fiat»?, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 43 (1977) 265 ss. Studi sulla classificazione delle cose nelle istituzioni di Gaio (Villa San Giovanni 1982); F. Salerno, Dalla «consecratio» alla «publicatio bonorum» (Napoli 1990) Del resto, neanche nei più recenti manuali di Istituzioni di diritto romano si registra un’impostazione uniforme sul problema delle res sanctae: G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano (Padova 1986); M. Marrone, Istituzioni di diritto romano 2 (Palermo 1987); G. Nicosia, Institutiones II (Catania 1990); D. Dalla-R. Lambertini, Istituzione di diritto romano (Torino 1996); R. Martini, Appunti di diritto romano privato (Milano 2000).

 

[61] D. 1.8.6.2 (Marcianus libro tertio institutionum): Sacrae res et religiosae et sanctae in nullius bonis sunt. D. 39.3.17.3 (Paulus libro quinto decimo ad Plautium): Sic et si non proximo meo praedio servitutem vicinus debeat, sed ulteriori, agere potero ius esse mihi ire agere ad illum fundum superiorem, quamvis servitutem ipse per fundum meum non habeam, sicut interveniente via publica vel flumine quod vado transiri potest. Sed loco sacro vel religioso vel sancto interveniente, quo fas non sit uti, nulla eorum servitus imponi poterit. D. 11.7.2.4 (Ulpianus libro vicensimo quinto ad edictum): Purus autem locus dicitur, qui neque sacer neque sanctus est necque religiosus, sed ab omnibus huiusmodi nominibus vacare videtur.

 

[62] D. 41.3.9 (Gaius libro quarto ad edictum provinciale): Usucapionem recipiunt [maxime] res corporales, exceptis rebus sacris, sanctis, publicis, populi romani et civitatium, item liberis hominibus.

 

[63] D. 1.8.8.pr. (Marcianus libro quarto regularum): Sanctus est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est.

 

[64] D. 1.8.9.3 (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum): Proprie dicimus sancta, quae neque sacra neque profana sunt, sed sanctione quadam confirmata, ut leges sanctae sunt, sanctione enim quadam sunt subnixae. Quod enim sanctione quadam subnixum est, id sanctum est etsi deo non sit consecratum: et interdum in sanctionibus addicitur, ut qui ibi aliquid commisit, capite puniatur.

 

[65] Inst. 2.1.10: Sanctae quoque res, veluti muri et portae, quodammodo divini iuris sunt et ideo nullius in bonis sunt. Ideo autem muros sanctos dicimus, quia poena capitis constituta sit in eos, qui aliquid in muros deliquerit, ideo et legum eas partes, quibus poenas constituimus adversus eos qui contra leges fecerint, sanctiones vocamus.

 

[66] Sul giurista vedi, tra gli altri, E. Klebs, Aelius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 1.1 (Stuttgart 1893) 492 s.; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I. L'époque républicaine (Paris 1952) 302; II (1956) 110; R. Orestano, Gallo C. Elio, in Novissimo Digesto Italiano VII (Torino 1961) 738; A. Guarino, Esegesi delle fonti del diritto romano, a cura di L. Labruna, I (Napoli 1968) 145 s.; F. Bona, Alla ricerca del “De verborum, quae ad ius civile pertinent, significatione” di C. Elio Gallo, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 90 (1990) 119 ss.; G. Falcone, Per una datazione del «de verborum quae ad ius pertinent significatione» di Elio Gallo, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 41 (1991) 225 ss.; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1995) 58 ss.

 

[67] Fest. De verb. sign., p. 348 L.: Inter sacrum autem, et sanctum, et religiosum differentias bellissime refert: sacrum aedificium, consecratum deo; sanctum murum, qui sit circum oppidum; religiosum sepulcrum, ubi mortuus sepultus aut humatus sit, satis constare ait; sed ita † portione † quadam, et temporibus eadem videri posse.

 

[68] Cic. De nat. deor. 3.94: Est enim mihi te cum pro aris et focis certamen et pro deorum templis atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis diligentiusque urbem religione quam ipsis moenibus cingitis; quae deseri a me, dum quidem spirare potero, nefas iudico.

 

[69] P. Fest. De verb. sign., p. 488 L.: <Tesca sun>t loca augurio desig<nata> ---ino finis in terra auguri. Op<[p]illus> ---lius loca consecrata ad ---sit. Sed sancta loca undique ---nt pontifici[s] libri, in quibus ---que sedemque tescumque --- dedicaverit, ubi eos ac --- propitiosque. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum (Tilsit 1878) 15 fr. 74. Il passo è corrotto e la ricostruzione appare molto problematica: il Preibisch, accettando le integrazioni di Orsini e Scaligero accolte nell’ediz. del Müller, propone la seguente lettura: Sancta loca (undique saepta doce)nt pontifici libri, in quibus (scriptum est: templum)que sedemque tescumque (sive deo sive dea) dedicaverit, ubi ac(cipiat volentes) propitiosque; ma vedi, ora, l’interpretazione di P.-Y. Chanut, Les «tesca» du Capitole, in Revue de philologie, de litterature et d’histoire anciennes 54 (1980) 295 ss. (in part. 300 s.). Per quanto riguarda la fonte di questo passo, ne attribuisce la paternità ad Elio Stilone, sostituendo la lettura comunemente accettata <Tesca Verrius ai>t con <Tesca Aelius> ait, H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta I (Lipsiae 1907) 76 fr. 75, con la seguente argomentazione: «Verrius certe qui vulgo suppletur reieci debet, quippe qui semper ultimus a Festo afferatur». Su questo problema, e più in generale sulle glosse derivate da questo grammatico, cfr. F. Bona, Contributo allo studio della composizione del «De verborum significatu» di verrio Flacco (Milano 1964) 142 ss., in part. 147 n.

 

[70] Da ultimo, F. Sini, Libri e commentarii nella tradizione documentaria dei grandi collegi sacerdotali romani, in Studia et Documenta Historiae et Iuris LXVII (2001) 375 ss. [pubblicato anche nella rivista elettronica Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 1 (Maggio 2002) < http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Libri%20e%20commentarii%20sacerdotali.htm >]; Id., Diritto e documenti sacerdotali: verso una palingenesi, in Ius Antiquum-Drevnee pravo 16 (Moskva 2005) 22 ss. [pubblicato anche in Diritto @ Storia 4 (Novembre 2005) < http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm > ].

 

[71] P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano cit. 447; cfr., più in generale, Id., Contributi allo studio del diritto augurale cit. 317 ss.

 

[72] F. Fabbrini, v. Res divini iuris, in Novissimo Digesto Italiano XV (Torino 1968) 542. «All’accezione di sanctus come “inaugurato” subentra quella di sanctus = “garantito”: garantito da un atto sacer, e garantito dagli dèi. Ciò che è garantito dagli dèi è considerato “immutabile”, “solido”, “sicuro”. è in questa accezione che va ricercato il significato di sanctus dato alle mura e alle porte fin da età piuttosto antica».

 

[73] Fest. De verb. sign., p. 358 L.: Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus perscribtum est, quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur, qua sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae, centuriae distribuantur, exercitus constituant<ur>, ordinentur, ceteraque eiusmodi ad bellum ac pacem pertinentia. Cfr. Cic. De div. 1.72: Quorum alia sunt posita in monumentis et disciplina, quod Etruscorum declarant et haruspicini et fulgurales et rituales libri, vestri etiam augurales.

 

[74] D. 1.8.9.4 (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum) Muros autem municipales nec reficere licet sine principis vel praesidis auctoritate nec aliud eis coniungere vel superponere.

 

[75] E. Luebbertus, Commentationes pontificales (Berolini 1859) 48: «muros nec reficere licere sine principis vel praesidis auctoritate, neque aliquid iis coniungere vel superponere, haud scio vetustioribus temporibus pontificum arbitrii fuerit».

 

[76] D. 1.8.11 (Pomponius libro secondo ex variis lectionibus): Si quis violaverit muros, capite punitur, sicuti si quis transcendet scalis admotis vel alia quilibet ratione. Nam cives Romanos alia quam per portas egredi non licet, cum illud hostile et abominandum sit: nam et Romuli frater Remus occisus traditur ob id, quod murum trascendere voluit.

 

[77] A. Johner, Rome, la violence et le sacré: les doubles fondateurs, in Euphrosyne 19 (1991) 291 ss.

 

[78] B. Albanese, Sacer esto”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 91 (1988, pubbl. 1992) 145-146: «L’idea di un automatico incorrere nella sacertà, per il solo fatto d’aver commesso un atto autoritativamente considerato illecito, dà l’impressione d’essere più conforme ad una mentalità primitiva. Basti accennare, ad es., all’antica tradizione relativa all’uccisione, da parte di Romolo, del fratello Remo, quasi a sanzione immediata dell’illecito costituito dal transiluisse muros – un atto, questo, carico di illiceità sacrale, come è evidente a chi consideri l’intrinseco carisma di inviolabilità inerente alle mura civiche, che troviamo incluse tra le res sanctae in età progredita, com'è notissimo».

 

[79] D. 49.16.3.17 (Modestinus libro quarto de poenis): Nec non et si vallum quis transcendat aut per murum castra ingrediatur, capite punitur.

 

[80] Quale esempio di utilizzazione in senso giuridico di tali fonti, mi permetto di citare F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico" (Sassari 1991); ma vedi anche O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di A. Biscardi, IV (Milano 1983) 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell'ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano. Promosso dall'Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985 (Milano 1988) 279 ss.

 

[81] F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. (Torino 1995). Sulla giurisprudenza romana del III e II secolo a.C., rinvio anche a F. D'ippolito: I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica (Napoli 1978, ma 1979); Giuristi e sapienti in Roma arcaica (Roma-Bari 1986); Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988. La più brillante indagine storiografica su questo secolo resta ancora il lavoro di F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C. (Trieste 1962, rist. an. Roma 1968).

 

[82] Sulla lex Ogulnia de sacerdotibus ex plebe creandis, vedi Liv. 10.6.1-6: M. Valerio et Q. Apuleio consulibus satis pacatae foris res fuere; Etruscum adversae belli res et indutiae quietum tenebant; Samnitem multorum annorum cladibus domitum hauddum foederis novi paenitebat; Romae quoque plebem quietam et exoneratam deducta in colonias multitudo praestabat. Tamen, ne undique tranquillae res essent, certamen iniectum inter primores civitatis, patricios plebeiosque, ab tribunis plebis Q. et Cn. Ogulniis, qui undique criminandorum patrum apud plebem occasionibus quaesitis, postquam alia frustra temptata erant, eam actionem susciperunt qua non infimam plebem accederent, sed ipsa capita plebis, consulares triumphalesque plebeios, quorum honoribus nihil praeter sacerdotia, quae nondum promiscua erant, deesset. Rogationem ergo promulgarunt ut, cum quattuor augures, quattuor pontifices ea tempestate essent placeretque augeri sacerdotum numerum, quattuor pontifices, quinque augures, de plebe omnes, adlegerentur). Cfr. Liv. 10.7 e 8; 10.9.1-2: Vocare tribus extemplo populus iubebat, apparebatque accipi legem; ille tamen dies intercessione est sublatus. Postero die deterritis tribunis ingenti consensu accepta est. Pontifices creantur suasor legis P. Decius Mus, P. Sempronius Sophus, C. Marcius Rutilus; M. Livius Denter; quinque augures item de plebe, C. Genucius, P. Ailius Paetus, M. Minucius Faesus, C. Marcius, T. Publilius. Ita octo pontificum, novem augurum numerus factus.

 

[83] Liv. 22.35.1-2: Cum his orationibus accensa plebs esset, tribus patriciis petentibus, P. Cornelio Merenda L. Manlio Vulsone M. Aemilio Lepido, duobus nobilium iam familiarum plebeiis, C. Atilio Serrano et Q. Aelio Paeto, quorum alter pontifex, alter augur erat, C. Terentius consul unus creatur, ut in manu eius essent comitia rogando collegae; 23.21.7: Et tres pontifices creati, Q. Caecilius Metellus et Q. Fabius Maximus et Q. Fulvius Flaccus, in locum P. Scantinii demortui et L. Aemilii Pauli consulis et Q. Aelii Paeti, qui ceciderant pugna Cannensi.

 

[84] F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur cit. 95 ss.

 

[85] F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur cit. 101 ss.

 

[86] Cfr. F. Bona, "Ius pontificium'' e "ius civile'' nell'esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della "littera Florentina''  (Napoli 1990) 210 s.: «Di fronte a ciò la romanistica, costretta a misurarsi col problema dell'interazione tra ius pontificium e ius civile, proprio nel momento in cui questo ha già dato i segni di costituirsi in un insieme di regole e di istituti che sembrano voler affermare la loro autonomia dal condizionamento religioso, la stessa romanistica, dicevo, sembra versare in una situazione di stallo, tendendo, anzi, ad eludere il problema. Se, poi, non avvenga che, in ragione del carattere delle fonti, in cui le singole testimonianze sono prevalentemente conservate, il campo di indagine non venga rivendicato da altre discipline o ad esse lasciato, ad es. alla storia politica, per quanto concerne lo studio della collisione tra ius sacrum e ius publicum, di cui si trovano tracce notevoli nelle fonti storiche, segnatamente in Livio e che vede come protagonisti autorevoli esponenti del pontificato massimo plebeo. Eppure le fonti non sono così avare di dati, da non giustificare un'indagine attenta in quel settore di ricerche».

 

[87] Sul punto vedi, ora, F. Sini, Diritto e documenti sacerdotali: verso una palingenesi, in Ius Antiquum - Drevnee pravo 16 (Moskva 2005) 22 ss. [pubbl. anche in Diritto @ Storia 4 (2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm]; cfr. anche L. Kofanov, Verso una palingenesi dei documenti sacerdotali romani, in Diritto @ Storia 4 (2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Kofanov-Palingenesi-documenti-sacerdotali-romani.htm .

 

[88] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, 2 voll. (Lipsiae 1889). Nella prestigiosa collana "Antiqua'', diretta da L. Labruna, sono stati ripubblicati in due volumi gli scritti del grande romanista tedesco: Gesammelte Schriften, herausgegeben und eingeleitet von Okko Behrends und Federico D'Ippolito (Napoli 1990); con due importanti saggi dei curatori (O. Behrends, Otto Lenel [13.12.1849 - 7.2.1935]. Positivismus im nationalen Rechtsstaat als Haltung und Methode. Zur Herausgabe seiner gesammelten Schriften, XIII ss.; F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana, XXXV ss.). Per il profilo biografico e scientifico, nonché per la valutazione del suo contributo alla scienza giuridica contemporanea, oltre i saggi appena citati, vedi fra gli altri: E. Al(bertario), Otto Lenel, in Enciclopedia Italiana 20 (rist. 1933) col. 836; F. Pringsheim, In memoriam, in Studia et documenta historiae et iuris 1 (1935) 466 ss.; M. Wlassak, Erinnerungen an Otto Lenel, in Almanach der Akademie der Wissenschaften in Wien 85 (1935, ma 1936), 309 ss.; E. Bund, Otto Lenel, in J. Vincke, Freiburger Professoren des 19. und 20. Jahrhunderts (Freiburg 1957) 77 ss. (ivi altra letteratura biografica); brevemente anche F. Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II (Milano 1980) 108.

 

[89] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I (Lipsiae 1889) Praefatio § I: «Exceptis igitur iis fragmentis quae mox enumerabuntur omnia recepi quae Iustiniani digestis continentur quaeque praeterea e civili Romanorum iuris prudentia servata sunt. Gai autem institutiones, Pauli sententias, Ulpiani regularum librum singularem, Dositheana quae vocantur fragmenta, fragmentum de iure fisci propterea exclusi, quod molem per se iam satis amplam huius collectionis inutiliter auxissent. Omissa sunt praeterea quaecumque sive ius publicum sive sacrum spectant fagmenta extra digesta tradita: quod invitus et quodam modo coactus feci, cum propter difficultatem satis accurate discernendi quaenam ad ius proprie sic dictum spectent quaeve ad antiquitates refenda sint, tum ob miseram condicionem, qua longe maxima pars fragmentorum quae huc faciunt – ea praesertim quae Festo debentur – tradita sunt. Nec tamen nimis anxius fui in excludendis huius generis fragmentis, cum tres illae iuris partes – ius sacrum publicum privatum – arta saepe necessitate inter se connexa sint: eorum librorum, in quibus et de iure sacro vel publico et de iure privato quaeritur, omnia fragmenta recepi vel saltem indicavi».

 

[90] Non è certo senza significato, che in merito all'adozione del termine palingenesia quale titolo della raccolta, quasi per certo improntato sull'opera di C.F. Hommel (Hommelii, Palingenesia librorum iuris veterum, sive Pandectarum loca integra ad modum indicis Labitti et Wielingii oculis exposita et ab exemplari Florentini Taurelli accuratissime descripta, 3 voll. [Lipsiae 1767-1768]), il Lenel ricordasse di aver dovuto superare anche le forti obiezioni espressegli dal Mommsen, il quale forse in tale titolo vedeva un proposito quasi impossibile da mantenere: cfr. O. Behrends, Otto Lenel cit. XIX n. 26. Valutazione critica del “programma” esegetico del grande studioso tedesco, in F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C. cit. 51 ss.

 

[91] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis I cit., Praefatio, § II: «Singulos scriptores, ratione habita non ubique gentis nominis, sed quo designari solent, secundum litterarum ordinem disposui. Ita ex. gr. Caelius Sabinus sub littera C, Masurius Sabinus sub littera S invenientur. Qui ordo, praeterquam quod ad usum maiorem commoditatem praebet, minoribus difficultatibus obnoxius est quam secundum tempora dispositio, quippe cum non semper satis certo definire possit quo quisque saeculo ixerit. In fine totius operis duplex additur index, alter alphabeticus, alter chronologicus». Sui criteri adottati dal Lenel per ordinare i materiali dei singoli giureconsulti, vedi la valutazione, stringata ma efficace, di L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts (Wien 1953) 876 e n. 214.

 

[92] O. Lenel, Palingensia iuris civilis I cit., Praefatio, § III: «Singulorum librorum fragmenta ita disponere conatus sum, ut inde ratio et conexus totius operis e quo desumpta sunt perspiceretur. Quod ubi fieri non potuit, hunc ordinem secutus sum, ut primum ponerentur e digestis fragmenta, deinde quae in ceteris de iure libris inveniuntur, ultimo vero loco quae alibi tradita sunt, insertis tamen inter digestorum fragmenta iis quae similis argumenti videbantur. Caute autem in illa restitutione procedendum esse censui et ita ut artis nesciendi numquam immemor essem. De varia ratione rerum disponendarum, qua iuris auctores usi sint, suo quoque loco diximus neque hic accuratius inquiremus. Singula singulorum librorum capita, ubi fieri potuit, rubricis distinxi».

 

[93] Da notare che tale rigore risulta, ancora oggi, condiviso almeno in parte da settori non trascurabili della scienza romanistica: cfr., ad esempio, F. Bona, Cicerone e i libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario - Firenze 27-28 maggio 1983, a cura di G. G. Archi (Milano 1985) 244-246: «Non si loderà mai abbastanza la prudenza del Lenel. Ed a giustificarla basterebbe rifarsi alla circostanza che di pari passo con il processo di laicizzazione della giurisprudenza, alla produzione giuridico-letteraria di ius civile che andò infittendosi nel corso del 2° e 1° sec. a. Cr., si affiancò una autonoma produzione letteraria di ius pontificium, che, se in un primo tempo sembra sia stata esclusiva opera di appartenenti al collegio pontificale, venne espressa, a partire, almeno, dalla metà del 1° sec. a. Cr., anche da giuristi non pontefici». Tuttavia, non sfugge allo studioso l'esigenza di temperare la rigidità del metodo leneliano, quando avverte il bisogno «di esprimere qualche riflessione che, se non vuole mettere in discussione la bontà in sé del criterio di esclusione leneliano, metta in guardia dal pericolo di precluderci, col suo impiego acritico, una più compiuta conoscenza delle opere giurisprudenziali del 2° e 1° sec. a.Cr.».

 

[94] O. Behrends, Otto Lenel cit. XIX, sottolinea, a proposito della Palingenesia, la acribia ricostruttiva e la «methodische Strenge» del Lenel: «Und auch die Palingenesie verdeutlicht, indem sie für die historisch arbeitende Romanistik den Vorrang der klassischen Juristenschrift gegenüber den Digesten klarstellt und mit methodischer Strenge in den Digestenfragmenten eine Fülle von justinianischen Glättungen und Interpolationen nachweist, mit grossem Nachdruck den Abstand zwischen dem römischen und dem geltenden Recht».

 

[95] Sulla reale portata del pensiero del Lenel, riguardo alla «misera condicio» delle edizioni del testo festino, vedi la riflessione di F. Bona, Cicerone e i libri iuris civilis di Quinto Mucio Scevola cit. 244 n. 109 («Non so se – con riguardo a Festo –, la ‘misera condicio’ lamentata, attraverso cui i frammenti sono stati tramandati si debba intendere esclusivamente con riguardo allo stato, veramente miserevole, in cui versa la tradizione testuale dell'epitome, o se possa riferirsi anche alle difficoltà di una sua lettura critica. Una domanda destinata forse a rimanere senza risposta è se Lenel [...] abbia potuto o, pur potendolo, non abbia voluto tener conto delle Verrianische Forschungen di R. Reitzenstein, che sono del 1887 e che hanno aperto la strada all'esame stratigrafico delle glosse delle “seconde” parti delle singole lettere, in cui si articola l'epitome festina e che non avrebbe mancato di suggerire o qualche maggiore cautela nell'ordine di idee perseguito dal Lenel o, viceversa, qualche maggiore fiducia nell'allargare la scelta anche fuori dell'opera festina»); aderisce, nella sostanza, F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana cit. XLIII s.: «Vorrei qui attirare l'attenzione sulla scelta dell'esclusione di Festo. Bisogna, infatti, considerare che, quando la Palingenesia vide la luce, l'edizione più attendibile dell'epitome festina era quella di Karl Otfried Müller, la cui edizione è del 1839. [...] è forse ragionevole pensare che Lenel considerasse l'edizione di Müller poco affidabile. Né, del resto, appare immotivata la diffidenza di Lenel sulla tradizione letteraria dei giuristi, esterna, per così dire alla Compilazione, se pensiamo alla non grande diffusione delle edizioni critiche».

 

[96] Questo atteggiamento del Lenel, sembra trovare una qualche giustificazione da parte di F. D'Ippolito, Otto Lenel e la giurisprudenza romana cit. XLV, quando parla di un «suo inevitabile ritrarsi di fronte alla sterminata platea della tradizione “letteraria” della giurisprudenza romana (ancora tutta da indagare)».

 

[97] Per la critica alle posizioni del Lenel, vedi L. Raggi, Storia esterna e storia interna del diritto nella letteratura romanistica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 62 (1959) 199 ss. [= Id., Scritti (Milano 1975) 72 ss.], il quale evidenzia il persistere in esse della distinzione formulata dal Leibniz tra storia esterna e storia interna del diritto: «Da sottolineare inoltre come questa concezione leibniziana riecheggi la convinzione - a tutt'oggi non ancora scomparsa - dell'estraneità dello jus publicum alla concezione romana dello jus» (85; ivi anche n. 30).

 

[98] Il pensiero del Lenel non si discostava, dunque, dalla communis opinio della pandettistica del suo tempo, nel considerare oggetto dell'indagine giuridica unicamente quello che, parafrasando il titolo di un celebre manuale di A. Heimberger, potrebbe definirsi «il diritto romano privato e puro» (Heimberger, Il diritto romano privato e puro, trad. it. di C. Bosio, 3ª ed. (Bellinzona 1851) 1.«Il Diritto romano in senso lato è quel complesso di leggi civili che furono in vigore nell’antico Impero romano dalla sua origine fino alla sua caduta in Oriente. Preso in questo senso, il Diritto romano abbraccia non solo le leggi emanate da Giustiniano, ma ben anche tutte le altre che furono promulgate prima e dopo di lui. Per Diritto romano però in senso stretto e proprio s’intendono soltanto leggi dettate da Giustiniano». Sarà facile perciò intendere come ius publicum e ius sacrum, in questa prospettiva, non fossero ritenuti riconducibili al «vero diritto romano», ma alla «parte storica e archeologica del medesimo»: cfr. ad esempio quanto scriveva, a proposito delle ricerche giuspubblicistiche di Carlo Sigonio, C. Bosio, Prefazione del Traduttore, in A. Heimberger, op. cit. IX: «L'opera del Sigonio, De antiquo jure populi romani, ancorché utilissima anche al presente, più che del vero Diritto romano, si occupa della parte storica e archeologica del medesimo». Ma nello stesso senso, vedi anche S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano I (Roma 1928) 4: «Il nome di diritto romano indica [...] per antonomasia il diritto romano privato e non comprende il pubblico. Ciò pure dipende da ragioni storiche, dal fatto cioè che la codificazione giustinianea nella parte prevalente e di maggior pregio è una codificazione del diritto privato e quasi esclusivamente questa sola parte ebbe nei paesi e dal tempo accennati valore di legge e trattazione scientifica».

 

[99] Utilizzo non casualmente l'espressione iura populi Romani, in quanto terminologia specialistica del linguaggio giuridico romano: cfr. Gaio, Inst. 1.2: Constant autem iura populi Romani ex legibus, plebiscitis, senatusconsultis, constitutionibus principum, edictis eorum, qui ius edicendi habent, responsis prudentium. Sull’importante testo gaiano, vedi ora V. Giodice-Sabbatelli, Gli iura populi Romani nelle istitizioni di Gaio (Bari 1996) 41 ss.

 

[100] Contro tale tendenza omissiva vedi, ad esempio, le forti obiezioni di F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 86 ss.

 

[101] R. Orestano, Introduzione allo studio del diritto romano (Bologna 1987) 533 n. 26: «A tal fine sarà sommamente utile – scrive lo studioso – una Palingenesia iuris romani publici in cui venissero raccolte tutte le testimonianze e tutti gli squarci di autori giuridici e non giuridici concernenti lo ius publicum. Si pensi, al riguardo, che essi sono stati deliberatamente esclusi dal Lenel, nella sua Palingenesia iuris civilis».

 

[102] G. Dumézil, Idées romaines (Paris 1969) 9 e 25; vale la pena di riflettere anche su quanto segue: «A cet estimable niveau d'activité intellectuelle, devant cette pensée elle-même avide de précision, l'observateur est tenu d'interroger avec attention et avec respect, d'égal à égal, si l'on peut dire, le mots, les récits, les institutions, les figures divines dans lesquels elle s'est exprimée».

 

[103] L'espressione è di F. Wieacker, Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festgabe für Max Kaser zum 80. Geburtstag (Wien-Graz-Köln 1986) 353, di cui vedi l'osservazione più generale: «Die pontifices sind die ersten greifbaren Fachjuristen der antikokzidentalen Welt, und spezifische Züge ihrer Expertentechnik haben sich den späteren römischen Juristen und ihren europäischen Erben bis unsere Zeit aufgeprägt. Eben hierin ist ein auf den ersten Blick ein unerwartetes unmittelbares Interesse noch der heutigen Juristen an der Pontifikaljurisprudenz der Römer begründet». Cfr. Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur I (München 1988) 310 ss.

 

[104] F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera (Firenze 1968) 18 s.: «Nel periodo che segue le XII Tavole, quella giurisprudenza romana, che noi conosciamo così bene e che raggiunse l'adolescenza nell'ultimo secolo della Repubblica e la maturità nell'età di Adriano, era ancora alla sua infanzia».

 

[105] Cic. Cato mai. 27: Nihil Sex. Aelius tale, nihil multis annis ante Ti. Coruncanius, nihil modo P. Crassus, a quibus iura civibus praescribebantur; quorum usque ad estremum spiritum est provecta prudentia.