Memorie-2018

 

 

http://www.dirittoestoria.it/7/CV/Cardilli-CV-D@S-2008_file/image002.jpgRiccardo Cardilli

Direttore del Centro Studi Giuridici Latinoamericani dell’Università di Roma “Tor Vergata”

Professore Chutian dell’Università Zhongnan di Wuhan - Cina

 

USURA IN FRUCTU NON EST

CONTRO L’ASTRAZIONE DEI MODERNI*

 

 

Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Prima della nascita dell’obbligazione d’interessi: lotta plebea per la libertà dall’aes alienum. – 3. Nascita dell’obbligazione d’interessi: stipulatio usurarum. – 4. Usura pecuniae in fructu non est e l’alia causa obligationis in Pomp. l. 6 ad Quintum Mucium (D. 50.16.121). – 5. Chyrographa e syngraphae come contratti stranieri usurari contra fidem. – 6. Per una critica del modello moderno dell’obbligazione d’interessi. – Abstract.

 

 

1. – Considerazioni introduttive

 

Nelle società capitalistiche contemporanee, caratterizzate da un protagonismo del capitale finanziario rispetto a quello industriale e commerciale, il valore aggiunto non è più dato dalla differenza tra costi e ricavi nell’erogazione di beni e servizi, ma da un particolare schema giuridico rappresentato dal debito d’interessi pecuniari come forma di corrispettivo dell’uso del denaro quale somma-capitale. La struttura così creata, quella dell’obbligazione d’interessi, non è unitaria, ma collega due realtà giuridiche separate, quella dell’obbligazione, quale fondamentale relazione giuridica tra i consociati, e quella degli interessi pecuniari, visti esclusivamente quali frutti civili, cioè denaro la cui stessa giustificazione è data dall’essere il corrispettivo aggiuntivo di un’altra somma di denaro che viene prestata in uso, per un certo tempo, che dà vita, così, ad una particolare forma di obbligazione pecuniaria[1]. Ciò permette alla modernità di astrarre la particolare obbligazione d’interessi dalla sua specifica natura causale, espandendone enormemente, attraverso l’occhiale dell’obbligazione pecuniaria, la ricorrenza e l’insorgenza.

Il collegamento tra interessi pecuniari e obbligazione non è l’unica forma giuridica che può assumere la previsione di un valore artificialmente aggiunto alla somma di denaro prestata da restituire. Storicamente, nel diritto romano, essa emerge in una fase storica nella quale si ricorre sempre di più al mutuo informale, e non più al nexum quale negozio formale con funzione di prestito.

La concezione romana, a differenza della contemporanea, conserva però in ogni caso la piena specificità della realtà degli interessi pecuniari, qualificando l’oggetto dell’obbligazione in questo caso non tanto in termini di denaro (pecunia), quanto quale diverso oggetto dotato di una sua peculiarità, per l’appunto l’usura pecuniae. Già questo elemento terminologico è un indice indicativo della distanza di lettura esistente tra nozione concreta romana e concezione astratta moderna del fenomeno[2].

Per i Romani, poi, superata la forma arcaica di indebitamento plebeo col nexum e l’interesse in chiave di uncia, la particolare natura artificiale dell’usura pecuniae ne impone comunque un rigido formalismo nella sua assunzione quale oggetto di obbligazione. Non è sufficiente una dichiarazione di volontà comunque manifestata in tal senso del debitore, ma è necessario un consapevole ed espresso consenso con parole solenni attraverso, appunto, la stipulatio usurarum, al fine di far nascere un’obbligazione d’interessi in capo ad un debitore da mutuo[3].

Dal punto di vista ideologico, deve per altro evidenziarsi che l’obbligazione pecuniaria dei moderni ha assunto un valore paradigmatico nel sistema dei diritti patrimoniali, in quanto è espressiva, per così dire, in vitro della rappresentazione borghese e liberale dell’obbligazione tout court, quale fondante un presunto potere del creditore sulla prestazione del debitore, rappresentativo di un rapporto di diseguaglianza e connotato da esclusiva rilevanza patrimoniale[4].

Allo stesso modo, la grammatica giuridica contemporanea distingue ‘interessi’ (pecuniari) e ‘usura’ in una prospettiva quantitativa del tasso applicato all’obbligazione di interessi, proiettando concettualmente solo l’usura su un piano di contrarietà all’ordine giuridico e di sua rilevanza penale[5], in base a scelte di politica legislativa[6]. La distinzione riesce così a realizzare un’astrazione degli interessi che, a differenza dell’usura, sarebbero come tali legittimi e leciti, quale forma specifica di obbligazione pecuniaria[7].

Al contrario, il diritto romano pone al centro della sua regolazione del problema l’idea unitaria della ‘innaturalità’ dell’usura pecuniae (che quindi ben si distingue dalla pecunia stessa) e la sua necessaria giustificazione giuridica non in re ipsa riconoscibile soltanto nell’essere l’usura un corrispettivo dell’uso del denaro altrui, ma imponendosi cause giustificatrici tipiche quali il ritardo nella restituzione delle somme capitale (interessi moratori), o il corrispettivo del rischio del perimento delle somme prestate (interessi compensativi).

La lettura giuridica contemporanea in termini distinti (interessi-usura) del fenomeno e l’attrazione del debito d’interessi nel genus delle obbligazioni pecuniarie hanno determinato nell’età contemporanea una saldatura concettuale in materia, che merita di essere svelata, per comprendere a fondo, sul piano giuridico, la carica ideologica di tale saldatura sul piano della sua funzionalità alla vestizione giuridica del concetto economico dell’interesse quale reddito del capitale[8], per evitare che se ne traggano conseguenze giuridiche proprie dell’obbligazione pecuniaria, ma non adeguate ad applicarsi all’obbligazione d’interessi, la quale resta una obbligazione (quando si riconosce lecita) di natura “accessoria”, la cui causa deve essere ben vagliata in rapporto al debito della somma principale dovuta non in termini esclusivamente genetici[9].

 

 

2. – Prima della nascita dell’obbligazione d’interessi: lotta plebea per la libertà dall’aes alienum

 

L’incontro tra lo schema dell’obbligazione e gli interessi pecuniari nella nostra tradizione giuridica è un frutto storico della desuetudine a Roma del nexum.

La Repubblica romana risulta, infatti, segnata da una disomogeneità cetuale accentuata, declinatasi nelle fonti storiografiche antiche nell’immagine della discordia ordinum patrizio-plebea.

Tra le cause principali del conflitto politico è ricordato il fenomeno dell’indebitamento, fenomeno che è caratterizzato fino al 326 a.C., anno della lex Poetelia Papiria, dal ricorso ad un negozio arcaico solenne tipizzato su una forma gestuale e verbale con funzione di prestito del metallo che veniva pesato (nexum come gestum per aes et libram), con la possibilità di prevedere nell’atto once aggiuntive di metallo da restituire oltre quelle prestate, e che faceva nascere su chi lo riceveva una immediata soggezione corporale, la quale evocava appunto un nectere. Quella del nexus era, per altro, una posizione giuridica che non sembra incidere né sulla sua libertà, né sulla sua cittadinanza[10].

Vista in chiave di rapporti sociali, il diritto arcaico sembra permettere una distribuzione della ricchezza tra ceto aristocratico e ceto plebeo in forma di prestito solenne con immediata soggezione del plebeo al patrizio che aggrava, a livello personale, la posizione del primo, trasformando l’esigenza economica plebea in una struttura giuridica di assoggettamento di lunga durata. La previsione di pesi metallici aggiuntivi (uncia) oltre a quelli pesati nella dazione determinava, infatti, una crescente difficoltà plebea, se non impossibilità, di liberarsi e sciogliersi dal nexum.

Il fenomeno è giudicato da Tacito come malum (ann. 6.16.1)[11] e – secondo quanto afferma Catone il Censore (de agri cult., praef. I)[12] in età repubblicana – la categoria dei feneratores andava considerata una categoria di cittadini peggiore dei ladri.

Prima delle XII Tavole non sembra che esistessero limiti a tale prassi feneratizia realizzata dai patrizi col nexum, tanto da far dire a Tacito che essa era esclusivamente caratterizzata dalla locupletium libido (Tac. ann. 6.15.1: cum antea ex libidine locupletium agitaretur). Dalle XII Tavole in poi il problema sarà affrontato imponendo limiti alla previsione negoziale di quantità aggiuntive di aes oltre a quello effettivamente pesato nel prestito: un’oncia (1\12 l’anno), limite riaffermato con la legge Duilia Menenia del 356 a.C., dimezzato con un plebiscito successivo alla semioncia (1\24 l’anno), e con il plebiscito Genucio addirittura vietata in toto.

La politica del diritto ispirata alla limitazione dei pesi imposti alla plebe dalla prassi feneratizia patrizia non sortì effetti adeguati alla soluzione del problema e per un suo superamento bisognerà attendere, come detto, la modifica degli effetti del nexum con lex publica nel 326 a.C. (lex Poetelia Papiria), comportante la desuetudine del gestum per aes et libram già nel II sec. a.C. e dando vita, secondo quanto afferma Livio, ad una nuova libertà plebea (Eo anno plebi Romanae velut aliud initium libertatis factum est quod necti desierunt).

Ciò chiaramente non deve impedire di scorgere la forza di uno schema negoziale (quello appunto del nexum) funzionale alla realizzazione di una forma di dipendenza economica, sociale e politica del ceto plebeo rispetto a quello patrizio. Il nexum è probabilmente una realtà giuridica arcaica, che assume importanza negli schemi che realizzano la complessa e difficile costruzione della comunità dei cives Romani, composta da una varietà di culture, religioni ed etnie che fondano Roma il 21 aprile del 753 a.C. sul Palatino.

La complessità ‘orizzontale’ dei diritti consuetudinari aristocratici del Comune (mores maiorum), sulla quale si concentra l’operato armonizzante della iurisdictio regia e della interpretatio pontificum per costruire un unitario ius civile, ha di contraltare una struttura ‘verticale’ di diseguaglianza della società arcaica,  che sarà rappresentata in retrospettiva dalla storiografia tardo-repubblicana ed inizio-imperiale in chiave di confronto tra i due ordini dei patrizi e dei plebei.

Lo schema arcaico del nexum è una delle strutture giuridiche fondamentali della resistenza nel tempo di questo conflitto sociale. Una tappa essenziale che tenta di mitigare la forza giuridico-politica del confronto sono le XII Tavole del 451-450 a.C. [13], nelle quali è testimoniata una politica di eguagliamento nella libertà e nella cittadinanza romana dei nexi (tab. 1.5)[14], contestualmente alla fissazione di un limite pubblico all’oncia della quantità aggiuntiva di bronzo che poteva essere imposta sul bronzo prestato al nexus per liberarsi (fenus unciarium; tab. 8.18 a).

Rispetto a tab. 1.5, l’ipotesi interpretativa che ritiene la disposizione decemvirale concretizzare una declinazione concreta del libertatem aequare tra patrizi e plebei che Livio attribuisce proprio alle XII Tavole (Liv. 3.31.7), ha una forza di suggestione particolare. Così come, per i fortes e i sanates (almeno in una linea di pensiero che potrebbe risalire, da Festo, attraverso Verrio Flacco, a Labeone)[15], anche per i nexi si tratterebbe di riconoscere una eguale partecipazione al ius civile di Roma. Il ius civile si apre, così, non soltanto a tutte le comunità di coloro qui supra infraque Romam habitaverunt, sia quelle che si erano dimostrate fedeli a Roma (fortes), sia quelle che si erano inizialmente schierate contro Roma, mutando poi in un secondo momento il loro atteggiamento (sanates), ma allo stesso modo, accettando una restituzione testuale alla linea 27 del testo di Festo in nex<i soluti>, si tratterebbe di riconoscere una eguale partecipazione al ius civile anche ai nexi. Per gli autori che propongono l’integrazione con nex<o soluto>, tale conquista sarebbe da attribuire soltanto ai nexi liberatisi con la solutio per aes et libram; per coloro, invece, che propendono per il nex<o solutoque>, la norma avrebbe sancito una piena partecipazione al ius civile sia del nexus vinctus, sia dei nexi liberatisi con la solutio per aes et libram. La dottrina più sensibile ai profili di conflitto sociale dell’epoca arcaica ha rilevato come una tale ipotesi di integrazione, se vera, renderebbe in concreto la statuizione decemvirale una soluzione giuridica di importanza politico-costituzionale di grande rilievo[16], quale strumento inclusivo di equiparazione partecipativa al diritto cittadino[17].

In questa eventualità, le XII Tavole avrebbero sancito una partecipazione piena al ius civile dei nexi, segnando un’importante equiparazione sul piano non soltanto sociale, ma soprattutto anche giuridico favorevole alla plebe, dando forma concreta all’immagine giuridica successiva che incontriamo in Varrone del nexus quale liber serviens[18]. L’immagine varroniana (con ascendenze in contesti giuridici), infatti, esclude si possa considerare il nexum quale gestum identico non solo nella forma, ma anche nella funzione alla mancipatio. La restituzione in tab. 6.1 di una costruzione dal tenore seguente, ‘ne<xum faciet manci>piumque’, solleva, infatti, il problema della relazione tra i due termini (nexum e mancipium). A favore di una differenziazione funzionale tra mancipium/mancipatio e nexum depone una testimonianza di Festo, nella quale si ha una percezione distinta dell’aes pesato a seconda della sua funzione (prezzo di scambio nella vendita a contanti o quantità di bronzo prestata nel nexum), evidenziando come l’antico sintagma ‘nexum aes’ evocasse la quantità di aes che andava poi restituito (Fest. de verb. sign. nexum aes’ (Lindsay 162.4: Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum obligatur).

A differenza del nexum aes, Gaio ricorda ancora che l’aes datum simbolicamente con la percussio librae nella mancipatio quale imaginaria venditio di personae quae in potestate parenti sunt era comunque da intendersi quasi pretii loco (Gai. I.119)[19].

D’altronde, anche per la solutio per aes et libram, vi è nelle fonti ancora il ricordo di una sua qualificazione diversa, che ne accentuerebbe la funzione liberatoria per il nexus (nexi liberatio; Fest. de verb. sign. ‘nexum’ [Lindsay, 160.32])[20], funzione che ancora nella trama del discorso di Gai 3.172 pone il legame tra nexum e solutio per aes et libram come prioritario rispetto al legame tra liberazione del iudicatus e solutio per aes et libram[21]. Proprio i verba solemnia che il solvens doveva dichiarare nel perfezionamento della solutio per aes et libram sono da questo punto di vista illuminanti: solvo liberoque (Gai. 3.174)[22].

L’ordine della sequenza solvo liberoque ha un valore altamente significativo. Potrebbe, infatti, cogliersi una particolare complessità di regime giuridico del solvere affiancato al liberare. In sostanza, tenendo conto delle difficoltà di integrazione di tab. 1.5 (nex<…> forti sanatique idem ius esto), potrebbe avanzarsi l’ipotesi che proprio le XII Tavole rappresentino un momento significativo della solenne affermazione di una partecipazione del nexus al ius civile quale liber, per rendere la sua solutio per aes et libram non soltanto l’atto corrispondente e contrario del nexum, con effetti inter-relazionali limitati alle personae sui iuris coinvolte (prospettiva questa che affondava le sue radici nella società pre-civica e nell’originaria divisio tra le personae sui iuris e quelle alieni iuris)[23], ma anche l’atto formale di scioglimento del vincolo materiale e di riposizionamento del nexus nei suoi pieni diritti di cittadino (idem ius esto).  L’idem ius esto potrebbe, quindi, declinare lo sforzo di eguagliamento tra nexi (vincti) e (nexi) soluti nel contesto di una costruzione del ius civile tesa a superare le rigidità della società gentilizia (con radici pre-civiche) e di momento di pacificazione della conflittualità determinata dall’indebitamento plebeo[24].

Forse, proprio in questa prospettiva, è possibile avanzare una ipotesi sulla rilevanza della testimonianza di Fest. de verb. sign. sub.v. sanates (Lindsay 426) per tab. 1.5 anche in rapporto al regime giuridico del nexum. Credo, infatti, che se si tiene conto vuoi della qualifica in termini di atto di ‘liberazione’ del nexus (nexi liberatio) della solutio per aes et libram, vuoi della disposizione decemvirale che qualifica in termini di liber esto l’estinzione della potestas in caso di tre mancipationes del filius familias (tab. 4.2b) e della stessa qualifica del nexus come liber serviens in Varrone de lingua Latina 7.105, sia possibile intravedere un contesto giuridico pre-decemvirale nel quale potesse essere dubitato per il nexus vinctus, in stato di attuale di vincolo presso il pater familias erogante il prestito, il godimento di una posizione giuridica attiva sul piano del ius Quiritium, e fosse, altresì, dubitato che tale posizione che il civis aveva prima di concludere il nexum, si riacquistasse automaticamente al nexus liberatosi con la solutio per aes et libram. Sul piano della società gentilizia è, d’altronde’ ricordato nelle fonti quanto meno per l’addictus riscattato alla cittadinanza la perdita, però, definitiva della condizione di gentilis[25]. Per una qualifica unitaria dei nexi, pur distinti in vincti e soluti, rispetto al ius Quiritium depone d’altronde Livio 2.23.5 (nexi vincti solutique, se undique in publicum propripiunt, implorant Quiritium fidem).

Attraverso tab. 1.5, quindi, si potrebbe appunto aver voluto sancire, quanto meno nell’àmbito rilevantissimo del lege agere, un’estensione di eguaglianza di partecipazione al ius civile sia dei nexi vincti che dei nexi soluti, determinando una fondamentale apertura patrizia ai plebei e dando fondamento all’ossimoro giuridico  ricordato da Varrone del liber serviens (Varr. De ling. Lat. 7.105 [Goetz-Schoell]: liber qui suas operas in servitutem pro pecunia quam debebat[26], dum solveret, nexus vocatur, ut ab aere obaeratus).

Come già ricordato, poi, le XII Tavole sanciscono il limite di peso dell’oncia (tab. 8.18a)[27]. Rispetto, cioè, ad una realtà nella quale i patrizi imponevano al nexum aes prestato ai plebei negozialmente le quantità aggiuntive di bronzo da restituire in termini di fenus (ricorrendo alle nuncupationes), saranno per Tacito le XII Tavole  a fissare il limite unciario degli interessi pecuniari sui prestiti (1/12 l’anno, ca. 8,34%)[28]. Prima delle XII Tavole, la struttura formale del nexum poteva essere piegata alla funzione feneratizia (fenus) attraverso la possibilità di modellare il ius prodotto con l’atto compiuto attraverso le nuncupationes (tab. 6.1), senza etero-limitazioni, se non quello della decenza  (Tac. ann. VI.16.2: Nam primo duodecim tabulis sanctum ne quis unciario faenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur). Il limite decemvirale va quindi collocato all’interno di una consapevole scelta di politica del diritto diretta a superare la discordia ordinum.

Va, altresì, accentuato il fatto che in Tacito non emerge alcun tentennamento giuridico-morale nel qualificare il fenomeno del prestito ad interessi in termini di vetus urbi fenebre malum (da contrapporre al bonum, elemento essenziale del giuridico – ius est ars boni et aequi Cels.-Ulp. D. 1.1.1 pr.)[29]. Il fenebre malum di Tacito è la chiave storiografica dello svolgimento che lo storico fa della costante linea perseguita dal diritto romano con le leggi antiusura, quale conquista della lotta plebea contro il patriziato e che giunge al divieto assoluto delle usurae nel plebiscito Genucio del 342 a.C., divieto al quale si opporrà il senato[30].

La lotta all’usura è storicamente una delle forze caratterizzanti la costruzione della res publica Romana[31], orientandosi, come visto, dapprima a porre limiti legislativi all’avidità dei feneratores e, poi, con la lex Poetelia Papiria del 326 a.C. a modificare le rigide conseguenze personali del nexum che caratterizzavano la forma giuridica dell’indebitamento plebeo nei confronti del patriziato in termini di immediata responsabilità del nexus e sua eventuale soggezione alla diretta manus iniectio in caso di mancata restituzione. Non è casuale che le fonti considerino il superamento della struttura giuridica del nexum come un aliud initium libertatis per la plebe[32].

 

 

3. – Nascita dell’obbligazione d’interessi: stipulatio usurarum

 

La desuetudine del nexum nel III-II sec. a.C. matura in un contesto nel quale non aveva più tanto senso ricorrere ad un atto formale così complesso, una volta spogliato di quegli effetti personali caratteristici che assumevano agli occhi del prestatore di denaro una straordinaria funzione di garanzia. La valvola di sfogo dell’autonomia nuncupativa per dare corpo alle prassi creditizie, sulla quale aveva operato l’opera limitatrice della legislazione antiusura, cade con la desuetudine del gestum per aes et libram.

Potrebbe pensarsi che le esigenze della prassi feneratizia potessero come tali trovare adeguata soluzione nel mutuo informale. Al contrario, invece, sebbene la funzione del prestito di denaro verrà soddisfatta ricorrendo alla tipizzazione del contratto reale di mutuo informale, la previsione di interessi sulle somme prestate non trovò nell’àmbito della tipizzazione del mutuo stesso una adeguata collocazione. Tale impossibilità di struttura giuridica del mutuo romano è fondata sulla sua tipizzazione in termini di dovere giuridico di restituzione del mutuatario della somma effettivamente consegnata al mutuatario. La datio è centrale e impone l’attrazione delle conseguenze giuridiche della stessa per l’accipiens nell’alveo del dare oportere.

Ciò fa capire che l’interpretatio dei giuristi romani del IV-III sec. a.C. concentrò la sua attenzione nella realizzazione della funzione creditizia sulla datio pecuniae, atto oramai spogliato dalle solennità del gestum per aes et libram[33] che produceva due conseguenze altamente significative: da un lato, era la datio – ed esclusivamente la datio – che perimetrava l’oggetto dell’obbligazione di restituzione del mutuatario, senza che potesse essere prevista una somma di denaro aggiuntiva in termini di usura, determinando la tipizzazione del mutuo quale contratto gratuito[34]; d’altro lato, con la datio la somma di denaro prestata passava nella piena disponibilità del mutuatario – con tutti i rischi a ciò connessi nelle scelte di utilizzazione delle somme ricevute – configurando la restituzione delle somme prestate quale certum dare oportere del mutuatario stesso[35].

Quella realizzata con la datio è un’apertura di sistema, dalla centralità della ‘forma’ nei diversi negozi tipico-causali alla centralità della ‘causa’ in negozi deformalizzati; una vera rivoluzione copernicana del diritto dei contratti, nel quale resta ancora un punto fermo la determinatezza della prestazione in termini di certum dare, non più fondata, però, come nella sponsio, nei verba solemnia, ma disegnata rigorosamente dalla quantità di pecunia oggetto di datio/adnumeratio. La datio perimetra, cioè, con certezza quanto si deve restituire[36], idonea àncora di stabilità del regime astratto dell’agere introdotto con le leges Silia e Calpurnia[37].

La gratuità del mutuo fondato nella datio è, quindi, caratterizzazione tipica basata proprio sulla essenzialità della restituzione solo ed esclusivamente di quanto è stato dato, né meno, né più. In sostanza, la fides alla quale lo spondere dava forma giuridico-sacrale producendo il dare oportere, espande la sua forza cogente nel rapporto tra due patres familias anche in assenza di una formalizzazione nella sponsio attraverso l’affidabilità delle parti in caso di datio. Un’affidabilità che in tale caso è ulteriormente rafforzata dal fatto che il ‘creditore’ ha dato al ‘debitore’ una somma di denaro senza richiedere la conclusione di una sponsio o di una stipulatio come impegno verbale di restituzione, né ha preteso un nexum. Si tratta di uno spazio di ‘credibilità’ se si vuole addirittura più intenso di quello veicolato dallo spazio formale dello spondere e del nexum, in quanto non vi sono forme giuridiche di sua rappresentazione, ma esclusivamente la convinzione certa del dante causa che il ricevente restituirà quanto versato. Ed è chiaro che tale affidabilità è inserita nel contesto di valori etico-sociali di cui la fides è rappresentazione, così da determinare una eccezionale rilevanza del rapporto di doverosità espresso dal modello dell’oportere (omnes enim contractus, quos alineam fidem secuti instituimus, complectitur: nam ut libro primo quaestionum Celsus ait, credendi generalis appellatio est: Ulp. 26 ad ed. D.12.1.1.1). È un salto importante nelle forme giuridiche relazionali, che non rompe ma espande il modello principiale della fides[38].

In tale contesto, la previsione creditoria di somme aggiuntive in termini di usurae non trova nessuna realizzazione. La prassi economica dei feneratores percorre, quindi, come strada alternativa quella di calare l’impegno a pagare somme di denaro a titolo di interessi in un contratto caratterizzato dalla sola forma verbale, come la stipulatio. La espressa assunzione formale di uno specifico impegno verbale al pagamento di una somma di denaro a titolo di usurae evoca, quindi, la specifica autonomia della causa del particolare debito assunto, negozialmente collegato al contratto di mutuo, ma non tacitamente ricorrente dalla disponibilità della sors, in quanto fondato necessariamente su una espressa e formale assunzione di tale impegno da parte del debitore con stipulatio usurarum specifica[39]. Se da un lato, quindi, la previsione di interessi pecuniari come unico oggetto di un’obbligazione assunta con stipulatio è legittima quando all’interno dei limiti legali, d’altro lato, la si considera giuridicamente ammissibile purché accessoria ad una obbligazione della somma prestata a mutuo[40].

 

 

4. – Usura pecuniae in fructu non est e l’alia causa obligationis in Pomp. l. 6 ad Quintum Mucium (D. 50.16.121)

 

In tale contesto, è ricordata una interpretatio del fenomeno dell’usura pecuniae da parte di Quinto Mucio Scevola il pontefice, in una famosa testimonianza nel libro dei Digesta giustinanei sulle verborum significationes.

 

D. 50.16.121 Pomp. l. 6 ad Q. Mucium

Usura pecuniae, quam percipimus, in fructu non est, quia non ex ipso corpore, sed ex alia causa est, id est nova obligatione[41].

 

La natura lemmatica dell’opera di Pomponio, da cui è tratta la testimonianza, e la terminologia in essa utilizzata avvalorano l’ipotesi che si tratti di uno stralcio escerpito da lemma muciano[42].

Quinto Mucio Scevola pontifex, all’interno di una parte dedicata ai legati (probabilmente un legato d’usufrutto omnium bonorum), esclude perentoriamente l’usura pecuniae dal novero dei frutti, cosa che al tempo del giurista repubblicano (e non a quello di Pomponio) significava escluderla dalle cose che l’usufruttuario aveva diritto di fare proprie. La realtà dà forma al diritto, e non il contrario – come invece accade nell’ideologia contemporanea che annovera gli interessi pecuniari nei frutti civili di una somma di denaro – imponendo a Quinto Mucio Scevola la naturale constatazione che una cosa è il denaro (pecunia), altra è l’usura (pur composta di denaro a sua volta). Il denaro dovuto a titolo di usura ha una qualifica concreta diversa dal denaro dovuto nella obbligazione di restituzione. La ragione di tale giusta e concreta distinzione è fondata sulla constatazione che il denaro dato a prestito non dà a titolo di per sé di arricchirsi di somme aggiuntive a quelle versate al debitore, confermando la profonda consapevolezza dei giuristi romani che il diritto non può alterare la realtà se non fingendo l’esistenza dell’irrealtà sul piano del diritto.

La ratio dell’esclusione dal frutto dell’usura pecuniae e la sua concreta configurazione non in termini semplicistici di pecunia dimostra, poi, come il giurista tardo-repubblicano guardasse al fenomeno feneratizio dall’esclusiva visuale della struttura mutui datio e stipulatio usurarum. Ciò conferma la natura gratuita del contratto tipico di mutuo, quale obligatio re contracta, che al massimo può rappresentare la iusta causa di una stipulatio usurarum collegata negozialmente al debito relativo alla restituzione della pecunia data. Il debito di interessi (stipulatio usurarum) non realizza una autonoma obbligazione pecuniaria azionabile, ma una autonoma assunzione di un debito avente ad oggetto l’usura pecuniae, con una propria specifica causa che è negozialmente collegata col prestito della sors. Potremmo dire, usando categorie moderne, che l’oggetto dell’obbligazione (usurae) funge qui anche da causa giustificativa, con la conseguenza che se le somme promesse dovessero perdere la funzione di usurae, verrebbe meno anche la fondatezza dell’obbligazione assunta con la stipulatio usurarum.

La soluzione giuridica è particolarmente raffinata, in quanto, essa nega natura di obbligazione pecuniaria autonoma alla stipulatio usurarum, senza negarne l’indipendenza formale sul piano della causa obligationum. La stipulatio usurarum è collegata funzionalmente all’obligatio sortis, in chiave accessoria, come una vera accessione e non come un frutto. Perfettamente coerente a tale costruzione è l’affermazione finale che quella avente ad oggetto l’usura pecuniae è una ‘nuova obbligazione’ (id est nova obligatione) e non la stessa in base alla quale si deve la restituzione delle somme date a mutuo (come nella prospettiva moderna) e quindi, se da un lato se ne evidenzia l’artificialità (e non la naturalità) in connessione al debito della somma principale data a mutuo, d’altro lato, se ne rafforza il collegamento negoziale con quest’ultima, che ne è la causa concreta di riferimento.

È evidente la distanza con la prospettiva contemporanea, la quale, nell’àmbito della forma economica del capitale finanziario, tende a considerare l’obbligazione di interessi quale obbligazione pecuniaria con natura accessoria soltanto nel momento genetico con l’obbligazione di restituzione della somma principale e quasi naturale conseguenza del prestito d’uso di somme di denaro.  

 

 

5. – Chyrographa e syngraphae come contratti stranieri usurari contra fidem

 

La politica antiusura dei Romani si espande anche a costumi commerciali, come quelli ellenistici, nei quali il prestito di denaro a fronte di interessi esorbitanti era ampiamente praticato e senza limiti giuridici efficaci, utilizzandosi in quell’area culturale schemi giuridici quali le syngraphae, contratti scritti caratterizzati dalla forma, che permettevano di celare l’enorme tasso di interessi nella somma da restituire, attraverso la falsa dichiarazione scritta dal debitore di aver ricevuto in prestito una somma inclusiva del capitale e degli interessi. Non è un caso che tali operazioni e usi finanziari ellenistici per i romani fossero da vietare a Roma (lex Gabinia del 67 a.C. o del 58 a.C.) e fossero considerati una pactio contra fidem veritatis (Ps. Asc. in Verr. 2.1.36.91), da ritenersi estranei al diritto comune di tutti gli uomini (ius gentium) ed espressione esclusiva di un ius peregrinorum (Gai. 3. 133)[43].

La iurisdictio peregrina di grandi governatori romani, come Quinto Mucio Scevola in Asia, al più tardi nel 94 a.C., e Cicerone in Cilicia nel 51 a.C., si mostrerà coerente a questa concezione tipicamente romana, rigorosa nel combattere il fenebre malum, anche quando a praticarlo siano i pubblicani romani contro le città straniere libere d’oriente, sancendosi negli editti provinciali il rispetto inderogabile del principio di buona fede anche nei negozi finanziari tipicamente stranieri, come appunto le syngraphae (Cic. ad Att. VI.1.60)[44].

         

 

6. – Per una critica del modello moderno dell’obbligazione d’interessi

 

Il modello dell’obbligazione come rapporto giuridico di natura esclusivamente patrimoniale caratterizzato dalla diseguaglianza tra creditore e debitore è una distorsione concettuale dovuta all’occhiale da cui Savigny guardava all’obbligazione in termini quantitativi e come forma passiva di estensione di un presunto ‘potere’ del creditore sulla singola prestazione del debitore. La stessa valorizzazione della condemnatio pecuniaria del processo civile classico come elemento caratterizzante la necessaria patrimonialità delle conseguenze dell’inadempimento dell’obbligazione è, in Savigny, funzionale alla costruzione dell’obbligazione borgese, superando i rigidi meccanismi coercitivi del diritto prussiano. Non è casuale che Karl Marx colga nell’operazione pandettistica la realizzazione definitiva di una materializzazione in capitale monetario di ogni tipo di rapporto tra gli esseri umani[45].

La carica ideologica dell’attrazione del debito d’interessi nella struttura dell’obbligazione pecuniaria si svela quindi come espressione per così dire pura della concezione moderna dell’obbligazione tout court.

Nel giuridico contemporaneo, funzionale a dare veste all’immagine economica dell’obbligazione d’interessi quale reddito del capitale monetario è la sua configurazione astratta quale particolare tipo di obbligazione pecuniaria. In tale attrazione, infatti, si nasconde l’artificio che nasconde nelle forme giuridiche contemporanee l’ideologia economica dell’interesse pecuniario quale frutto del capitale. In tale maniera, la scienza giuridica realizza una saldatura tra forma economica del capitale finanziario e forma giuridica dell’obbligazione d’interessi quale obbligazione pecuniaria, funzionale agli attuali meccanismi economici operanti nei mercati finanziari mondiali.

Al contrario, va valorizzata una lettura profonda della realtà specifica dell’obbligazione d’interessi, che non può essere sic et simpliciter attratta nel genus dell’obbligazione pecuniaria, salvo non cancellarne la necessaria eccezionale natura causale accessoria, data l’innaturalità del denaro a produrre nuova ricchezza. Il denaro, infatti, a differenza della terra, non è di per sé un bene produttivo e di conseguenza va esclusa una sua naturale capacità generativa di profitto, recuperando così, anche nelle società contemporanee, la vera destinazione del denaro, oltre che come mezzo di scambio, anche come strumento di investimento in beni produttivi.

L’obbligazione d’interessi non è una semplice obbligazione pecuniaria, come l’obbligazione di restituzione della somma principale, ma è al contrario un’obbligazione avente ad oggetto una particolarissima somma di denaro, l’interesse, che è tipizzata sulla sua causa accessoria, funzionalmente collegata ad un prestito di denaro. Non è casuale, infatti, che si debba stabilire per gli interessi, pur in un diritto che li consideri frutti civili, una regola di acquisto diversa dai frutti naturali, in quanto se ne fissa la ragione fondativa nel perfezionamento dell’unità temporale della giornata (“giorno per giorno”; art. 821 – 3 del Cod. civ. it.), scelta di politica del diritto a favore del creditore, è ciò in quanto gli interessi di natura corrispettiva si giustificano esclusivamente in base al tempo di godimento del denaro prestato.

Coerentemente a tale configurazione contemporanea degli interessi, sono accessori al credito soltanto quelli che ancora devono scadere e non quelli già scaduti (art. 1263 – 3 Cod. civ. it.).

La prospettiva moderna, che considera l’obbligazione d’interessi quale una specie dell’obbligazione pecuniaria, è portata a sciogliere il suo legame causale con l’obbligazione di restituzione della somma principale.         In realtà, elementi di resistenza sono ancora visibili nel dato normativo dei moderni codici civili: e questo è vero anche in caso di unicità della fonte che la fa sorgere (come accade, a differenza del diritto romano, nella odierna configurazione del contratto di mutuo; art. 1815 Cod. civ. it.), in quanto l’unicità della fonte non cancella il legame funzionale differenziato delle somme dovute (come somme capitali e come interessi)[46]. Ciò è evidente sia nel regime dei limiti di liceità dell’obbligazione d’interessi (gli interessi usurari, pur se previsti negozialmente, non sono dovuti nella loro interezza, e non sono nemmeno riconducibili al tasso legale; art. 1815 – 2 Cod. civ. it.); sia in quello della forma che l’obbligazione d’interessi superiori al tasso legale deve assumere, scritta ad substantiam, pena la nullità della clausola, e loro automatico riadeguamento al tasso legale (art. 1284 – 3 Cod. civ. it.); sia in caso di mora, in quanto, a differenza delle altre obbligazioni pecuniarie liquide ed esigibili, per le quali si stabilisce che esse producono “interessi di pieno diritto” (art. 1282 –  1 Cod. civ. it.), l’obbligazione d’interessi, pur se liquida ed esigibile, non li produce (divieto di anatocismo)[47], se non dalla domanda giudiziale o da una convenzione posteriore alla loro scadenza (art. 1283 Cod. civ. it.).

Ciò non toglie che la tendenza sempre più marcata di considerare l’obbligazione d’interessi di per sé giustificata e solo una particolare forma di obbligazione pecuniaria, determina una forte astrazione dello schema giuridico.

Al contrario, la prospettiva concreta romana è maggiormente adeguata a cogliere la natura specifica dell’obbligazione d’interessi, dovendosi riconoscere alla stessa un proprio statuto giuridico, che non può venire oscurato dalla sua attrazione nell’ampio genere dell’obbligazione pecuniaria.

Tale constatazione rivela la radice profonda e l’importanza ancora attuale del distinguo dogmatico che i giuristi romani, con concretezza rispetto all’astrazione del diritto privato moderno, realizzano tra pecunia e usura, affermando il principio di civiltà giuridica che usura pecuniae in fructu non est.

 

 

Abstract

 

The paper aims to discover the ideological roots of the contemporary meaning of the interest debt. The interest debt is not a simple pecuniary obligation, such as the obligation to repay the principal sum, but on the contrary it is an obligation concerning a very special sum of money, the interest, which is typified on its ancillary cause , functionally linked to a loan of money. The modern perspective, which considers the obligation of interest as a sort of pecuniary obligation, is aimed at dissolving its causal link with the obligation to repay the principal sum. On the contrary, the concrete Roman perspective is more adequate to grasp the specific nature of the obligation of interest. This reveals the deep root and the still current importance of the dogmatic distinction that Roman jurists, concretely with respect to the abstraction of modern private law, realize between money and interest, affirming the principle of juridical civilization that interest is not a fruit (usura in fructu non est).

 

Il lavoro si propone di svelare la carica ideologica della moderna concezione dell’obbligazione di interessi. L’obbligazione d’interessi non è una semplice obbligazione pecuniaria, come l’obbligazione di restituzione della somma principale, ma è al contrario un’obbligazione avente ad oggetto una particolarissima somma di denaro, l’interesse, che è tipizzata sulla sua causa accessoria, funzionalmente collegata ad un prestito di denaro. La prospettiva moderna, che considera l’obbligazione d’interessi quale una specie dell’obbligazione pecuniaria, è portata a sciogliere il suo legame causale con l’obbligazione di restituzione della somma principale. Al contrario, la prospettiva concreta romana è maggiormente adeguata a cogliere la natura specifica dell’obbligazione d’interessi. Ciò rivela la radice profonda e l’importanza ancora attuale del distinguo dogmatico che i giuristi romani, con concretezza rispetto all’astrazione del diritto privato moderno, realizzano tra pecunia e usura, affermando il principio di civiltà giuridica che usura pecuniae in fructu non est.

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dai promotori del Seminario “Contro l’usurocrazia ”, dal curatore della pubblicazione e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

* Relazione presentata nel Seminario di studi "CONTRO L’USUROCRAZIA. DEBITO E DISUGUAGLIANZE", organizzato dall’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Sapienza Università di Roma, diretta dal professore Pierangelo Catalano, e dal CEISAL - Consejo Europeo de Investigaciones Sociales de América Latina, Grupo de Trabajo de Jurisprudencia, svoltosi presso la Biblioteca Centrale del CNR il 15 dicembre 2017, in occasione del XX Anniversario della “Carta di Sant’Agata de’ Goti – Dichiarazione su usura e debito internazionale”.

 

[1] Per l’attrazione dell’obbligazione di interessi nel genus dell’obbligazione pecuniaria, vd. E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie, in Trattato di diritto privato, dir. da P. Rescigno, 9, Torino 1999, 519 ss., che evidenzia come nel Codice civile italiano del 1942, sebbene l’obbligazione di interessi sia stata codificata quale specie dell’obbligazione pecuniaria, la funzione moderna del denaro quale capitale tarda “a trovare un’adeguata sistemazione giuridica” (p. 640). 

[2] Usura quale derivato da utor, evidenzia come anche nel significato latino si colga il fatto che il denaro così qualificato era quel denaro corrispettivo di un uso futuro della somma prestata. Vd. A. Walde – J. B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 1954, 3a ed., II, 847; A Ernout- A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., Paris 1979, 758. Cfr. altresì Varr. de  lingua Latina 5.36:… quae cum non accederet ad sortem usu, usura dicta… Ciò però non ha mai portato alla confusione tra la pecunia e l’usura.

[3] Mi sembra al riguardo molto calzante per la stipulatio usurarum quanto E. Betti, Typenzwang bei den römischen Rechtsgeschäften und die sog. Typenfreiheit des heutigen Rechts, in Festschr. L. Wenger, München 1944, 249 ss., in particolare 253 [= La tipicità dei negozi giuridici romani e la cd. atipicità del diritto attuale, in AUMA, 1966, I, 7 ss., in particolare 12], ha evidenziato rispetto all’essenza della forma della stipulatio in generale, ove la necessità di un’espressa risposta del futuro debitore è considerata «adattissima per il costituirsi di un rapporto di debito».

[4] Sulla costruzione da Savigny in poi di una obbligazione dei moderni, da contrapporre a quella romana, mi si permetta di rinviare al mio ‘Damnatio’ e ‘oportere’ nell’obbligazione, Napoli 2016, 3 ss.

[5] C.F. Grosso, Usura (dir.pen.), in Enc. del Dir. XLV, Milano 1992, 1142 ss.

[6] Giova ricordare che nel Codice Penale c.d. Zanardelli del 1889, l’usura non era stata nemmeno prevista quale reato.

[7] Per i limiti concettuali della prospettiva contemporanea vd. ora, esattamente, F. Piraino, Usura e interessi, in G. D’Amico, S. Pagliantini, F. Piraino e U. Salanitro, Gli interessi usurari: quattro voci su un tema controverso, Torino 2016, 107 ss.

[8] Per una ricostruzione sul piano della storia delle idee della utilizzazione della categoria dei frutti civili per dare veste giuridica agli interessi quali reddito di capitale, vd. C. M. Mazzoni, Frutti civili e interessi di capitale, Milano, 1985, 1 ss., ove l’accentuazione del ruolo di Turgot sul pensiero giuridico postrivoluzionario, 19-25; per una diversa valutazione storica dell’irrilevanza del pensiero di Turgot in materia, vd. però, A. Bürge, ‘Liberté du commerce’ im Brennpunkt der französischen Revolution: vom Merkantilismus zum Liberalismus, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 59, 1991, 111-137.

[9] Sulla natura accessoria dell’obbligazione di interessi, vd. E. Quadri, Le obbligazioni pecuniarie cit., 644 ss., in cui si menziona anche la discussione sulla limitazione della accessorietà al momento genetico, valutazione ideologicamente orientata se applicata ad un’obbligazione di durata, nella quale ben si potrà avere l’estinzione anticipata delle somme principali e quindi il venire meno della ragione fondante degli interessi maturandi nel periodo successivo all’estinzione del debito principale. Sull’importanza del collegamento funzionale tra obbligazione della somma principale e obbligazione d’interessi, al di là della unicità della fonte delle due obbligazioni, vd. infra.

[10] Mi permetto di rimandare per la discussione in dottrina sul punto, al mio ‘Damnatio’ e ‘oportere’ cit., 117 ss.; e ora a Il ‘nexum’ e l’ ‘oportere’ nelle XII Tavole, in AA.VV., XII Tabulae. Testo e commento, a cura di M.F. Cursi, Napoli 2018, I, 401 ss.

[11] Sane vetus Urbi fenebre malum et seditionum discordiarumque creberrima causa, eoque cohibebatur antiquis quoque et minus corruptis moribus. Nam primo duodecim tabulis sanctum ne quis unciario faenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur; dein rogatione tribunicia ad semiuncias redactum; postremo vetita versura. Multisque plebi scitis obviam itum fraudibus, quae, totiens repressae, miras per artes rursum oriebantur.

[12] Cat. De agri cult. Praef. I: Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt, furem dupli condemnari, feneratorem quadrupli; quanto peiorem civem existimarent feneratorem quam furem, hinc licet existimare.

[13] Le fonti tardo-repubblicane e di inizio principato segnalano un duplice collegamento della parola nexum con la Legge delle XII Tavole, più in particolare con tab. 6.1 e con tab. 1.5 secondo l’ipotetica ricostruzione moderna dell’ordine delle stesse. Sulla ponderazione critica delle moderne ricostruzioni dell’ordine delle XII Tavole, fondamentale O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992.

[14] Fest. de verb. sign. (Lindsay 426):  18 evitandam. <Sanates quasi sana->/19 ti appelat<i> .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /20 Sulpicius    .  .   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  /21 et Opillus <Aurelius>   .  .  .  .  .  .  .  . /22 dici inferio  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /23 ut Tiburtes .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /24 populo Tibur<ti> .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  /25 Tiburti, idem .  .  .  .  .  .  .  .  . <infe-> /26 riorisque loci .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /27 in XII : Nex<i>   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /28 forti sanatid   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /29 id est bonor<um> .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /30 qui et inf  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /31 que sunt  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . <pris-> /32 cos Latinos .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /33 egerit secundum .  .  .  .  .  .  .  .  .<in-> /34 fra Romam in e .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  ./ 35 eosque sanati  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . /(Lindsay 428):            1 praeter opinione<em>.  .  .  .  .  .  .  .  . /2 set sanavisse<t>q<ue>  .  .  .  .  .  .  .  . / 3 cisci potuisset no .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . / 4 Cincius lib. II de <officio iuriscon-> / 5 sulti. Ne Valerius <quidem Messala> / 6 in XII. explana-tion<e> .  .  .  .  .  .  .  .  .  . / 7 men in eo libro, quem   .  .  .  .  .  .  .  .  .  . / 8 volute inscribi, forc .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . / 9 duas gentis finitimas   .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . / 10 .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . <l>egem  hanc scrip- /11 <tam>  .  .  .  .  .  .  .  .  .  n ut id ius man- /12 <cipii nexique quod populu>s Romanus haberent. /13 .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  . <fo>rctos et sana- /14 <tes> .  .  .  .  .  .  .  .  .  <sig>nificare exis- /15 .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  atu. Multi sunt /16 .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .   placui displi- /17 <c> .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  ut sant forcti /18 .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .<s>anati insani.

Fest. de verb. sign. (Lindsay 474.22 ): Sanates dicti sunt, qui supra infraque Romam habitaverunt. Quod nomen his fuit, quia cum defecisse<n>t a Romanis, brevi post redierunt in amicitiam, quasi sanata mente. Itaque in XII cautum est, ut idem iuris esset Sanatibus quod Forctibus, id est bonis, et qui num[quam] defecerant a populo Romano.

[15] F. Bona, Contributo allo studio della composizione del ‘de verborum significatu’ di Verrio Flacco, Napoli 1964, 52-53; così anche R. Fiori, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel ‘de off.’ di Cicerone, Napoli 2011, 110 n. 228.

[16] F. Serrao, Diritto privato economia e società, 3a ed., Napoli 2006, 252 e n. 19. Per un’accentuazione del rapporto forctes – boni vd., R. Fiori, Bonus vir cit., 2011, 109-110, il quale ipotizza «a titolo meramente congetturale, che la mancipatio del filius o il nexum determinassero nella persona oggetto del negozio una qualche diminuzione di status, che una volta liberato questo divenisse sanas, ossia ‘sanato’, in opposizione a quanti non avevano subito la mancipatio e perciò erano detti fortes o boni, e che infine le XII tavole abbiano poi parificato, in prospettiva filo-plebea, i sanates ai forctes» (111 n. 229).

[17] Sul punto vd. gli approfondimenti di P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 111-115 e 124-125, il quale mi sembra comunque propendere per una considerazione della distinzione forctes – sanates quale interna alla civitas o al massimo interna ai Latini foederati, piuttosto che propria dei peregrini. R. Fiori, Bonus vir cit., 110-111 n. 229 sottolinea come la lettura tesa a riconoscere la rilevanza della distinzione non sia tanto espressione di una concessione di commercium a popolazioni limitrofe, quanto ad una distinzione arcaica interna a categorie di cives, ipotesi che potrebbe essere ulteriormente avvalorata dalla constatazione che l’elenco di Aulo Gellio (noct. Att. 16.10.8) sia fatto all’interno di un contesto processuale proprio delle legis actiones.

[18] Varr. De ling. Lat. VII.105 (Goetz-Schoell): In Colace ‘nexum’ Manilius scribit, omne quod per libram et aes geritur, in quo sint mancipia. Mucius, quae per aes et libram fiant ut oblige[n]tur, praeter quom mancipio dentur. hoc verius esse ipsum verbum ostendit, de quo qu<a>erit: nam id <a>es[t] quod obligatur per libram neque suum fit, inde nexum dictum. liber qui suas operas in servitutem pro pecunia quam debebat, dum solveret, nexus vocatur, ut ab aere obaeratus. hoc C. Poetelio Libone Visolo dictatore sublatum ne fieret, et omnes qui bonam copiam iurarunt, ne essent nexi, dissoluti.

[19] Sull’importanza del quasi pretii loco gaiano vd. ora G. Nicosia, Quasi pretii loco, in Iura 60, 2012, 1 ss., in particolare 11-15.

[20] Nexum est, ut ait Gallus Aelius, quodcumque per aes et libram geritur: id quod necti dicitur. Quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi liberatio. Sulla logica di corrispondenza propria dell’actus contrarius, vd. per tutti R. Marini, Contrarius consensus, Milano 2017, 40-43.

[21] Est et alia species imaginariae solutionis, per aes et libram; quod et ipsum genus certis ex causis receptum est, ueluti si quid eo nomine debeatur, quod per aes et libram gestum sit, siue quid ex iudicati causa debeatur.

[22] Sul punto vd. esattamente R. Marini, Contrarius consensus cit., 40-43.

[23] Fondamentale F. Gallo, ‘Potestas’ e ‘dominium’ nell’esperienza giuridica romana, in Labeo 16, 1970, 17 ss., in particolare 46-51.

[24] Puntualmente R. Fiori, Servire servitutem, in Iuris vincula. Studi in onore M. Talamanca, III, 2001, 354 ss., in particolare 394 ss. e Idem, Bonus vir cit., 111 n. 229. 

[25] R. Fiori, Servire servitutem cit., 394 ss.

[26] La scorrettezza sintattica, che impone la caduta di un verbo per la relativa introdotta dal qui, ha condizionato alcune proposte di integrazione; quella forse meno invasiva e che risulta maggiormente coerente alle tecniche di copia potrebbe essere quella che emerge dal codice perduto B, utilizzato nell’editio vulgata di Antonius Augustinus del 1557, che propone al posto del [debebat] <debeat dat>.

[27] Tac. ann. VI.16.1-2: Interea magna vis accusatorum in eos inrupit qui pecunias faenore auctitabant adversum legem dictatris Caesaris, qua de modo credendi possidendique intra Italiam cavetur, omissam olim, quia privato usui bonum publicum postponitur. Sane vetus Urbi fenebre malum et seditionum discordiarumque creberrima causa, eoque cohibebatur antiquis quoque et minus corruptis moribus. Nam primo duodecim tabulis sanctum ne quis unciario faenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur; dein rogatione tribunicia ad semiuncias redactum; postremo vetita versura. Multisque plebi scitis obviam itum fraudibus, quae, totiens repressae, miras per artes rursum oriebantur.

[28] In verità il dibattito sul limite dell’oncia è ancora vivo, orientandosi una parte della dottrina a ritenere, presupponendosi in origine soltanto prestiti di derrate alimentari, che l’unità temporale di misurazione della liceità del fenus sia il mese, venendosi così a determinare un tasso di interesse del 100% annuo, mentre un’altra parte della dottrina ritiene, invece, che l’oncia sia annuale, così da concretizzarsi in un tasso di interesse dell’8,33% annuo. La mia propensione verso la seconda interpretazione è data dal fatto che altrimenti il limite della semioncia sarebbe incomprensibile, come lucidamente indica lo stesso F. De Martino, Riforme del IV secolo a.C., in BIDR LXXVIII, 1975, 39 ss., in particolare 53, autore che sostiene la prima tesi.

[29] Ius est ars boni et aequi. Sulla contrapposizione tra concezione romana (sostanziale e dinamica) e concezione moderna (formale e statica) del diritto vd. F. Gallo, Celso e Kelsen. Per la rifondazione della scienza giuridica, Torino 2010.

[30] Per i problemi complessi relativi alla definizione dello svolgimento storico qui sommariamente richiamato, mi permetto di rimandare per la bibliografia più antica al mio ‘Leges fenebres’, ‘ius civile’ ed ‘indebitamento della plebe: a proposito di Tac. Ann. 6.16.1-2, in Diritto @ Storia, 7, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Cardilli-Plebiscita-leges-antiusura.htm > [=Studi in onore di A. Metro, I, Milano, 2009, 377-397], a cui adde L. Solidoro, Tassi usurari e giurisdizione, in Diritto @ Storia, 7, 2008 < http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Solidoro-Tassi-usurari-giurisdizione.htm >. Il tema è riesaminato ora in P. Capone, Unciaria lex, Napoli 2012; A.D. Manfredini, Rimetti a noi i nostri debiti, Bologna 2013, 21-66; A. Arnese, Usura e modus. Il problema del sovraindebitamento dal mondo antico all’attualità, Bari, 2013; L. Parenti, Il regime degli interessi, in AA.VV., XII Tabulae. Testo e commento, a cura di M. F. Cursi, Napoli 2018, II, 647 ss.

[31] Fondamentale F. Serrao, Diritto privato economia e società cit., 172-190 e 352.

[32] Vd. per approfondimenti il mio ‘Damnatio’ e ‘oportere’ nella obbligazione, cit., 117-145.

[33] Il sistema aperto delle cause diverse dalla sponsio, per le quali i pontefici ritengono configurabile un certum dare oportere (B. Kupisch, Ungerechtfertigte Bereicherung, Heidelberg 1987, 3; A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’. Dalla ‘condictio’ dei ‘veteres’ alle ‘condictiones’ giustinianee, Milano 2002, 51 ss.) evidenzia, nelle fonti più tarde, una dogmatica costruita sul ruolo centrale della datio (M. Talamanca, Obbligazioni (dir. rom.), in Enc. Dir. 29, 1979, 1 ss., in particolare 13 e 13 n. 80.) in cui, per la prima volta, la propensione dei giuristi romani ad orientarsi verso la tipicità causale affianca, senza soppiantarlo, il principio della forma. L’avvenuta datio informale faceva sorgere il dare oportere in capo all’accipiens, senza la necessità di vestire formalmente il negozio di prestito in chiave di oportere ex sponsione o di nexum. La datio informale, cioè, diventa l’atto giuridico idoneo a produrre una certum dare oportere del tantundem.

[34] Va al riguardo evidenziato, come la centralità della datio trova un sicuro appiglio nella struttura arcaica del nexum sopra vista. La corrispondenza formale del rito tra mancipatio, nexum e solutio per aes et libram, infatti, se da un lato non impedisce di cogliere tra i tre gesta la differente funzione (vendita a contanti il primo, prestito formale di danaro il secondo, liberazione da una condizione di responsabilità in atto il terzo), d’altro lato indica, dopo la pesatura del bronzo, come sicuro momento formale originario la effettiva datio del bronzo tra i due patres familias, sia dell’aes-pretium nella mancipatio, sia del nexum aes nel nexum, sia dell’aes ‘dovuto’ nella solutio. Il dato è confermato da quanto sappiamo del rispetto della formalità della datio raudusculi quando i gesta per aes et libram assumono la funzione di imaginaria venditio la mancipatio e di imaginaria solutio la solutio per aes et libram (Gai. 1.119: deinde aere percutit libram idque aes dat ei a quo mancipio accipit quasi pretii loco; Gai. 3.174: deinde asse percutit libram eumque dat ei a quo liberatur, veluti solvendi causa). L’essenzialità della datio riconosciuta nelle formalità dei gesta per aes et libram, nei quali ben poteva essere superata una volta che essi assunsero un valore di imago sine re della funzione economico-sociale con essi perseguita, non può che essere un fossile dell’arcaico regime di tali atti. Era la datio il momento conclusivo del rito, al quale la comunità riconosceva l’effetto tipico del gestum (costituzione di un meum esse ex iure Quiritium sulla res o sulla persona nella mancipatio e scioglimento e liberazione nella solutio).  È chiaro che al di fuori della forma del gestum per aes et libram, il momento vincolante della datio tra i due patres familias pone nuovi problemi connessi alla perdita della natura pubblicistica del negozio compiuto, determinandosi la necessità di chiarire gli scopi negoziali della datio che nel gestum per aes et libram erano plasticamente scolpiti nei verba pronunciati. 

[35] Lo schema giuridico del dare oportere espande la sua valenza nei mutui informali sicuramente dal IV-III sec. a.C. Ne è prova la notizia di Gai. 4.17b =PSI 1182. M. Kaser, Das römische Privatrecht, München 19712, I, 170-171; sulla collocazione storica della legis actio per condictionem vd. M. Kaser -  K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, 2a ed., München 1996, 111-113; A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’ cit., 12 ss.; G. Nicosia, La ‘legis actio per condictionem’ e la novità dell’intervallo dei trenta giorni, in AUPA LIII, 2009, 55 ss.

[36] Fondamentale C.A. Cannata, La ‘distinctio’ re-verbis-litteris-consensu et les problèmes de la pratique, in Sein und Werden im Recht. Festg. U. von Lübtow, Berlin 1970, 439 ss.

[37] Secondo M. Talamanca, Il riordinamento augusteo del processo privato, in AA.VV., Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale, a cura di F. Milazzo, Napoli 1999, 63 ss., in particolare 168 n. 404 (continua da p. 167): «Allorché, con la lex Silia, dall’agere sacramento si distacca, ancora una volta mediante la soppressione del sacramento provocare, l’agere per condictionem per quanto riguarda le actiones certi, risultava del tutto naturale riferirsi soltanto all’oggetto della pretesa e dell’actio certi, senza individuare le singole fattispecie da cui la pretesa stessa sorgeva; né ciò poteva creare difficoltà in ordine al collegamento di questa legis actio, in quanto specialis, con la lex che la concedeva, perché esso era sufficientemente garentito dall’indicazione della certa pecunia e della certa res, per le quali si agiva».

[38] Sul rapporto tra fides e credere vd. ora R. Fiori, Fides e bona fides. Gerarchia sociale e categorie giuridiche, in AA.VV., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 3, Napoli 2008, 237 ss.; Idem, Bona fides. Formazione, esecuzione e interpretazione del contratto nella tradizione civilistica, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 4, Napoli 2011, 97 ss., in particolare 101-106.

[39] La specificità causale è confermata anche in caso di unicità dell’atto costitutivo (un’unica stipulatio) della restituzione della somma prestata più le usurae; si vd. D. 45.1.75.9 Ulpianus 22 ad ed.: Qui sortem stipulatur et usuras quascumque, certum et incertum stipulatus videtur et tot stipulationes sunt, quot res sunt.

[40] Da qui la necessaria imputazione delle usurae indebite pagate nel valore del debitum sortis: D. 46.3.102.3 Scaev., l. 5 resp.: Titius mutuam pecuniam accepit et quincunces usuras spopondit easque paucis annis solvit: postea nullo pacto interveniente per errorem et ignorantiam semisses usuras solvit: quaero, an patefacto errore id, quod amplius usurarum nomine solutum esset quam in stipulatum deductum, sortem minueret. respondit, si errore plus in usuris solvisset quam deberet, habendam rationem in sortem eius quod amplius solutum est. D. 12.6.26 pr. Ulp. l. 26 ad ed.: Si non sortem quis, sed usuras indebitas solvit, repetere non poterit, si sortis debitae solvit: sed si supra legitimum modum solvit, divus Severus rescripsit (quo iure utimur) repeti quidem non posse, sed sorti imputandum et, si postea sortem solvit, sortem quasi indebitam repeti posse. proinde et si ante sors fuerit soluta, usurae supra legitimum modum solutae quasi sors indebita repetuntur. quid si simul solverit? poterit dici et tunc repetitionem locum habere.

[41] Trad. in it.: L’usura del denaro, che abbiamo percepito, non è frutto, perché non deriva dal medesimo corpo, ma da un’altra causa, cioè da una nuova obbligazione.

[42] Sul passo, e la discussione della bibliografia sullo stesso, rimando ai miei Dalla regola romana dell’usura pecuniae in fructu non est agli interessi pecuniari come frutti civili nei moderni codici civili, in Roma e America. Diritto romano comune 5, 1998, 3 ss.; e La nozione giuridica di fructus, Napoli 2000, 100 ss.; sul testo si vd., ora, E. Stolfi, Commento ai testi, in J. L. Ferrary, A. Schiavone e E. Stolfi, Quintus Mucius Scaevola Opera, Roma, 2018, 239-241.

[43] Per un approfondimento di questi problemi mi si permetta di rimandare al mio ‘Bona fides’ tra storia e sistema, 3a ed., Torino 2014, 39-40, anche per il richiamo della bibliografia sul punto.

[44] Per evitare appesantimenti bibliografici rimando al mio ‘Bona fides’ tra storia e sistema cit., 31-57, dove il richiamo alla discussione sulla complessa testimonianza ciceroniana.

[45] F. Wieacker, Pandektenwissenschaft und industrielle Revolution, in Juristen-Jahrbuch 9, 1968/1969, 1 ss., in particolare 8 e n. 15.

[46] Puntuale sul punto O.T. Scozzafava, Gli interessi monetari, Napoli 1984, 167.

[47] Sull’anatocismo nel diritto romano vd. F. Fasolino,  Studi sulle ‘usurae’, Salerno 2006, 13 ss.