Università di Sassari
Cicerone e la “segretezza” della
giurisprudenza pontificale
Sommario: 1.
Premessa. – 2. Ruolo dei pontefici nel pensiero religioso di Cicerone. – 3. Cicerone e il diritto
pontificale absconditus. – 4. Pubblicizzazione dell’interpretatio pontificale: l’opera di consulenza. – 5. ...
etsi effluunt multa ex vestra disciplina
quae etiam ad nostras aures saepe permanant (Cicero, De dom. 121): alcuni esempi (con motivazione esplicita) di
esternazioni della interpretatio
pontificale. – 6. Ruolo (e limiti) della
segretezza nella religio Romana. – 7. Motivazioni
religiose alla base della segretezza del ius
pontificium. – Abstract.
La segretezza della iurisprudentia
pontificale, attestata specialmente nell’opera ciceroniana, è un
dato che, per quanto frequentato in letteratura, presenta ancora alcuni aspetti
problematici. La presente indagine non può dare conto di tutti gli
svariati ambiti dell’esperienza giuridica romana in cui il
“segreto” rappresentò una realtà onnipresente[1], ma si propone di investigare
il fenomeno alla luce della religio,
in virtù del fatto che i Romani, al contrario dei “moderni”,
non separarono mai in modo netto il fas dal
ius, come è attestato, in
particolare, dalla tripartizione ulpianea del diritto pubblico[2]. Sulla base di questa
prospettiva, si vuole dimostrare come la segretezza della giurisprudenza
pontificale in Roma antica fosse di importanza fondamentale, poiché
funzionale alla persistenza della pax
deorum, ovvero il pacifico legame del Popolo Romano con gli dèi[3].
I Romani, infatti, non intendevano in termini esclusivisti il loro rapporto con
le divinità, le quali potevano sostenere anche altre civitates; per questo essi apprestarono strumenti
cautelari controllati dai pontefici, tanto da ritenersi il popolo maggiormente
distintosi nel rispetto della religio[4]. I segreti intercorrenti nella vita religiosa della civitas erano espressione di tale
concezione, in quanto tesi a evitare
incaute letture delle formule religiose, atte a scatenare l’ira divina, e
a impedire, al contempo, che importanti riti cadessero in mani
“nemiche”, decretando, così, l’abbandono
dell’Urbe da parte dei numi tutelari (vedi infra §§ 6 s.).
Come noto, tale modalità con cui il collegio dei pontefici
operava è collegata dagli storici del diritto, in modo quasi corale, al
fenomeno del cosiddetto monopolio pontificale della giurisprudenza in Roma
arcaica[5];
anzi, puntualmente si è ipotizzato «che il monopolio pontificale
sia stato in un certo senso garantito per lungo tempo, anche dopo
l’instaurarsi del regime repubblicano, proprio dalla trasmissione
‘segretata’, all’interno del collegio dei Pontefici, delle
regole cautelari e processuali in cui si condensava il ‘sapere giuridico’»[6].
Fonte principale per la teoria del monopolio pontificale del
diritto è la celeberrima tradizione confluita nel liber singularis enchiridii[7] di Sesto Pomponio[8]. Il giurista adrianeo,
ovviamente, non parla in termini di monopolio, ma attribuisce ai pontefici
l’interpretandi scientia del ius civile e la competenza in materia di
azioni[9]. Pomponio, dunque, si
riferisce esclusivamente a uno specifico settore del diritto (senza escludere
apertamente l’interpretazione giuridica posta in essere dagli altri sacerdotes populi Romani[10]),
descrivendo il momento in cui i pontefici erano i referenti istituzionali
dell’interpretatio del ius civile.
Il quadro che ne emerge è da porre in connessione con quanto affermato
da Valerio Massimo per cui il ius civile
fu nascosto per multa saecula inter sacra
caerimoniasque deorum inmortalium, e conosciuto soltanto dai pontefici[11].
A cavallo tra il IV e il III sec. a.C., singoli giuristi
iniziarono a fornire i loro responsa
staccandosi dalle logiche interne dei collegi sacerdotali:
«l’immagine del sacerdote sapiente come protagonista della
produzione del ius comincia a
sbiadirsi, se non proprio a svanire, e prende il suo posto quella del nobile
sapiente»[12].
Nonostante l’avvento di una giurisprudenza “laica”[13], frutto di riflessione
meramente individuale, i pontefici, in seno al collegium, continuarono a
operare conformemente alle logiche e alle metodologie tradizionali, e, come
emerge dalle testimonianze antiche, a serbare segretamente la loro scienza.
Al tempo di Cicerone, il fas,
ormai già da tempo, aveva acquistato autonomia concettuale rispetto al ius[14], sebbene persistesse uno stretto
collegamento, mai dissolto, tra il diritto sacro e gli istituti inerenti a
interessi privati. Tale connessione, tuttavia, è sminuita dall’oratore:
nel secondo libro del De legibus[15], infatti, egli afferma che i
pontefici si occupavano di quelle parti del ius
civile soltanto quando queste erano strumentali ai loro affari religiosi,
ovvero, sacra, vota, feriae, sepulcra, e materie simili[16]. Così, al fine di
affermare l’autonomia acquisita dal ius
civile rispetto al ius pontificium[17], Cicerone riduce quanto
espresso da Publio Mucio Scevola[18],
per cui era indispensabile, per un
buon pontefice, conoscere il ius civile[19].
Cicerone, oltre ad affermare nel De legibus un mero ricorso di tipo strumentale del ius civile da parte dei pontifices, in un certo qual modo
sottintendendo una distinzione tra i sacerdoti e i giuristi
“laici”, in altri luoghi pone come ulteriore discriminante tra le
“due” giurisprudenze proprio la segretezza con cui il collegio
operava ancora durante la sua epoca. L’oratore, tuttavia, non esplicita
quale fosse il contenuto e quali cause e ideologie sussistessero alla base
della segretezza della scienza pontificale; far luce su tali questioni è
il proposito del presente studio. Come sottolineava, infatti, Riccardo
Orestano, nel suo pregnante saggio dedicato alla “problematica del
segreto” in Roma antica, in molti “arcani” «il
‘segreto’ copre non quanto si fa (ché anzi può esser
destinato a venire immediatamente conosciuto), ma come e perché lo si
fa»[20].
Cicerone[21] tratta dei pontifices[22] in numerose occasioni, sottolineando l’importanza
dell’attività di questi sacerdoti. Il collegium pontificum possedeva una competenza
omnicomprensiva sul culto di ogni divinità[23], e il suo operato era teso
al corretto svolgimento e alla conservazione di tutte le cerimonie sacre[24].
L’oratore, da profondo conoscitore della religione[25],
offre preziose informazioni intorno alla centralità dei riti nel sistema
costituzionale romano. Nella sua opera si legge che la religio del Popolo Romano si articolava in sacra, auspicia, e in un
terzo elemento, affiancato ai primi due, derivato dai moniti degli interpreti
della Sibilla e degli aruspici[26]:
non è un caso che le cerimonie sacre siano citate per prime. Egli ne
evidenzia, inoltre, la peculiarità precisando che la religio è cultus
deorum[27]. Questa specificità della
religione romana rendeva il controllo
pontificale dei sacra necessario per
la sopravvivenza del Populus Romanus,
poiché le cerimonie dovevano compiersi con estrema precisione, al fine
di conservare il rapporto pacifico
instaurato tra i cittadini Romani e gli dèi.
La presenza ossessiva del sacro, propria della civitas Romana, giustificava, dunque, la
preminenza dell’operato pontificale. Il rilievo dei sacerdoti è
sottolineato da Cicerone quando parla della diligentia
impiegata dai pontefici per difendere l’Urbs attraverso la religione[28]. Si deve, infatti,
concordare con Danielle Porte, per cui l’attenzione prestata dai pontifices «avec laquelle ils
suivent de près, dans tous les domaines, la bonne santé
religieuse de Rome, nous montrent en eux des gardiens du sacré,
occupés à conserver à la figure morale de l’Vrbs sa vieille et sévère
image»[29].
L’oratore, inoltre, ricorda come, in passato, alcuni
pontefici-giuristi di acclarata sapienza furono i referenti de omnibus divinis atque humanis rebus[30],
evidenziandone, quindi, le profonde e onnicomprensive conoscenze[31], da evocare come rilevante exemplum[32].
Il ruolo ricoperto da questi sacerdoti in seno alla civitas è illustrato specialmente
nel discorso De domo sua ad pontifices, pronunciato alla fine di settembre del 57 a.C.[33]. Dopo il rientro in patria,
infatti, Cicerone cercò di ottenere la restituzione dei suoi beni: come
è noto, durante il suo esilio[34],
il suo nemico, il tribuno della plebe P. Clodio Pulcro[35], aveva fatto demolire la sua
casa e, in quell’area, aveva fatto innalzare un tempio, ed erigere una
statua, alla dea Libertas. Viste le
difficoltà e la delicatezza dello spinoso caso, inerente ad aspetti
religiosi come la consecratio[36], il senato aveva rimesso la
questione all’analisi del collegio pontificale (unitamente al flamen Martialis, flamen Quirinalis, e al rex
sacrorum)[37],
il cui decreto fu fondamentale per la soluzione del caso in favore
dell’oratore[38].
Nell’esordio del
discorso, «che si presenta come una fonte attendibilissima, e certo ben
documentata, in tema di ius publicum e di ius pontificium»[39], Cicerone celebra sia le
importanti funzioni del collegio, tese alla tutela dei valori di pubblico e
privato interesse, sia l’eminenza, la cultura e l’autorevolezza dei
singoli componenti[40].
In De dom. 1, Cicerone
collega i pontifices alla libertas[41]: il supremo valore
repubblicano era affidato alla sapientia,
alla fides, e alla potestas dei pontefici, i quali,
attraverso l’interpretazione di ogni aspetto della religio, salvaguardavano la res
publica[42].
Un altro archetipo presente in questa orazione, come in altre
opere ciceroniane, è quello della auctoritas[43], «one of
Cicero’s favourite concepts»[44]. Si tratta di una nozione
complessa[45],
utilizzata dall’oratore per indicare il prestigio e l’influenza dei
pontefici e del loro operato[46]. L’“autorevolezza”
dei pontefici derivava, da un lato, dall’essere sacerdoti scelti tra le
famiglie più importanti[47]; difatti, nell’esordio
oratorio, la locuzione amplissimi et
clarissimi cives, che testimonia l’eminenza dei pontefici, denuncia,
per i termini presenti, una contiguità all’ordine senatorio.
Dall’altro lato, l’auctoritas
pontificale derivava proprio dalla funzione svolta dal collegio, e dalla scientia professata dai suoi membri. Nel
sistema costituzionale romano, dove i sacerdotes
sono parte integrante del ius publicum[48], i pontifices ricoprivano una posizione elevata. Del resto, in
Cicerone, così come in altre fonti, il titolo di pontifex
è accostato, talvolta per primo, a quello degli honores[49], e, inoltre, è
menzionato in atti ufficiali, come dimostrano alcuni disegni di senatoconsulti
riportati dallo stesso oratore[50].
Cicerone, tuttavia, nelle sue opere non risparmia i pontefici da
rilievi negativi sul loro operato. In particolare, in riferimento al delicato
incarico della compositio anni, egli
ricorda come, con il tempo, l’azione dei pontifices si dimostrò “negligente”:
De leg. 2.29: Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta
serventur fetusque pecorum, quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio
intercalandi est; quod institutum perite a Numa posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est.
L’oratore,
così, contrappone la perizia di Numa Pompilio alla negligentia dei pontefici nell’intercalare: si è
quindi ben lontano dalla sapiente opera sacerdotale celebrata in altri luoghi.
La
composizione dell’anno era un compito che richiedeva ampie conoscenze,
poiché il calendario, introdotto da Numa Pompilio[51], doveva adattarsi al ciclo solare con
l’inserimento di un mese intercalare ogni biennio[52]. Questo incarico pontificale era
estremamente delicato[53], in quanto la vita
costituzionale romana ruotava intorno a un calendario «codifié par
des prêtes pour rendre à des dieux de plus en plus nombreux et
personnalisés les honneurs correspondant aux préoccupations saisonnières
des hommes»[54]. Per questo motivo, si può
affermare con F. Bona che il calcolo errato ai fini dell’intercalatio, ricordato con dure
critiche anche da altre fonti[55],
era frutto di un uso politico da parte dei pontefici[56].
La situazione
era talmente incerta, che nel febbraio del 50 a.C., quattro anni prima della
riforma calendariale di Cesare[57],
Cicerone, durante il suo proconsolato in Cilicia, chiese al suo amico Attico se
in quell’anno vi sarebbe stato o meno l’intercalare, al fine di
sapere con precisione quando sarebbero cadute alcune cerimonie[58].
Cicerone, in
diverse occasioni, offre importanti informazioni sulla segretezza della scienza
pontificale: riferisce di questa caratteristica
anche nell’oratio, pronunciata nel 63 a.C., in difesa del
neoeletto console, L. Licinio Murena, il quale, prima di entrare in carica, fu
accusato di corruzione elettorale[59]:
Pro
Mur. 25: Primum dignitas
in tam tenui scientia non potest esse; res enim sunt parvae, prope in singulis
litteris atque interpunctionibus verborum occupatae. Deinde, etiamsi quid apud
maiores nostros fuit in isto studio admirationis, id enuntiatis vestris
mysteriis totum est contemptum et abiectum. Posset agi lege necne pauci quondam
sciebant; fastos enim vulgo non habebant. Erant in magna potentia qui
consulebantur; a quibus etiam dies tamquam a Chaldaeis petebatur. Inventus est
scriba quidam Cn. Flavius qui cornicum oculos confixerit et singulis diebus
discendis fastos populo proposuerit et ab ipsis cautis iuris consultis eorum
sapientiam compilarit. Itaque irati illi, quod sunt veriti ne dierum ratione
pervulgata et cognita sine sua opera lege <agi> posset, verba quaedam
composuerunt ut omnibus in rebus ipsi interessent.
Si tratta, come è noto, di un duro attacco sferrato da
Cicerone all’interpretatio
prudentium, poiché a muovere l’accusa era il giurista,
nonché suo amico[60], Servio Sulpicio Rufo[61], il quale era stato il
diretto concorrente di Murena durante la corsa al consolato. Per difendere il
suo assistito, l’oratore arriva a contraddire le sue stesse convinzioni[62], espresse in particolare in Pro Caecin. 70 [63], dove egli si pronuncia
contro quella parte della collettività avversa ai giuristi[64]. Cicerone, così, in Pro Murena 25, «per ragioni legate
all’occasione retorica, stava cercando di dire dei giuristi tutto il male
possibile. Ma non per questo la sua testimonianza» - evidenzia A.
Schiavone - «ha meno valore: vi ritorna assai netta, la contrapposizione
che ben conosciamo fra un sapere (sapientia)
orale e segreto, e una scrittura rivelatrice»[65].
La reprimenda contro i giuristi si apre con il riferimento alla dignitas
di una scienza, quella giurisprudenziale, definita tam tenui. Cicerone, in tal modo,
continua la sua replica alla critica mossa da Servio Sulpicio, al fine di
sminuire la res militaris rispetto
all’attività nel foro[66].
L’oratore, infatti, nei paragrafi
precedenti, aveva comparato le origini e i titoli del suo assistito con quelli
di giurista per l’accesso al consolato[67], esaltando
la brillante carriera militare di Murena[68].
Cicerone, quindi, connota negativamente la scientia iuris, imperniata, a suo dire, su mere riflessioni di tipo
linguistico: distinzioni di lettere e separazioni di parole. Egli passa poi a
rievocare il passato, quando i maiores
ebbero per questo studio “qualche” ammirazione, contrapponendolo al
presente: la giurisprudenza è caduta nel disprezzo e nel discredito in
seguito alla rivelazione dei suoi “misteri”. Attraverso questa
antitesi tra il passato e il presente della scientia
iuris, in cui appare discriminante la divulgazione di un sapere nascosto,
Cicerone allude agli antichi segreti della giurisprudenza pontificale.
Come esempio dei problemi pratici derivanti da tale segretezza,
l’oratore ricorda le difficoltà che sorgevano nell’intentare
una causa: comunemente, infatti, non si conoscevano i giorni fasti in cui si
poteva agire in giudizio, poiché la composizione del calendario non era
di dominio pubblico. Egli, così, sottintende l’esclusiva conoscenza
pontificale dei dies[69], ma senza citare in questo
contesto direttamente i pontifices,
anche se il periodo a cui fa riferimento è precedente all’azione
di Gneo Flavio[70],
intesa tanto qui, quanto in altre testimonianze antiche, come un momento
cruciale, avverso all’oscurità delle metodologie e delle materie
sottese all’interpretatio pontificale[71]. L’assenza di un
diretto richiamo ciceroniano ai pontefici, per tutta evidenza, deriva dal fatto
che l’orazione, ai fini della difesa giudiziaria, stigmatizza
specificamente i giuristi, e non il collegio sacerdotale, e, quando essa
rimanda al passato, rivela una prospettiva tesa a rivenire un continuum tra la giurisprudenza
pontificale e quella contemporanea.
L’oratore sottolinea, inoltre, il potere
di coloro i quali erano
consultati intorno all’individuazione dei giorni processuali. La
riprovazione ciceroniana verso tale potentia
è particolarmente enfatizzata attraverso il richiamo analogico alla
consultazione dei Caldei[72], «maestri per
antonomasia nella scienza divinatoria»[73], i quali non godevano di
buona reputazione a Roma[74], apertamente disprezzati
dallo stesso oratore[75]. Questo riferimento alla potentia rimanda inevitabilmente alla
glossa “Ordo sacerdotum” di Sesto Pompeo Festo (che però
è da ascriversi a Verrio Flacco[76]), dove il rex è posto all’apice della
gerarchia sacerdotale, poiché potentissimus[77]. Si tratta di una potenza, da correlare a quella divina[78], propria dei sacerdoti: il verbo posse è richiamato, insieme a facere[79],
dal giurista, e pontefice massimo, Quinto Mucio Scevola[80],
per cui il termine pontifex significa
colui che ha il potere di compiere i rituali religiosi[81]. Appare chiaro, tuttavia,
che Cicerone faccia riferimento non tanto a una “potenza” religiosa, quanto a un potere di tipo socio-politico[82],
riconosciuto ai giuristi per le loro conoscenze[83];
in materia di compositio anni, infatti, come detto supra, prima
della introduzione del calendario giuliano, il collegio pontificale pose in
essere numerosi abusi e storture, da cui derivava un controllo sulla vita
costituzionale del Popolo Romano.
Sei anni dopo
il processo contro Murena, l’oratore, nel De domo, accenna ancora alla segretezza dell’operato
pontificale:
De dom. 33: Quid est enim aut tam adrogans quam
de religione, de rebus divinis, caerimoniis, sacris pontificum collegium docere conari, aut tam stultum quam, si quis
quid in vestris libris invenerit, id narrare vobis, aut tam curiosum quam ea
scire velle de quibus maiores nostri vos solos et consuli et scire voluerunt?
Il brano,
certamente, è un manifesto della profonda e indiscussa conoscenza dei pontifices nelle materie religiose a
loro assegnate: è adrogans
voler impartire insegnamenti al collegio su tali questioni, stultus tentare di narrare a questi
sacerdoti quanto si rinviene nei loro libri, curiosus (qui da intendersi, ovviamente, in senso negativo[84]) aspirare a conoscere
ciò che i maiores vollero che
sapessero, e su cui fossero consultati, soltanto i pontefici. L’esclusiva
conoscenza di determinate materie e l’opera di consulenza in capo al
collegio non potevano, dunque, essere minimamente scalfite da
arroganza-stoltezza-indiscrezione.
Il passo offre
altresì ulteriori spunti di riflessione: innanzitutto, qui si allude al
fatto che i libri pontificali potevano essere consultati anche da esterni, ma,
dal tenore del brano, emerge che soltanto i pontefici ne potessero cogliere
appieno il contenuto. In secondo luogo, come ho già accennato,
l’oratore sostiene che i maiores[85] fissarono l’esclusiva competenza pontificale (consuli et scire) su alcune materie
conservate negli archivi pontificali[86]. Non si specifica quali
fossero gli argomenti in questione, ma, dalla struttura del passo, si
può agevolmente sostenere che fossero quelli elencate all’inizio: religio, res divinae, caerimoniae e sacra. La notizia di De dom. 33, così, concorda in
parte con quanto affermato da Valerio Massimo, per cui i maiores vollero che la scientia
pontificum riguardasse le cerimonie fisse e solenni[87].
Si profila,
quindi, l’alta risalenza della riservatezza della scienza pontificale,
decisa indipendentemente da scelte interne al collegio. Il richiamo ai maiores avvalora, inoltre,
l’opportunità giuridica della secretazione degli argomenti su cui
i pontefici operarono[88].
Al tempo di
Cicerone, i misteri dei giuristi erano già stati svelati – per parafrasare,
pur non senza qualche forzatura, Pro
Muren. 25: ... enuntiatis vestris
mysteriis ... –, tuttavia, in un altro passo del De domo si afferma che il diritto pontificale restava ancora absconditus[89]. L’oratore, infatti,
rivolgendosi direttamente ai pontefici, ribadisce l’esclusività
delle materie oggetto della loro interpretatio:
De dom. 138: Illa interiora iam vestra sunt, quid
dici, quid praeiri, quid tangi, quid teneri ius fuerit.
Da notare l’utilizzo qui dell’aggettivo comparativo interiora[90], per
indicare come le questioni relative ai procedimenti rituali, contenute nei libri
pontificii[91], fossero le più
segrete.
Qualche anno dopo la pronuncia del De domo, Cicerone, in un passo grandemente noto del De oratore, opera conclusa intorno al 55 a.C.[92], disserta ancora
sull’argomento, però, secondo una prospettiva differente:
De
orat. 1.186: Quod quidem
certis de causis a plerisque aliter existimatur: primum, quia veteres illi, qui
huic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae causa
pervulgari artem suam noluerunt; deinde, postea quam est editum, expositis a
Cn. Flavio primum actionibus, nulli fuerunt, qui illa artificiose digesta
generatim componerent. Nihil est enim, quod ad artem redigi possit, nisi ille
prius, qui illa tenet, quorum artem instituere vult, habet illam scientiam, ut
ex eis rebus, quarum ars nondum sit, artem efficere possit.
A parlare è il grande oratore L. Licinio Crasso[93], il quale, nel paragrafo
precedente, aveva riportato l’opinione del suocero, Q. Mucio Scevola,
detto l’Augure (console nel 117 a.C.)[94], per cui la scienza
giuridica era quella più facile da apprendere[95]. Crasso qui sottolinea come,
in merito allo studio del diritto, il sentire comune fosse all’opposto
rispetto a quanto affermato da Scevola per due ordini di motivi. Innanzitutto,
la prima motivazione è individuata dall’oratore nel passato,
ovvero nella volontà dei veteres,
i quali coltivavano la scientia iuris, di tenere segreta l’ars dell’interpretazione giuridica[96]. Il generico riferimento ai veteres[97] è da intendersi
utilizzato per indicare i sacerdoti-giuristi
preposti (praefuerunt[98])
alla scientia interpretandi, o
meglio, come emerge dal contesto del discorso, i pontefici. Nel brano qui
analizzato, al pari di Pro Mur. 25,
non si utilizza il termine pontifices,
secondo la prospettiva ciceroniana, già evidenziata supra, che intendeva, nell’economia del discorso, la
giurisprudenza pontificale e quella contemporanea senza soluzione di
continuità.
Crasso, inoltre, tra i motivi per cui la gente comune considerava
difficile l’apprendimento della scientia
iuris, ricorda come sussistesse ancora la necessità di padroneggiare
il diritto[99],
anche dopo la pubblicazione delle azioni giudiziarie da parte di Gneo Flavio[100].
In De orat. 1.186, si
afferma che i veteres non vollero
divulgare le loro conoscenze, al fine di conservare e aumentare il loro potere,
ritornando al tema della potentia,
che derivava dall’esercizio della scienza giuridica, già accennata
in Pro Mur. 25 [101]. Si ribalta, così,
quanto affermato anni prima nel De dom. 33,
per cui la segretezza della giurisprudenza pontificale era frutto di una scelta
dei maiores. La “potenza” dei pontefici perdurò, come si evince
in chiusura di De orat. 1.186, in quanto, dopo il ius Flavianum «seguì una
decisa reazione pontificale»[102].
La lettura di Livio del noto episodio del 384 a.C., intorno alle
misure per riparare alla distruzione di numerosi documenti causata
dall’incendio gallico, non si discosta dalla valutazione ciceroniana:
6.1.10: In primis foedera ac leges
– erant autem eae duodecim tabulae et quaedam regiae leges –
conquiri, quae comparerent, iusserunt; alia ex eis edita in volgus: quae autem
ad sacra pertinebant a pontificibus maxime ut religione obstrictos haberent
multitudinis animos suppressa.
Dal passo emerge la volontà dei pontefici di non divulgare
le prescrizioni di ordine religioso, al fine di esercitare un elevato potere
sulla moltitudine[103]. Livio, però, quando
si riferisce alla segretezza dei precetti religiosi, si discosta da Pro Mur. 25 e De orat. 1.186, dove, come ho già sottolineato supra, il discorso non era diretto tanto
ai sacerdoti, quanto ai giuristi in generale.
Dalla analisi dei brani ciceroniani, appare chiaro, dunque, come,
fin dalle origini, la segretezza pervadesse l’intero operato dei
pontefici e le discipline a loro affidate. Cicerone, non solo sottolinea la
scelta (anche se talvolta la attribuisce ai pontefici, talaltra ai maiores) di non divulgare la conoscenza
del diritto, ma riferisce anche di specifici campi in cui l’azione
pontificale era svolta in segreto, come l’operazione della compositio anni, e la conservazione (e
interpretazione) di materie rientranti nella sfera del sacro.
In letteratura è stata avanzata qualche riserva in merito
alla segretezza della scientia
interpretandi. P.F. Girard, in particolare, pur definendo esoterica
l’interpretatio pontificale,
considera esagerata la notizia delle fonti per cui tutto il diritto era
occultato dai pontifices[104].
Alcune evenienze, invero, paiono confermare le perplessità dello
studioso francese: quanto testimoniato intorno alla segretezza con cui i
pontefici operavano non pare conformarsi all’azione di consulenza posta
in essere dai pontifices, rispetto
alle materie di loro competenza. Tale azione è ricordata dallo stesso
Cicerone (il quale, come si è visto supra,
ne attribuisce l’istituzione ai maiores[105]), e anche da altre fonti
antiche.
L’operato pontificale, teso al dissipamento di scrupoli
religiosi, è ravvisabile, in particolare, nell’uso del termine hierodidaskaloi (‘maestri del sacro’),
tra le definizioni di pontifices
proposte da Dionigi di Alicarnasso[106].
L’opera di consulenza è tramandata anche da Livio[107], quando descrive
l’istituzione del collegio dei pontefici da parte di Numa Pompilio[108], nell’ambito della
sua riforma religiosa[109]. Il secondo re di Roma
attribuì al pontefice tutti i sacra,
posti per iscritto (Livius 1.20.5); poi, per evitare la violazione delle
cerimonie della civitas, il rex sottopose (subiecit) agli scita
pontificis[110] ogni altra questione inerente alla
sfera sacrale – rispetto alle specifiche funzioni elencate
precedentemente (hostiae, dies, templa, pecunia) – che poteva sorgere tra
la gente comune, qui indicata con il termine generico di plebs[111]
(Livius 1.20.6). Secondo Livio, infatti, il popolo doveva sapere a chi rapportarsi
nelle materie di diritto sacro (ut esset
quo consultum plebes veniret): il pontefice era, pertanto, elevato a
referente istituzionale per la tutela di tutti i sacra.
Lo storico, inoltre, dopo aver ricordato l’azione di
consulenza pontificale, unitamente a quella prescrittiva, ricorda che il
pontefice doveva istruire profondamente (edoceret[112]),
non solo intorno alle cerimonie rivolte agli dèi celesti, ma anche a
quelle relative ai funebria, e ai
modi per placare i Mani (Livius
1.10.7). Il racconto liviano si accorda con quanto riferito da Plutarco,
per cui Numa avrebbe attribuito ai pontifices
la consulenza intorno al preciso compimento dei riti funebri[113].
La tradizione confluita in Livio, circa
la consultazione del pontefice in materia di sacra, concilia anche con la testimonianza di Pomponio[114], per cui, sulla base di
ciò che il giurista adrianeo definisce consuetudo, annualmente il
collegio designava un pontifex
preposto a occuparsi dei privati cittadini, in nome dell’intero collegio[115]. L’attività
svolta da questo pontefice è esplicata da Pomponio con il verbo praeesum[116], termine presente anche in De orat. 1.186, e in altre opere
ciceroniane, sempre in riferimento ai pontifices[117]: tale uso del vocabolo
evidenzia l’importanza dell’azione pontificale all’interno
della costituzione romana[118].
Lo stesso Cicerone, quando si vanta del numero di pontefici
coinvolti nella vicenda della sua casa, superiore a quello dei procedimenti de capite contro le vestali[119], fa riferimento alla religionis
explanatio[120]
svolta da un pontifex peritus[121].
La funzione pontificale di istruire la plebs sugli affari giuridico-religiosi si collegava all’opera
di memorizzazione[122]. In tale operazione si
rinviene un rapporto costante tra i pontefici e il popolo, quest’ultimo,
infatti, doveva essere posto al corrente delle importanti informazioni che
riguardavano la civitas. Come si
ricorda in un noto passo ciceroniano, dall’origine fino al pontificato
massimo di Publio Mucio Scevola, i fatti rilevanti di ogni anno erano
trascritti dal pontifex maximus, e
affissi nella propria casa, ut esset
populo cognoscendi[123].
Appare chiaro, dunque, che l’azione di indirizzo e guida
svolta dai pontefici consisteva in un servizio offerto alla comunità di cives, al fine di una esatta esecuzione
degli adempimenti rituali. Si deve, però, sminuire l’entità
della religionis explanatio pontificale,
poiché le fonti mostrano una terminologia sacerdotale palesemente non
divulgativa. Il linguaggio adottato dai pontifices
nelle loro esternazioni, infatti, consisteva in un lessico precettivo, comune a
tutti i sacerdoti, connotato da una «straordinaria rilevanza della
negazione»[124]
e dalla tendenza alla concisione[125]: la gente comune, quindi, poteva soltanto
cogliere il contenuto delle prescrizioni religiose, ma non comprendere la ratio né il ragionamento
giuridico alla base delle stesse.
Cicerone, nel De domo,
afferma di non parlare di diritto pontificale, e di altri argomenti di
carattere religioso, in quanto dichiara apertamente di non conoscere (e in caso
contrario – rimarca – fingerebbe di ignorare per non apparire molestus e curiosus[126]); sostiene, tuttavia, che
qualcosa di tale disciplina trapelava
all’esterno[127].
In un altro luogo della stessa orazione, egli, relativamente ai
temi da lui trattati, dichiara di non rivelare alcuna notizia celata, tratta da
un archivio segreto (occultum genus
litterarum), ma di desumere le nozioni che promanavano palam[128] da atti magistratuali pubblici ...
ad collegium delatis[129]. L’informazione
ciceroniana, dunque, mostra che, nonostante le fonti tramandino la segretezza
dell’interpretatio pontificale,
alcune nozioni del ius pontificium si
palesavano all’esterno del collegio.
Cicerone non è l’unica testimonianza al riguardo,
poiché vi sono alcune, seppur rarissime, fonti attestanti i processi
analitici utilizzati dal collegio, che avevano raggiunto, fin da età
precedente alle XII Tavole, un «elevato grado di elaborazione delle
tecniche di astrazione giuridica»[130].
Il primo esempio risale al 208 a.C., quando i pontefici
proibirono la dedicatio di una cella a Honos e Virtus, promessa
nel 223 dal console Marco Claudio Marcello[131], durante il conflitto
contro i Galli a Clastidium[132]. Il collegio espose le
motivazioni alla base dell’impedimento: dedicare la medesima cella a due
distinti dèi avrebbe impedito la corretta identificazione della
divinità a cui rivolgere i riti di espiazione, in seguito alla caduta di
fulmini, o al verificarsi di qualche altro prodigio. In tale occasione, la
cautela dei pontifices era rivolta
alla esatta procuratio dei prodigia[133], materia ricompresa nelle
originarie attribuzioni pontificali fissate da Numa[134]. Dalle motivazioni emerge,
dunque, una logica rigorosa e razionale, frutto di cautela prudenziale,
orientata dalla necessità di padroneggiare, con precisione, i segni
inviati dagli dèi[135].
Nel 200 a.C., durante i preparativi per la guerra contro Filippo
V, l’esecuzione di un voto fu ritardata dall’opposizione del
pontefice massimo P. Licinius Crassus
Dives[136].
Il console P. Sulpicius Galba Maximus[137], a cui era stata destinata
la provincia di Macedonia, doveva
votare a Giove dei giochi e anche un donum,
senza, però, averne fissato il costo di quest’ultimo. Mosso da
scrupoli religiosi, il pontefice massimo non ammise il compimento del votum di incerta pecunia, poiché l’assenza di una cifra esatta
avrebbe eluso la prescrizione per cui il danaro destinato ai vota non doveva confondersi con altra pecunia né essere impiegato per
scopi bellici[138].
Un altro caso di interpretatio
pontificale provvista di motivazione è offerto da Macrobio[139],
il quale riporta un brano tratto dall’opera De iure pontificio[140] di Quinto Fabio Massimo
Serviliano (console nel 142 a.C.[141]). Nel frammento si leggono
le motivazioni, date dal pontefice, alla base del divieto di offrire sacrifici
in onore dei defunti nei dies atri[142]: queste cerimonie, infatti,
si aprivano con l’invocazione a Giano e a Giove, il cui nome non poteva
essere evocato nei giorni atri. Si
tratta di argomentazioni razionali, che ponevano in stretta connessione le
materie dei funebria,
dell’idoneità dei giorni e delle invocazioni rivolte alle
divinità.
In tema di prescrizioni
pontificali in giorni festivi, si deve ricordare il responso che, secondo
Macrobio, diede, in veste di pontefice, il giurista Quinto Mucio Scevola[143].
Il parere, collocato nei Saturnalia
in un articolato dibattito sulla religione, appare far ricorso al linguaggio
caratterizzato dalla negazione,
proprio dei tradizionali meccanismi interpretativi sacerdotali. Scevola, in
riferimento alla punizione di colui che aveva trasgredito il divieto di
lavorare durante le feriae,
sosteneva, in modo lapidario, che prudentem
expiare non posse. In un altro
responso, invece, espresso intorno al medesimo argomento dallo stesso
pontefice-giurista, muta il tenore del linguaggio. In questa occasione emerge
chiaramente come la riflessione pontificale fu mirata all’estensione dei
casi di deroga al divieto di lavorare nei giorni festivi, sulla base del
principio economico per cui si poteva svolgere lecitamente quod praetermissum noceret[144]. Nel testo del responsum,
poi, a carattere esemplificativo, si illustrano quali attività si
potevano compiere durante le feriae[145].
Dalla fine del III secolo a.C., si rinviene, così, la,
seppur minima, tendenza pontificale a esplicitare alcune nozioni di diritto
sacro, mentre non risultano simili attestazioni per il passato[146]. Gli esempi qui addotti
riguardano episodi successivi alla lex
Ogulnia del 300 a.C.[147], che sancì
l’apertura dei principali collegi sacerdotali ai plebei. La riforma, che incise fortemente sulla giurisprudenza
del collegio[148],
in base a spinte di tipo “democratico” di parte plebea[149], può aver comportato
una, seppur lenta, tendenza a rendere pubbliche alcune conoscenze della scienza
pontificale, fino ad allora celate[150]. Non è un caso che,
circa cinquant’anni dopo, il primo pontefice plebeo, Tiberio Coruncanio[151] sia ricordato da Pomponio
come il primo publice profiteri,
mentre precedentemente gli altri giuristi ad hunc vel in latenti ius civile retinere cogitabant
solumque consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant[152]. In questo frammento, come
è noto, il giureconsulto adrianeo evidenzia la novità introdotta
dal pontefice-giurista nell’ambito della iuris civilis scientia. Per ciò che riguarda il diritto
sacro, invece, si deve evidenziare come i tre frammenti ascritti all’interpretatio di Coruncanio,
rispettivamente in materia di sacra
familiaria, hostiae e dies, siano privi di motivazione
rispetto a quanto disposto[153].
La testimonianza ciceroniana offre un ulteriore spunto di
riflessione in materia di segretezza con cui operavano i collegi sacerdotali.
Nel De domo, sebbene si tratti
soltanto di accenni, l’oratore informa del ricorso degli auguri, alla
segretezza, o almeno a una certa riservatezza, nella conservazione e
consultazione dei loro archivi.
De
dom. 39: Venio ad augures, quorum ego libros, si qui sunt reconditi,
non scrutor; non sum in exquirendo iure augurum curiosus; haec quae una cum
populo didici, quae saepe in contionibus responsa sunt, novi[154].
L’oratore qui accenna all’esistenza di libri augurali
reconditi, di cui – precisa
ancora – non è curiosus,
e sostiene di conoscere, insieme al popolo, solo ciò che trapelava
all’esterno della scienza augurale;
del resto, egli divenne augure qualche anno più tardi, nel 53 a.C.[155], in sostituzione del figlio
di Crasso, P. Licinius Crassus,
deceduto a Carrhae durante la guerra contro i Parti[156].
In letteratura il passo è stato oggetto di analisi
relativamente al significato da attribuire alla locuzione libri reconditi[157]. L’espressione si
rinviene anche in un passo di Servio Danielino[158], dove, però,
presenta un utilizzo tecnico che indica del materiale scrittorio di origine
etrusca[159].
Cicerone, certamente, con questa espressione non vuole alludere a
una tipo specifico di documento conservato segretamente negli archivi del
collegio degli auguri[160], ma vuole soltanto
sottolineare la loro “riservatezza”[161]. In De dom. 39 è evidente la forte simmetria con altri paragrafi
relativi al diritto sacro custodito dai pontefici (disciplina che
l’oratore, anche in questo caso, dichiara di non voler, e di non poter,
conoscere, ad es., De dom. 121, 138,
vedi supra), per evidenziare il rispetto
ciceroniano nutrito nei confronti della scienza giuridica sacerdotale[162]. La
“discrezione” esibita da Cicerone, verso alcune materie religiose
non accessibili al pubblico, appare più volte nell’intera
orazione, al fine di opporre questo atteggiamento a quello del rivale Clodio[163].
Non si può escludere del tutto l’esistenza di
archivi inaccessibili al pubblico[164], in virtù del loro
contenuto; del resto, Plutarco accenna al proposito, perseguito dagli auguri
tramite giuramento, di non divulgare la scienza augurale[165].
Il ricordo di Paolo Diacono circa una misteriosa cerimonia
augurale, tuttavia, attesta il ricorso a una tradizione orale, al fine di
conservare al meglio la segretezza del rito:
Excerpt.
de verb. sign., p. 14 L.: Arcani sermonis
significatio trahitur sive ab arce, quae tutissima pars est urbis; sive a
genere sacrificii, quod in arce fit ab auguribus, adeo remotum a notitia
vulgari, ut ne litteris quidem mandetur, sed per memoriam successorum
celebretur; sive ab arca, in qua quae clausa sunt, tuto manent, cuius ipsius
origo ab arcendo pendet[166].
Questi arcani sacrifici[167], svolti segretamente in Arx[168] (luogo rilevante per la
scienza augurale, in cui ... augurium
augures acturi essent ...[169]), dovevano essere
considerati come una eccezione. Lo stesso Paolo Diacono afferma, in altro
luogo, che gli augures svolgevano publice la propria attività
nell’arce capitolina[170]. Il sito della misteriosa
cerimonia augurale, infatti, era anche il luogo di svolgimento di atti a
partecipazione popolare, come la inauguratio
regis[171],
e di importanti comunicazioni e riti svolti dal rex (sacrorum), come i sacra Nonalia[172] durante i quali il re edicit populo[173].
Archivi
inaccessibili agli estranei erano, per tutta certezza, quelli che conservavano
i libri sibillini[174]. Questo materiale
scrittorio, il cui contenuto doveva rimanere segreto ai più[175], poteva essere consultato,
e interpretato, esclusivamente dai viri
sacris faciundis[176], dopo una richiesta
senatoria, in seguito a gravi fatti e prodigia.
I custodi dei libri, non a caso, sono definiti, da Lucano, finanche nel I sec.
d.C., qui fata deum secretaque carmina servant[177]. I libri Sibyllini erano
tenuti distanti dalla consultazione da parte di estranei al collegio, infatti,
come narra Dionigi di Alicarnasso[178], erano conservati
all’interno di un’arca, collocata sotto il tempio di Giove Ottimo
Massimo[179],
divinità che godeva presso i Romani di un’alta valenza politica[180].
L’importanza dei libri
Sibyllini, e la necessità di mantenere riservato il loro contenuto, emerge
specialmente da un episodio risalente all’età regnum, relativo alla dura condanna a cui fu sottoposto il duumviro
Marco Atilio:
Valerius Maximus 1.1.13: Tarquinius autem
rex M. Atilium duumvirum, quod librum secreta rituum civilium sacrorum continentem,
custodiae suae conmissum corruptus Petronio Sabino describendum dedisset,
culleo insutum in mare abici iussit, idque supplicii genus multo post
parricidis lege inrogatum est, iustissime quidem, quia pari vindicta parentum
ac deorum violatio expianda est[181].
Il duumvir sacris
faciundis fu
punito con la poena cullei[182], poiché fece
copiare a un sabino, un certo Petronio, un libro contenente le formule di
cerimonie religiose segrete, che egli aveva in custodia[183]. Valerio Massimo non
esplicita se si punì anche il corruttore, ma si concentra sul crimine di
Atilio, sottolineando la segretezza del contenuto libro, e
l’empietà della sua divulgazione. Che l’illecito consistesse
in un atto sacrilego[184] emerge
dall’inserimento dell’episodio nel primo libro dei Facta et dicta memorabilia, intitolato De religione. Nell’epilogo del
brano, inoltre, lo scrittore latino afferma come la poena cullei fu successivamente inflitta, tramite legge, ai
parricidi, al fine di espiare sia le violazioni verso i genitori sia quelle
perpetrate contro le divinità: si evince, dunque, come la segretezza
fosse un disposto del ius sacrum.
L’espressione
ritus civilis, presente nel passo,
testimonia una peculiarità della religione politeista romana: il culto
era prettamente civico[185], e la sua esecuzione
spettava alla civitas religiosa[186], servi compresi[187]. In virtù di tale
dimensione universalistica e comunitaria, l’antica religio romano-italica raramente prevedeva dei segreti[188]. In alcune cerimonie si
limitava l’accesso a determinate categorie[189], come, ad esempio, il culto
di Ercole[190],
precluso alle donne, il culto della Bona
Dea[191],
proibito agli uomini[192], e certi sacra, richiamati in una glossa di Paolo
Diacono, interdetti ad alcuni generi di persone, attraverso la ripetizione
della formula “hostis, vinctus, mulier, virgo exesto”[193].
Il numero delle cerimonie religiose in cui era esclusa la
partecipazione popolare era limitato. Un caso esemplare sono gli Opiconsivia[194], svolti in onore della dea Ops Consiva, antica divinità
agricola[195].
Questa solennità era celebrata il 25 agosto dalle vestali e dal
pontefice massimo, nel sacrarium della
dea[196], all’interno della
Regia[197].
La segretezza di questo rito è da collegarsi al carattere sacro del
luogo in cui esso si svolgeva, che era talmente augustus[198] da esserne interdetto il libero ingresso[199].
Si può
affermare, dunque, che nell’antica religione politeista romana la
segretezza si irradiava su differenti piani. Dalle fonti analizzate è
apparso come gli archivi della conoscenza giuridico-religiosa fossero reconditi, sia per la importanza del
materiale in essi conservato, è questo il caso specifico dei libri Sybillini, sia per evitare, come
si è sostenuto spesso in letteratura[200], un imprudente accesso da
parte di soggetti estranei ai collegi sacerdotali.
La segretezza,
inoltre, poteva avvolgere uno specifico rito, riservando la partecipazione ai
soli sacerdoti officianti, come nelle cerimonie augurali arcane ricordate da
Paolo Diacono (Excerpt. de verb. sign.,
p. 14 L.).
La notizia di
un sacrarium nella Regia, dove si
celebravano gli Opiconsivia, invece,
mostra l’esistenza di siti sacri e reconditi, inaccessibili al populus. Le parti più nascoste
dei luoghi sacri, i penetralia, sono
ricordate proprio come secreta templorum[201]. Un
caso esemplare è rappresentato dal penus Vestae[202],
che, secondo le fonti, era interdetto agli uomini[203].
Come si desume da una glossa
festina, questo luogo si
suddivideva in un penus exterior, e uno interior[204]. La
parte esterna del penus era aperta
alla devozione delle donne soltanto durante i Vestalia, dal 7 al 15 giugno[205]. Nel resto dell’anno
il luogo era riservato a vestali e pontefici, come emerge specialmente da
Lampridio, quando descrive il sacrilegio di Eliogabalo, il quale entrò ... in penum Vestae, quod solae
virgines solisque pontifices adeunt[206].
Il penus interior,
invece, era accessibile soltanto alle vestali[207]. La
segretezza della parte più nascosta del penus del tempio di Vesta
si collegava a quella di alcune res di carattere sacro ivi custodite:
qui, infatti, si conservavano degli oggetti misteriosi[208], i pignora
che imperium Romanum tenent[209]. Si
ravvisa, così, un collegamento tra i “misteri” religiosi e
la vita stessa del Popolo Romano[210].
Questa funzione salvifica dei pignora imperii è evidenziata
specialmente per il Palladio, l’effigie troiana di Atena[211], di
cui lo stesso Cicerone ne afferma l’essenza salutare per la civitas[212].
Tito Livio,
come è noto, in riferimento alla custodia pontificale del ius civile ricorre all’uso di due
termini, reponere e penetralia, che concorrono a formare la
“semantica del segreto”[213]. Le evenienze fin qui
ottenute, relative ai profili reconditi della religio Romana, permettono di identificare nella notizia liviana
l’assimilazione del diritto custodito dai pontefici alle res sacrae, da loro tenute segrete; del
resto, anche Valerio Massimo richiama l’originaria confusione del ius tra i sacra caerimoniasque deorum inmortalium[214]. Emerge, dunque,
l’identità tra le motivazioni religiose teologiche alla base dei
“misteri” dei sacra, su cui
si tratterà infra, e le cause
della antica segretezza dell’interpretazione pontificale.
La segretezza, che cingeva, come si è fin qui visto, alcuni testi
cerimoniali, sacra, res sacrae e luoghi di culto, scaturiva da un’antichissima religione.
Plinio, accennando al nome segreto di Roma[215], riporta, come esempio della antiqua religio, ordinata ob hoc maxime silentium[216], quello della dea Angerona,
il cui simulacro era rappresentato con la bocca bendata[217].
Si tratta, dunque, di una risalente propensione verso il segreto, di cui
i Romani avevano ancora memoria, per cui si separavano gli uomini dalle cose
venerabili[218].
Questa concezione è presente in una accezione del termine religio, offerta da Servio Sulpicio Rufo:
Macrobius, Sat.
3.3.8: Servius Sulpicius
religionem esse dictam tradidit quae propter sanctitatem aliquam remota ac
seposita a nobis sit, quasi a relinquendo dicta, ut a carendo caerimonia[219].
Secondo il
giurista, religio è ciò
che, in virtù della propria sanctitas[220], è lontano e separato dagli
uomini; in funzione di tale accezione, Servio Sulpicio propone una etimologia[221] per cui il termine deriva
dal verbo relinquere. L’etimo
proposto, seppur introdotto con l’avverbio quasi, era in linea con l’essenza degli antichi culti.
Stando a questa
prospettiva, la sanctitas non avrebbe
fatto allontanare gli uomini dal culto, ma impedito loro un accesso diretto a
luoghi, cerimonie etc.[222], stabilendo, così,
nel rapporto homines-dei, una sfera separata e recondita
della religio. Lo stesso Cicerone inserisce
la sanctitas nel rapporto
uomini-dèi, poiché oltre a definirla scientia colendorum
deorum[223], la
intende come atto umano che, unitamente alla pietas[224], rende
propizi gli dèi[225].
La distanza
sussistente tra ciò che è santo[226] e gli esseri umani emerge
in Marciano, per cui è sanctum, ciò che ab
iniuria hominum defensum atque munitum est[227].
La connessione tra sanctitas,
religio e “separazione”
dagli uomini è ribadita da Macrobio. L’autore dei Saturnalia rinviene tale prospettiva in
Virgilio, di cui cita alcuni versi (Aen. 8.597-599
e 600 s.), in cui si riferisce di un bosco sacro inaccessibile, consacrato dai
Pelasgi[228]
a Silvano, nei pressi del fiume di Cere. Macrobio rileva come tali luoghi siano
impenetrabili, non solo per motivi fisici, ma anche a causa della loro sanctitas[229].
Dall’analisi fin qui condotta, è evidente come, nei
confronti dei pontefici, e del loro diritto absconditus,
Cicerone assuma un duplice atteggiamento: critico (quando collega la
segretezza, adoperata da questi sacerdoti, al loro proposito di veder aumentato
il proprio potere socio-politico), e laudativo. A quale Cicerone credere?
L’apparente contraddizione si può superare contestualizzando il
discorso: è innegabile che i pontefici, almeno a partire
dall’età repubblicana, utilizzarono le proprie conoscenze segrete
per fini che esulavano da aspetti prettamente religiosi, come è
attestato, in particolare, dalle dure critiche rivolte da più parti alla
composizione del calendario[230]. In origine, tuttavia,
l’esclusivismo del sapere pontificale – specifica l’oratore
in De dom. 33 – era frutto di
scelta dei maiores, e, dunque,
funzionale alla civitas.
Per l’età arcaica, il “segreto
pontificale” si deve collegare al compito, evidenziato più volte
dallo stesso Cicerone, di supervisione e custodia di tutti i sacra[231]. Secondo la prospettiva
giuridico-religiosa romana, le propensioni terminologiche dei sacerdoti,
unitamente alla segretezza dello studium
pontificale, che – ricorda Cicerone – i maiores ammiravano (Pro Mur. 25),
erano finalizzate alla salvaguardia della pax deorum[232].
Gli strumenti a cui ricorrevano i pontefici, infatti, erano espressione di
massima accortezza rituale, che impediva, o sopperiva, tanto alla negligentia quanto all’errato
compimento delle cerimonie religiose.
L’assenza dell’opportuna cautela nella sfera
religiosa, secondo i Romani, produceva gravissime conseguenze. Una
rappresentazione esemplare delle conseguenze di un rito eseguito in modo
scorretto è la tragica fine di Tullo Ostilio. Secondo la tradizione
confluita in numerose fonti, il re, insieme alla sua domus, fu punito da
Giove Elicio[233],
poiché pose in essere, in modo incauto e sconsiderato, i riti necessari
per attrarre i fulmini sulla terra[234]. Il cerimoniale fu
rinvenuto da Tullus Hostilius tra i
sacrifici occulti destinati a Iupiter
Elicius, conservati nei commentarii
di Numa Pompilio[235]. Lo stesso rito, infatti,
secondo la tradizione, era già stato svolto dal secondo re di Roma, ma
con esiti differenti[236]. Per far cessare una
spropositata e terrificante caduta di fulmini, egli, attraverso uno
stratagemma, ottenne questo rituale, che scire nefas homini, da due divinità silvestri,
Fauno e Pico. Il rex, così,
fece discendere Giove Elicio, con cui si confrontò con perizia e cautela[237]. I Romani attribuirono tali epiche gesta a Numa poiché
egli rappresentava il riformatore delle istituzioni religiose, e anche
l’esatto interprete delle parole divine[238].
Appare evidente che la segretezza era finalizzata a preservare la
sfera sacrale da mani “inesperte”, per evitare l’ira degli
dèi. In virtù di questo timore, i pontefici conservavano nei loro
libri anche gli appellativi degli di
indigetes[239],
unitamente alle rationes ipsorum nominum[240], poiché vulgari non licet[241].
La premurosa
conservazione del sapere religioso avrebbe impedito, dunque, possibili azioni
incaute, con inevitabili e terribili danni alla civitas stessa. Tra i sacra affidati
alla cura pontificale, vi era il
rito della evocatio[242], finalizzato ad attrarre nella civitas romana, attraverso la promessa
del medesimo culto, o di uno
più ampio, i numi tutelari del nemico, e vincere in tal modo la guerra. Questo
rituale permaneva in pontificum
disciplina, ne qui hostium simili
modo agerent[243]. Sempre a tal fine, oltre al rito della
evocatio, i pontefici custodivano il nome segreto della divinità
tutelare, sulla cui identificazione non vi era accordo tra gli autori antichi, e il nomen rituale di Roma[244].
In passato,
secondo Plinio, l’altro nome di Roma si poteva pronunciare lecitamente
soltanto in ragione di arcani cerimoniali, tenuti segreti da una fides, definita optima e salutaris[245]. Il richiamo
all’azione salvifica del supremo valore della fides[246] conferma, ulteriormente, lo
stretto collegamento tra il segreto religioso e la sopravvivenza del Popolo Romano.
La cautela adoperata
attraverso il segreto religioso, al fine di non incrinare la pace con gli
dèi, non era propria dei soli pontefici, ma era impiegata da tutta la civitas.
Questa estrema prudenza si esplicita meglio attraverso un caso esemplare,
attestante l’importanza di un controllo pubblico sulla diffusione di
alcuni testi di carattere filosofico-religioso: si tratta del rinvenimento dei
libri di Numa Pompilio[247], avvenuto nel 181 a.C., di
cui offre un racconto dettagliato Tito Livio. Dei contadini
dissotterrarono, sub Ianiculo, due
tombe lapidee, una con inciso il nome del re, priva però delle spoglie
umane, mentre l’altra contenente i suoi libri. Secondo il racconto liviano, sette libri erano de iure pontificio, in lingua latina, e altrettanti, in lingua greca, de disciplina sapientiae, che per
Valerio Anziate sarebbero stati di stampo pitagorico[248]: ma tra gli autori antichi
non si ebbe mai certezza del contenuto[249].
Il pretore
urbano Q. Petillio[250], in seguito a una lettura
sommaria del materiale scrittorio rinvenuto nell’arca, dichiarò che il contenuto di questi libri poteva
sovvertire la religione. Quando l’affare fu riferito ai patres, il senato decretò la loro
distruzione, e i libri furono bruciati in
comitio[251].
Nella versione
varroniana dell’episodio, riportata da Agostino d’Ippona,
sussistono diverse varianti rispetto al racconto di Tito Livio: i libri Numae avrebbero racchiuso argomenti importantissimi, le sacrorum institutorum causae; la distruzione dei libri sarebbe stata
disposta dal senato in conformità alla scelta di Numa di farsi
seppellire con questi testi[252].
Il commento del vescovo evidenzia come
il contenuto dei libri Numae doveva rimanere segreto a tutti, anche ai
sacerdoti[253]: secondo la lettura
agostiniana, dunque, esisteva qualcosa di ignoto anche per i pontefici[254].
La recherche analyse la
mémoire de Cicéron sur les pontifices
et, en particulier, sur la volonté des
prêtres de conserver secrète l’ars de l’interprétation juridique (Pro Mur. 25, De orat. 1.186). On est apparu que la discrétion, avec
laquelle les pontifes ont agi, concernait non seulement l’interpretatio, mais aussi tous les
aspects de la sphère du sacré, dont ils possédaient la
garde et la pleine compétence. De l’analyse des mystères de
la religion romaine, il est apparu que le “secret pontifical”
contribuait à la sauvegarde de la pax
deorum, et, donc, au salut du Peuple Romain.
[Per la pubblicazione degli articoli della sezione
“Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il
procedimento di peer review. Ogni articolo è stato
valutato positivamente da due referees,
che hanno operato con il sistema del double-blind]
[1] Rimando in materia a R.
Orestano, Sulla problematica del
segreto nel mondo romano, in
Il segreto nella realtà giuridica
italiana. Atti del Convegno Nazionale. Roma 26-28 ottobre 1981, Padova
1983, 95 ss. (ora, con il titolo, Gli «arcana» nel mondo romano, in Id., Edificazione del giuridico, Bologna 1989, 11 ss.).
[2] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo
institutionum): Publicum ius
in sacris in sacerdotibus, in magistratibus consistit (per il frammento,
rinvio alla approfondita analisi di G.
Aricò Anselmo, Ius publicum – ius privatum in
Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico
dell’Università di Palermo 37, 1983, 452 ss.).
[3]
In materia di pax deorum rinvio ad
alcuni lavori di Francesco Sini: Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto
internazionale antico”, Sassari 1991, 235 ss., spec. 256 ss.; Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari n.s. 2, 1995 [ma
1996], 77 ss.; Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in
Roma antica, Torino 2001, 167 ss., 262 ss.; Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici, in Diritto@Storia 1, 2002 (http://www.dirittoestoria.it/tradizione/F.%20Sini%20-%20Uomini%20e%20D%E8i%20%20nel%20sistema%20giuridico-religioso%20roman.htm ); «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale”
romano (a proposito di bellum, hostis, pax),
in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova – Venezia –
Treviso, 14-15-16 giugno 2001), III, a cura di L. Garofalo, Padova 2003,
535 ss.; Ut iustum conciperetur bellum:
Guerra “giusta” e sistema
giuridico-religioso romano, in Seminari
di storia e di diritto. III. «Guerra
giusta»? Le metamorfosi di un concetto antico, a cura di A. Calore,
Milano 2003, 71 ss.; Religione e sistema
giuridico in Roma repubblicana, in Diritto@Storia
3, 2004 (http://www.dirittoestoria.it/3/Memorie/Organizzare-ordinamento/Sini-Religione-e-sistema-giuridico.htm); Bellum, fas, nefas:
aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica,
in Diritto@Storia 4, 2005, §§ 8-9 (http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm ); Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto@Storia 5, 2006 (http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm).
In materia, vedi inoltre, da ultimo, S. Satterfield,
Prodigies, the pax deum and the ira deum, in The Classical Journal 110, 2015, 431 ss.
Per la concezione della pace nell’antichità,
vedi: E. Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo antico,
Torino 1901 [rist., Roma 1971]; I. Lana,
La pace nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
13, 1967, 1 ss. (ora in Id., Studi sul pensiero politico classico,
Napoli 1973, 41 ss.); Id., L’idea della pace
nell’antichità, S. Domenico di Fiesole 1991; C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1985, 17 ss.
[4] Vedi, ad es.: Cicero, De nat. deor. 2.8: Et
si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam
inferiores repiemur; religione, id est cultu deorum, multo superiores; De har. resp. 19: Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec
numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos
nec denique hoc ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos
ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum
numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque
superavimus.
[5] Tra
i numerosissimi sostenitori vedi, ma senza pretesa di completezza: R. von Jhering, L’esprit du droit romain dans les diverses phases de son
développement, III, 3ª
ed., trad. di O. de Meulenaere, Paris 1886-1888 [rist., Bologna 1969], 82 ss.;
P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. sulla 4ª ed. fr. di C. Longo, Milano
1909, 56 s.; W. Warde Fowler, The Religious Experience of the Roman People
from the earliest times to the age of Augustus, London 1911, 270 ss.; F. De Martino, La giurisdizione nel diritto romano, Padova 1937, 31 ss.; Id.
Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, 137 s.; P. Noailles, Du Droit
sacré au Droit civil. Cours de Droit Romain Approfondi 1941-1942,
Paris 1949, 30 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza
romana arcaica, Torino 1967, 159; G.
Nicosia, Lineamenti di storia
della costituzione e del diritto di Roma, I, Catania 1971 [rist. 1989], 108
s.; G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia
del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 16, 75 ss.; E. Pólay, Das Jurisprudenzmonopol des Pontifikalkollegiums in Rom und seine
Abschaffung, in Acta classica
Universitatis Scientiarum Debreceniensis 19, 1983, 49 ss.; F. D’Ippolito, Das ius Flavianum und die lex Ogulnia, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für
Rechtsgeschichte. Rom.
Abt. 102, 1985, 91 ss.; R.E. Mitchell, The
Definition of patres and plebs: An End to the Struggle of the Orders,
in Social Struggles in Archaic Rome: New
Perspectives on the Conflict of the Orders, a cura di K.A. Raaflaub,
Berkeley-Los Angeles 1986, 156; A. Watson,
The State, Law and Religion: Pagan Rome, Athens (Ga.) 1992, 2 s., 63
ss.; Id., The spirit of Roman
Law, Athens (Ga.) 1995, 3, 37 ss.; S. Tondo,
Appunti sulla giurisprudenza
pontificale, in Per la storia del
pensiero giuridico romano. Dall’età dei
pontefici alla scuola di Servio. Atti del seminario di S. Marino, 7-9 gennaio
1993, a cura di
D. Mantovani, Torino 1996, 1 ss.; C.A.
Cannata, Per una storia della
scienza giuridica europea, I. Dalle origini all’opera di Labeone,
Torino 1997, 130 ss.; S. Randazzo,
Leges mancipii. Contributo allo studio
dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione,
Milano 1998, spec. 138 ss.; F. Arcaria, in Aa.Vv.,
Le fonti di produzione del diritto
romano, Catania 2002, 21 ss., 62 ss.; M.T.
Fögen, Storie di diritto
romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, trad. it. di A. Mazzacane
[tit. orig.: Römische
Rechtsgeschichten. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems,
2ª ed., Göttingen
2003], Bologna 2005, 129 ss.; A. Corbino,
Fondamenti e forme del diritto
nella concezione romana, in Studi in
onore di L. Arcidiacono, II, Torino 2010, 861; L. Franchini, La
nozione di «laicità» nella giurisprudenza romana, in Rivista
di Diritto Romano 10, 2010, 1 ss. (http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano10Franchini.pdf
); Id., Il problema
dell’esistenza di un ius
controversum in età arcaica,
in Diritto@Storia 13, 2015 (http://www.dirittoestoria.it/13/memorie/Franchini-Problema-esistenza-ius-controversum-eta-arcaica.htm ), § 2; Id., Principi di ius
pontificium, in Religione e Diritto
Romano. La cogenza del rito, a cura di S. Randazzo, Tricase 2015, 263 ss.;
L. Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano. Corso di
Lezioni, 2ª ed.,
Torino 2012, 9 ss. Per il monopolio sacerdotale, vedi anche Y. Berthelet, Légitimer les
experts religieux, sous la République romaine, in Hypothèses 14, 2010, 119 ss., spec. 125.
Una posizione del tutto antitetica rispetto alla communis opinio è espressa da F. Cancelli, La giurisprudenza unica dei pontefici e Gneo Flavio tra fantasie e
favole romane e romanistiche, Roma 1996. Vi è stato, inoltre, in
passato, chi ha parlato in merito di “monopolio tecnico-giuridico”,
negando la segretezza dell’interpretazione giuridica pontificale: A. Zocco-Rosa, L’“Ius Flavianum” nella storia delle Fonti del
Diritto romano, in Scritti giuridici
dedicati ed offerti a G. Chironi nel XXXIII anno del suo insegnamento, III.
Filosofia-Economia-Storia,
Milano-Torino-Roma 1915, 375 ss.: «In verità né Livio,
né Valerio Massimo han compresa bene la cosa. Stando ad essi, i
pontefici avrebber tenuto il Diritto come chiuso nell’armadio: una
banalità. Ambedue mal compresero la natural fase di cultura giuridica,
alla quale vollero alludere; mal compresero, che dati i tempi, soltanto una
dotta classe sacerdotale poteva avere ed ebbe una larga conoscenza tecnica del
Diritto. […] Così, senza tener punto chiuso sotto chiave il
Diritto, i pontefici, grazie al monopolio della tecnica conoscenza sua, aveano
nelle loro mani uno strumento di predominio» (378).
[7] Intorno al manuale pomponiano,
vedi spec.: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
trad. it. di G. Nocera, Firenze 1968 [tit. orig.: Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961], 299
ss.; D. Nörr, Pomponius oder “Zum
Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.15, Berlin-New York 1976, 512 ss. (ora in Id., Historiae iuris
antiqui. Gesammelte Schriften, II, a cura di T.J. Chiusi, W. Kaiser, H.-D.
Spengler, Goldbach 2003, 1000 ss.; vedi anche in trad. it. Pomponio o «della intelligenza storica dei giuristi romani»,
con una «nota di lettura» di A. Schiavone, a cura di M.A. Fino ed
E. Stolfi, in Rivista di Diritto Romano 2,
2002, 167 ss., http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano02noerr.pdf
); B. Albanese, D.1.2.2.12 ed il problema della sua
attribuzione, in Scritti in onore di S. Pugliatti, IV, Milano 1978,
3 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, II, a cura di M.
Marrone, Palermo 1991, 1523 ss.); F. D’Ippolito,
I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della Repubblica,
Napoli 1978, 3 ss.; L. Lantella, Le opere della giurisprudenza romana nella
storiografia (Appunti per un seminario di Storia del diritto romano),
Torino 1979, 7 ss.; M. Bretone, Tecniche
e ideologie dei giuristi romani, 2ª
ed., Napoli 1982, 209 ss.; A. Sicari, Pomponio e Celio Antipatro, in Studi in onore di C. Sanfilippo, II,
Milano 1982, 547 ss.; G. Crifò,
Un seminario su Pomponio, in Id., Materiali di storiografia
romanistica, Torino
1998, 49 ss.; E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio.
I. Trasmissione e fonti, Napoli
2002, 305 ss.; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Torino 2005, 332 ss.; D.
Mantovani, Mores, leges, potentia. La storia della legislazione romana secondo Tacito (Annales
III 25-28), in Letteratura e civitas.
Transizioni dalla Repubblica all’Impero. In ricordo di E. Narducci, a cura di M.
Citroni, Pisa 2012, 396 ss.
[8] D. 1.2.2.6 (Pomponius libro
singulari enchiridii): Omnium tamen
harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex
quibus constituebatur, quis quoquo anno praeesset privatis. et fere populus
annis propre centum hac consuetudine usus est.
[9] L. Vacca, Contributo allo studio del metodo casistico
nel diritto romano, rist. con appendice, Milano 1982, 76, sottolinea come,
già nel regnum, «il
monopolio delle forme di azione doveva in sostanza porre in una posizione
subordinata lo stesso accertamento giudiziale da parte del rex».
[10] Cito qui, come esempio della sapiente interpretatio giurisprudenziale da parte dei sacerdoti pubblici, la
definizione augurale del pomerium, come confine tra auspicia urbana e militaria
(Gellius, Noct. Att. 13.14.1: “Pomerium” quid esset, augures
populi Romani, qui libros de auspiciis scripserunt, istiusmodi sententia
definierunt: «Pomerium est locus intra agrum effatum per totius urbis
circuitum pone muros regionibus certeis determinatus, qui facit finem urbani
auspicii»). Sul pomerio, vedi, tra gli ultimi: E. De Magistris, Paestum e Roma quadrata. Ricerche sullo spazio augurale, Napoli
2007, 179 ss.; A. Maccari, Quid sit
pomerium: Appunti
su Gellio, Noctes Atticae XIII, 14. Le fonti e il confronto con Fest. 294 L, in Studi Classici e Orientali 61, 2015, 313
ss.; R. Fiori, Gli auspici e i confini, in Fundamina 20.1, 2014, 301 ss., spec. 309
ss. Cfr. anche M. Sofia, Il
pomerio di Roma lungo la fascia tiberina, in Orizzonti. Rassegna di
archeologia 13, 2012, 113 ss.
[12] A. Schiavone, Ius, cit., 97. In materia vedi, inoltre,
ex multis, L. Franchini, La
nozione di «laicità» nella giurisprudenza romana, cit.; Id., Il diritto casistico: esperienza romana arcaica e ‘common
law’, in Diritto@Storia 10,
2011-2012, spec. § 4 (http://www.dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Franchini-Esperienza-romana-arcaica-common-law.htm
).
[13] Sulle numerose accezione dei termini “laico” e
“laicità” nel corso della storia, rimando a P. Catalano–P. Siniscalco, Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV
Seminario «Da Roma alla Terza Roma», in Index 23, 1995, 461 ss. Vedi anche F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari
nella repubblica romana, Torino 2008, 2 ss.
[14]
L’intervenuta distinzione concettuale del fas e il ius, uniti in
origine (vedi Valerius Maximus 2.5.2, testo infra
nt. 71), è attestata specialmente da Servius, Ad Georg. 1.69: ‘Fas
et iura sinunt’ id est divina humanaque iura permittunt: nam ad
religionem fas, ad homines iura pertinent; cfr. Isidorus, Orig. 5.2.2: Fas lex divina est, ius lex humana. In materia sono fondamentali le
riflessioni di R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino
e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica,
in Bullettino dell’Istituto di
Diritto Romano 46, 1939, 194 ss. (ora in Id.,
Scritti, II.I. Saggistica, con una nota di lettura di
A. Mantello, Napoli 1998, 561 ss.); Id.,
I fatti di normazione nell’esperienza
romana arcaica, cit., 102 ss., il quale evidenzia
“un’unità genetica” delle norme nel sistema primitivo.
In tal senso vedi, ex multis: P.
Noailles, Fas et Jus. Études de droit romain, Paris 1948; Id., Du droit sacré au droit civil, cit., 24 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960, 394 e
nt. 7, 486 s., 501 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine,
Paris 1963, 133; G. Nocera, “Iurisprudentia”, cit., 12;
F. Sini, “Fas et iura sinunt” (Virg., ‘Georg.’ 1,
269). Contributo allo studio della nozione romana di ‘fas’. I, Sassari 1984, 8 ss.; Id., Bellum nefandum, cit., 83
ss.; F. Bona, “Ius pontificium” e “ius
civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema
aperto, in “Contractus” e
“pactum”. Tipicità e libertà negoziale
nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e
della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, a cura di
F. Milazzo, Napoli 1990, 209 (ora in Id.,
Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, 965). Sul rapporto
semantico tra fas e ius: P.
Cipriano, Fas e nefas, Roma
1978, 13 ss. Negano, invece, un collegamento tra diritto e religione, ad es.:
C. Gioffredi, Ius, Lex,
Praetor. (Forme storiche e valori dommatici), in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 13-14, 1947-48, 14 ss.; M. Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali
del Seminario Giuridico dell’Università di Catania 3,
1948-949, 77 ss. (ora in Ars boni et aequi. Festschrift für W.
Waldstein zum 65. Geburtstag, a cura di M.J. Schermaier e Z. Végh,
Stuttgart 1993, 151 ss.); Id., Das
altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und
Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen 1949, 22 ss.; M. Humbert, Droit et religion dans la
Rome antique, in Mélange F. Wubbe offerts par ses
collègues et ses amis à l’occasion de son
soixante-dixième anniversaire, Fribourg Suisse 1993, 191 ss. Vedi anche la recente analisi di F. Chini, Idee vecchie e nuove intorno ai concetti di ius e fas, in Religione e Diritto Romano, cit., 115 ss., dove si afferma, per
l’età arcaica, l’impossibilità di individuare
concettualmente il ius e il fas.
[15] De leg. 2.47: Sed iuris consulti sive erroris obiciundi causa, quo plura et difficiliora
scire videantur, sive, quod similius veri est, ignoratione docendi (nam non
solum scire aliquid artis est, sed quaedam ars est etiam docendi) saepe, quod
positum est in una cognitione, id in infinitam dispertiuntur, velut in hoc ipso
genere quam magnum illud Scaevolae faciunt, pontifices ambo et eidem iuris
peritissimi! ‘Saepe’, inquit Publii filius, ‘ex patre audivi
pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset’. Totum ne?
quid ita? quid enim ad pontificem de iure parietum aut aquarum aut ullo omnino
nisi eo, quod cum religione coniunctum est? Id autem quantulum est! De sacris, credo, de votis, de feriis et de
sepulchris, et si quid eius modi est. Cur igitur haec tanta facimus? Quom
cetera perparva sint, de sacris autem, qui locus patet latius, haec sit una
sententia, ut conserventur semper et deinceps familiis prodantur et, ut in lege
posui, perpetua sint sacra.
[16] L’elencazione ciceroniana delle materie strumentali
all’interpretazione pontificale si correla ad alcune delle funzioni
originarie del collegio ricordate da Livius 1.20.5-7: hostiae, dies, templa, pecunia, cetera omnia
publica privataque sacra, funebria,
prodigia (testo infra nt. 107).
[17] Così, F. Bona,
“Ius pontificium” e
“ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana,
cit., 211 s. (= Id., Lectio sua, II, cit., 968
s.), il quale evidenzia nel passo del De
legibus quella «odiosa strumentalizzazione antemuciana» da
parte di Cicerone. Vedi anche A. Schiavone,
Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della
rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Roma-Bari 1987, 18:
«Nell’ammonimento c’è di nuovo tutto il segno dei
tempi. Il vecchio modello di sapere è rovesciato: non è
più la pratica pontificale che fonda la conoscenza del ius civile – ma è la
dottrina civilistica che giustifica il ruolo pontificale. Si fa strada in
questo modo una immagine ‘laica’ dei compiti sacerdotali, anche se
tuttora ancorata ad una ‘paideia’ che rimane totalizzante».
Vedi ancora F. Fontanella, Ius pontificium,
ius civile e ius naturae in De legibus II, 45-53, in
Athenaeum 84, 1996, 255 s.:
«Alla fine della Repubblica non solo la conoscenza del ius civile aveva ormai un fondamento del
tutto svincolato dalla autorità pontificale, così come dimostra
la distinzione ciceroniana fra ius civile
e ius pontificium, ma sembra
addirittura essere avvenuto un capovolgimento della situazione originaria a
favore di una visione laica del diritto». Sui rapporti tra ius pontificium e ius civile, da ultimo, M.
Johnson, The Pontifical Law and
the Civil Law. Towards an understanding of the Ius Pontificium, in Athenaeum 103, 2015, 140 ss., il quale
arriva alla conclusione che «We should therefore modify the traditional
view that posits a vague and pervasive pontifical influence over developed
Roman civil law, since the one attestation of either field influencing the
other shows the civil influencing the pontifical law» (156).
[18]
Su Publio Mucio Scevola, vedi, ad es.: E.S.
Gruen, The political allegiance of P. Mucius Scaevola, in Athenaeum
43, 1965, 321 ss.; G. Grosso, P.
Mucio Scevola tra il diritto e la politica, in Archivio giuridico
«F. Serafini» 175, 1968, 204 ss. (ora in Id., Tradizione e misura umana del
diritto, Milano 1976, 105 ss.); A.H. Bernstein,
Prosopography and the career of Publius
Mucius Scaevola, in Classical
Philology 67, 1972, 42 ss.; A.
Guarino, La coerenza di Publio Mucio, Napoli 1981; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, cit., 255 ss.; R.A.
Bauman, Lawyers in Roman Republican Politics. A study of the Roman
jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, 230 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili
nella Roma repubblicana, cit., 3 ss.; Id.,
Publio Mucio e la nascita della letteratura giuridica romana, in Roma
tra oligarchia e democrazia. Classi sociali e formazione del diritto in epoca
medio-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 28-31 maggio
1986, Napoli 1988, 139 ss.; Id.,
Linee di storia del pensiero giuridico
romano, Torino 1994, 41 ss.; F.
Wieacker, Römische
Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz
und Rechtsliteratur. I. Einleitung
Quellenkunde Frühzeit und Republik, München 1988, 547 s.; A. Palma, Publio Mucio Scevola e la ‘dote di Licinia’, in Fraterna munera. Studi
in onore di L. Amirante,
Salerno 1997, 323 ss.
[19] Questa testimonianza ciceroniana è stata oggetto di
diverse interpretazioni, ad es., M.
d’Orta, La giurisprudenza tra
Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990, 51,
legge nel passo una “interdipendenza” tra la sfera del sacro e
quella del profano, ma vedi le critiche nella recensione di M. Talamanca, in Bullettino dell’istituto di diritto romano 94-95, 1991-1992,
597: «Cic. Leg. 2, 47 non parla
[…] d’“interdipendenza” (fra il ius civile, ed il ius sacrum)
ma esprime soltanto il pensiero che i pontifices
dovessero ben conoscere il ius civile,
il che è cosa abbastanza diversa».
Il tema del rapporto tra ius civile e ius pontificium
ritorna in Cicerone: Brut. 156: audivi enim nuper eum studiose et frequenter
Sami cum ex eo ius nostrum pontificium, qua ex parte cum iure civili coniunctum
esset, vellem cognoscere; De orat.
3.136: Sin aliquis excellit unus e
multis, effert se, si unum aliquid adfert, aut bellicam virtutem aut usum
aliquem militarem – quae sane nunc quidem obsoleverunt -, aut iuris
scientiam – ne eius quidem universi; nam pontificium, quod est
coniunctum, nemo discit -, aut eloquentiam, clam in clamore et in verborum
cursu positam putant.
[20] R. Orestano,
Sulla problematica del segreto nel mondo romano, cit., 97 (= Gli «arcana» nel
mondo romano, cit., 14).
[21] In questo luogo non posso dar conto della sterminata
bibliografia dedicata a Cicerone; oltre al monumentale E. Costa, Cicerone giureconsulto, I, 2ª
ed., Bologna 1927 [rist., Roma 1964], mi limito a segnalare, soltanto, alcuni
lavori rivolti a profili giuridici: G.
Negri, Cicerone come ‘fonte
di cognizione’ del diritto privato romano. L’esempio della causa
curiana: appunti per una ricerca, D.
Mantovani, Cicerone storico
del diritto, in Ciceroniana n.s. 13, 2009 (= Atti del XIII Colloquium Tullianum. Milano,
27-29 marzo 2008), rispett. a
165 ss. e 297 ss.; M. Brutti, Cicerone, dalla virtù al diritto,
in Studia et Documenta Historiae et Iuris
77, 2011, 3 ss.; R. Fiori, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de officiis di
Cicerone, Napoli 2011; F. Fontanella,
Politica e diritto naturale nel De
legibus di Cicerone, Roma 2012; M.
Varvaro, Legittima difesa,
tirannicidio e strategia difensiva nell’orazione di Cicerone a favore di
Milone, in Annali del Seminario
Giuridico dell’Università di Palermo 56, 2013, 215 ss.; P.
Cerami, Giudice e legge nel pensiero
di Cicerone, in Legal roots 3,
2014, 281 ss.
[22] Sui pontifices e sul ius
pontificium, vedi spec.: K.D.
Hüllmann, Ius pontificium der Römer, Bonn 1837; J. Cauvet, Le droit pontifical chez les anciens romains dans ses rapports avec le
droit civil. Étude sur les antiquités juridiques de Rome,
Caen 1869; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome.
Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris
1871 [rist., New York 1975]; J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, I,
trad. fr. di M. Brissaud, Paris 1889, 281 ss.; E. Aust, Die Religion der Römer,
Münster i. W. 1899, 183 ss.; G.
Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München
1912, 501 ss.; N. Turchi, La
religione di Roma antica, Bologna 1939, 40 ss.; P. de Francisci, Primordia civitatis, Romae 1959, 440
ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, 400 ss., 195 ss.; M. Le Glay, La religion romaine, Paris 1971, 142 ss.; J. Guillén, Los
sacerdotes romanos, in Helmantica 24,
1973, 21 ss.; G.J. Szemler, v. Pontifex, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft,
Suppl. XV, München 1978, coll. 331 ss.;
R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes
romains: Pontifex Maximus et Rex
Sacrorum, in Hommages à H. Le
Bonniec. Res Sacrae, a cura di D. Porte e J.-P. Néraudau, Bruxelles
1988, 405 ss.; A.M. Smorchkov, Коллегия понтификов и понтификальное право в российской историографии,
in Ius Antiquum - Древнее Право 5, 1999, 109 ss.; Id., Коллегия понтификов, in Aa.Vv., Collegia sacerdotum Romae Primordialis. Ad problemam de incremento
iuris sacri et publici, Moskva 2001, 100 ss.; F. Van Haeperen, Le
collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.).
Contribution à l’étude de la religion publique romaine,
Bruxelles–Rome 2002; J. Delgado
Delgado, La legislación
pontifical sobre los alimentos empleados en la práctica cultual romana:
un modelo de gestión documental, in ’Ilu 12, 2004, 15 ss.; R.T. Ridley, The Absent Pontifex Maximus, in Historia 54, 2005, 275 ss.; C.M.A.
Rinolfi, Livio 1.20.5-7:
pontefici, sacra,
ius sacrum, in Diritto@Storia
4, 2005 (http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm ); D. Porte, Le
prêtre à Rome. Les donneurs de sacré, 2ª
ed., Paris 2007, 131 ss.; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio
Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli 2008 [rec. N. Rampazzo, «Pontificalia»,
in Index 38, 2010, 178 ss.]; Id., Il
problema dell’esistenza di un ius controversum in età
arcaica, cit.; M. Trommino, Struttura
e composizione del collegio dei pontefici. Da Liv., urb.
cond. 1.20.5 alla lex Ogulnia, una panoramica delle fonti, in Rivista di Diritto Romano 14, 2014, 1
ss. Cfr.
per l’età imperiale: F. Van
Haeperen, Des pontifes païens
aux pontifes chrétiens. Transformations d’un titre: entre pouvoirs
et représentations, in Revue belge de philologie et d’histoire 81, 2003, 137 ss.; A.
Cameron, The Imperial Pontifex, in Harvard Studies in Classical Philology 103, 2007, 341 ss.
[23] De dom. 104: ... vos [scil. pontifices], qui estis antistites caerimoniarum et
sacrorum ...; De leg. 2.20: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus
pontifices, singulis flamines sunto; De
re publ. 2.26: Idemque
Pompilius ... sacris e principum numero pontifices
quinque praefecit ...; De nat. deor. 1.122: ... sacris pontifices ...
[24] De nat. deor. 3.5: Non enim mediocriter moveor auctoritate tua Balbe
orationeque ea quae me in perorando cohortabatur ut meminissem me et Cottam
esse et pontificem; quod eo credo valebat, ut opiniones, quas a maioribus
accepimus de dis immortalibus, sacra caerimonias religionesque defenderem. Ego
vero eas defendam semper semperque defendi, nec me ex ea opinione, quam a
maioribus accepi de cultu deorum inmortalium, ullius umquam oratio aut docti
aut indocti movebit; De har. resp. 18:
Ego vero primum habeo auctores ac
magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse
sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non
dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint, qui statas sollemnisque
caerimonias pontificatu ...; De
leg. 2.48: Haec posite haec iura pontificum auctoritate consecuta sunt,
ut, ne morte patris familias sacrorum memoria occideret, iis essent ea
adiuncta, ad quos eiusdem morte pecunia venerit; 2.55: totaque huius iuris conpositio pontificalis
magnam religionem caerimoniamque declarat. Cfr. anche De nat. deor.
1.61: Itaque ego ipse pontifex, qui caerimonias religionesque publicas
sanctissime tuendas arbitror.
[25]
Intorno al pensiero religioso di Cicerone, vedi, ex multis: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, Stuttgart 1935
[rist., Darmstadt 1963]; P. Deforny, Les fondaments de la religion
d’après Cicéron, in Les
études classiques 22, 1954, 241 ss., 366 ss.; S. Jannaccone, Divinazione e culto ufficiale nel pensiero di Cicerone, in Latomus 14, 1955, 116 ss.; J.E. Rexine, Religion in Plato and Cicero, New York 1959 [rist., 1968]; R.D.
Sweeney, Sacra in the Philosophic
Works of Cicero, in Orpheus 12,
1965, 99 ss.; A.E.H. Ben Mansour,
Aspects
de la religion de Cicéron,
in Bulletin de l’Association G.
Budé 3, 1970, 359 ss.; J.
Guillén, Dios y los dioses
en Cicerón, in Helmantica 25,
1974, 511 ss.; J.-M. André, La philosophie religieuse de Ciceron.
Dualisme Académique et Tripartition Varronienne, J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à K. Kumaniecki, a cura di A. Michel,
Leiden 1975, rispettivamente a 11 ss. e 116 ss.; L. Troiani, La
religione e Cicerone, in Rivista
storica italiana 96, 1984, 920 ss.; C.
Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischen Rom, Stuttgart 1992; J. Guillén Cabañero, Teología de Cicerón, Salamanca 1999; M.E. Cairo, Religio como elemento central de la identidad romana en De
divinatione de Cicerón, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica 114.3,
2016, 75 ss.
[26] De nat. deor. 3.5: Cumque omnis populi
Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si
quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes
haruspicesve monuerunt ...
[27] De nat. deor. 2.8; vedi anche 1.117: Horum
enim sententiae omnium non modo superstitionem tollunt, in qua inest timor
inanis deorum, sed etiam religionem, quae deorum cultu pio continetur. La centralità delle pratiche
cultuali in Roma antica è posta in evidenza specialmente da J. Scheid, La parole des dieux. L’originalité
du dialogue des Romains avec leurs dieux, in Opus 6-8, 1987-1989, 129; Id., Les espaces cultuels et leur interprétation, in Klio 77, 1995, 424, il quale qualifica
la religio Romana come
«orthopraxie»; sul ritualismo dei Romani vedi anche Id., Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains,
Paris 2005, 7 ss. (cfr. la
recensione di C. Ando, Evidence and Orthopraxy, in The Journal
of Roman Studies 99,
2009, 171 ss.).
[28] De nat. deor. 3.94: Est enim mihi te cum pro aris et focis certamen et pro deorum templis
atque delubris proque urbis muris, quos vos pontifices sanctos esse dicitis diligentiusque urbem religione
quam ipsis moenibus cingitis.
[30] De orat. 3.134: Haec fuit P. Crassi illius veteris, haec Ti.
Coruncani, haec proavi generi mei Scipionis prudentissimi homini sapientia, qui
omnes pontifices maximi fuerunt, ut ad eos de omnibus divinis atque humanis
rebus referretur.
[31] Vedi ancora, ad es.: De dom. 139: ... Ti. Coruncani scientia, qui peritissimus pontifex fuisse dicitur ...; Brut.
55: Ti. Coruncanium, quod ex pontificum commentariis longe plurumum
ingenio valuisse videatur; De am.
1: ... ad pontificem Scaevolam contuli, quem unum nostrae civitatis et
ingenio et iustitia praestantissimum audeo dicere. Cfr. Philipp. XIII.7: At enim nos M. Lepidus, imperator iterum, pontifex maximus, optime proximo civili bello de re publica
meritus, ad pacem adhortatur. Nullius
apud me, patres conscripti, auctoritas maior est quam M. Lepidi vel propter
ipsius virtutem vel propter familiae dignitatem.
[32] Per il ricorso
ciceroniano agli exempla, J.-M. David, Maiorum exempla sequi:
l’exemplum historique dans les
discours judiciaires de Cicéron, in Mélanges de l’Ecole
française de Rome. Moyen-Age, Temps modernes 92, 1980, 67
ss. Vedi anche, sull’avversione ciceroniana per l’oblio, C. Moatti, Tradition et raison chez Cicéron:
l’émergence de la rationalité politique à la fin de
la République romaine, in Mélanges
de l’Ecole française de Rome. Antiquité 100, 1988, 387 ss.
[34] In materia, C.
Venturini, L’esilio di
Cicerone tra diritto e compromesso politico, in Ciceroniana
n.s. 13, 2009 (= Atti del XIII Colloquium
Tullianum. Milano, 27-29 marzo 2008),
281 ss.
[35] Sul tribuno della plebe, vedi, ad es.: C. Gallini, Politica religiosa di Clodio, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 33, 1962, 257 ss.; A.W.
Lintott, P. Clodius Pulcher-Felix Catilina?, in Greece & Rome
14, 1967, 157 ss.; W.M.F. Rundell,
Cicero and Clodius: The Question of
Credibility, in Historia 28,
1979, 301 ss.; H. Benner, Die Politik des P. Clodius Pulcher.
Untersuchungen zur Denaturierung des Clientelwesen in der ausgehenden
römischen Republik, Stuttgart 1987;
D. Mulroy, The Early Career of P. Clodius Pulcher: A
Re-Examination of the Charges of Mutiny and Sacrilege, in Transactions of the American Philological
Association 118, 1988, 155 ss.; J. Spielvogel,
P. Clodius Pulcher: Eine Politische
Ausnahme-Erscheinung der Späten Republik?, in Hermes 125, 1997, 56 ss.; L.
Fezzi, La legislazione tribunizia
di Publio Clodio Pulcro (58 a.C.) e la ricerca del consenso a Roma, in Studi Classici e Orientali 47, 1999,
245 ss.; Id., Il tribuno Clodio, Roma-Bari 2008; E. Winsor Leach, Gendering Clodius, in The Classical
World 94, 2001, 335 ss.; J.L.
Butrica, Clodius the Pulcher in Catullus and Cicero, in The Classical Quarterly 52, 2002, 507
ss.; J. Cels Saint-Hilaire, P. Clodius, ses amis, ses partisans, sous le
regard de Cicéron, in Dialogues d’histoire ancienne suppl.
1, 2005, 69 ss.
[36] L’atto rientrava nelle competenze del collegio,
sebbene i pontefici operassero ex
auctoritate populi Romani: Gaius, Inst.
2.5: Sed sacrum quidem hoc solum
existimatur quod ex auctoritate populi Romani consecratum est, veluti lege de
ea re lata aut senatusconsulto facto; I. 2.1.8: Sacra sunt, quae rite et per pontifices deo consecrata sunt, veluti
aedes sacrae et dona, quae rite ad ministerium dei dedicata sunt, quae etiam
per nostra constitutionem alienari et obligari prohibuimus, excepta causa
redemptionis captivorum.
[37] Vedi Cicero, De har. resp. 12: At
vero meam domum P. Lentulus consul et pontifex,
P. Servilius, M. Lucullus, Q. Metellus, M’. Glabrio, M. Messalla, L.
Lentulus flamen Martialis, P. Galba, Q. Metellus Scipio, C. Fannius, M.
Lepidus, L. Claudius rex sacrorum, M. Scaurus, M. Crassus, C. Curio, Sex.
Caesar flamen Quirinalis, Q. Cornelius, P. Albinovanus, Q. Terentius pontifices minores causa cognita, duobus
locis dicta, maxima frequentia amplissimorum ac sapientissimorum civium
adstante omni religione una mente omnes liberaverunt (cfr.: L. Ross Taylor, Caesar’s colleagues in the pontifical college, in The American Journal of Philology 63,
1942, 389 ss.; A. Drummond, The Ban on Gentiles Holding the Same Priesthood and Sulla’s Augurate, in Historia 57, 2008, 381 ss.).
Sulla vicenda intorno alla casa di Cicerone, vedi, ad
esempio: W. Allen Jr., Cicero’s House and Libertas, in Transactions and Proceedings of the American
Philological Association 75, 1944, 1 ss.; B.
Berg,
Cicero’s Palatine home and
Clodius’ shrine of liberty: alternative emblems of the Republic in
Cicero’s De domo sua, in Studies
in Latin literature and Roman history, VIII, a cura di C. Deroux, Bruxelles 1997, 122 ss.; M. Beard–J. North–S. Price, Religions of Rome. I. A
History, Cambridge 1998, 114 ss.; C.J. Classen, Diritto retorica, politica. La strategia
retorica di Cicerone, trad. it., Bologna 1998, 219 ss.; W. Stroh, De Domo Sua: Legal Problem and Structure,
in Cicero. The Advocate, a cura di J.
Powell e J. Paterson, Oxford 2004, 313 ss. Sugli aspetti politici e religiosi
del De domo, vedi C. Bergemann, Politik und Religion im
spätrepublikanischen Rom, Stuttgart 1992, 3 ss.; F. Van Haeperen,
Le collège pontifical, cit., 188 ss.; A. Lisdorf, The
Conflict over Cicero’s House: An Analysis of the Ritual Element in De
Domo Sua, in Numen 52, 2005, 445 ss.;
J. Lennon, Pollution and ritual impurity in Cicero’s De domo sua, in The Classical Quarterly 60, 2010, 427
ss. Cfr. inoltre R.J. Goar, Cicero and the State Religion, Amsterdam
1972, 45 ss.; J. Platschek, Das responsum des Pontifikalkollegiums de
domo Ciceronis, in Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto 3, 2013, 107
ss.
[40] De
dom. 1: Cum multa divinitus,
pontifices, a maioribus nostris inventa atque instituta sunt, tum nihil
praeclarius quam quod eosdem et religionibus deorum immortalium et summae rei
publicae praesse voluerunt, ut amplissimi et clarissimi cives rem publicam bene
gerendo religiones, religionibus sapienter interpretando rem publicam
conservarent. Quod si ullo tempore magna causa <in> sacerdotum populi
Romani iudicio ac potestate versata est, haec profecto tanta est ut omnis rei
publicae dignitas, omnium civium salus, vita, libertas, arae, foci, di penates,
bona, fortunae, domicilia vestrae sapientiae, fidei, potestate commissa
creditaque esse videantur.
Le doti dei pontefici sono enumerate anche in De har. resp. 14: ad
pontifices reicietur, quorum auctoritati, fidei, prudentiae maiores nostri
sacra religionesque et privatas et publicas commendarunt.
[41] Sul concetto di libertas
nell’opera di Cicerone, vedi J.
Daza Martinez, «Ius»,
«libertas» en Cicerón (Significació actual de su
planteamiento), in Estudios en
homenaje al profesor F. Hernandez-Tejero, II, Madrid 1992 [ma 1994], 97 ss.
In generale, vedi, da ultimo, M.
Genovese, Libertas e civitas in Roma antica, Acireale-Roma 2012, e A. Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica: storiografia annalistica ed elaborazioni
giurisprudenziali, in Diritto@Storia
11, 2013 (http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm
).
[42] Sul buon governo e la cura della res publica nel pensiero ciceroniano, vedi G. Jossa, L’«utilitas
rei publicae» nel pensiero di Cicerone, in Studi Romani 12.2, 1964, 269 ss.
[43] Vedi, ad es.: De
dom. 2: sin autem vestra auctoritate
sapientiaque, pontifices ...; 44: Hanc vos igitur, pontifices, iudicio atque auctoritate vestra tribuno plebis
potestatem dabitis, ut proscribere possit quos velit?; 45: Vobismet ipsis, pontifices, et vestris liberis ceterisque civibus pro vestra
auctoritate et sapientia consulere debetis; 69: ... vosque, pontifices, qui
me vestris sententiis auctoritatibusque defendistis ...; 100: Sed hic meus reditus, pontifices, vestro iudicio continetur.
Nam si vos me in meis aedibus conlocatis, id quod in omni mea causa semper
studiis, consiliis, auctoritatibus sententiisque fecistis, video me plane ac
sentio restitutum; 132: Ac si
collegium pontificum adhibendum
non videbatur, nemo ne horum tibi idoneus visus est, qui aetate, honore,
auctoritate antecellunt, cum quo dedicationem communicares?; 137: Tum censorem, hominem sanctissimum,
simulacrum Concordiae dedicare pontifices
in templo inaugurato prohibuerunt, post autem senatus in loco augusto consecratam
iam aram tollendam ex auctoritate pontificum
censuit ...; De leg. 2.52: Nam sacra cum pecunia
pontificum auctoritate, nulla lege coniuncta sunt. Itaque si vos tantum modo pontifices essetis, pontificalis maneret auctoritas ...
[45] Afferma la non
univocità della nozione di auctoritas,
ad esempio, A.
Magdelain, «Auctoritas rerum», in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 5,
1950, 127 ss. (ora in Id.,
Jus imperium auctoritas. Études de droit romain, Rome 1990, 685
ss.). Per i vari significati
del termine vedi la v. auctōritās
del Münscher, in Thesaurus Linguae Latinae, II, Lipsiae
1903, coll. 1213 ss.
[46] Per la derivazione etimologica del termine da augeo, A. Ernout–A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine. Histoire des mots, rist. 4ª
ed., a cura di J. André, Paris 2001, 56 s.
Sull’auctoritas,
vedi, da ultimo, A.I. Clemente
Fernández, La auctoritas
romana, Madrid 2014 (con ampia discussione della letteratura), e Y. Berthelet, Gouverner avec les dieux. Autorité, auspices et pouvoir, sous la République romaine et
sous Auguste, Paris 2015, spec.
18 ss., il quale collega
questo concetto all’auctoritas di
Juppiter.
[49] Ad es.:
Cicero, De dom. 120: M. Drusus, ille clarissimus vir, tribunus
plebis pontifex fuit; De prov. cons. 21: An vero M. ille Lepidus qui bis consul et pontifex maximus fuit ...; Philipp. V.45: C. Caesar, Gai filius, pontifex,
pro praetore; XI.18: Crassus
consul, pontifex maximus ...;
XIII.7 (testo supra nt. 31); Livius 27.5.19: ... P. Licinius Crassus pontifex maximus magister equitum dictus;
40.51.1: Princeps lectus est ipse censor
M. Aemilius Lepidus pontifex maximus; CIL IV.1, nr. 1301: Cn. Domitius M. f. Calvinus pontifex cos.
ite imper. de manibeis; nr. 1310: C.
Iulius L. f. Caesar Strabo aed. cur. q. tr. mil. bis X vir. agr. dand. adtr.
iud. pontif.; nr. 1312: M. Livius M.
f. Cn. Drusus
pontifex, tr. mil., X vir stlit. iudic., tr. pl., X vir a. d. a. ...
Vedi anche Cicero, De nat. deor. 2.168:
Tu autem Cotta si me audias eandem causam
agas teque et principem civem et pontificem esse cogites.
[50] Vedi, ad es.: Philipp.
V.40 s.: Cum a M. Lepido imperatore, pontifice maximo ... 41. Sex<tus>que Pompeius, Gnaei filius,
Magnus, huius ordinis auctoritate[m] ab armis discesserit et a M. Lepido
imperatore, pontifice maximo ...;
53: ... C. Caesar, pontifex, pro praetore ...
[51]
In materia, vedi in particolare: Th.
Mommsen,
Die römische Chronologie bis auf
Caesar, 2ª ed., Berlin
1859; A.K.
Michels, The “Calendar of Numa” and the Pre-Julian Calendar, in Transactions and Proceedings of the
American Philological Association 80, 1949, 320 ss.; Id.,
The Calendar of Roman Republic,
Princeton 1967; P. de
Francisci, Primordia civitatis, cit., 322 ss.; J.-Cl. Richard, Le
calendrier préjulien, in Revue
des Études
Latines 46, 1968, 54 ss.; C. Guittard, Le calendrier
romain des origines au milieu du Ve siècle avant J.-C., in Bulletin de l’Association G.
Budé 2, 1973, 203 ss.; A.W.J. Holleman, Les calendriers préjuliens à Rome, in L’antiquité
classique 47, 1978,
201 ss.; G. Radke, Fasti Romani. Betrachtungen
zur Frühgeschichte des römischen Kalenders,
Münster 1990; L. Arcella, Fasti. Il lavoro e la
festa. Note al calendario romano arcaico, Roma 1992; J. Rüpke, Fasti. Quellen oder Produkte römischer Geschichtsschreibung?, in
Klio 77, 1995, 184 ss.; Id., Kalender und Öffentlichkeit. Die Geschichte der
Repräsentation und religiösen
Qualifikation von Zeit in Rom, Berlin-New York 1995; Id., La religione dei
Romani, (tit. orig.: Die Religion der
Römer, München 2001), trad. it. di U. Gandini, Torino 2004, 205
ss.; L. Magini, Astronomy and calendar in ancient Rome: the
eclipse festivals, Roma 2001; Id., Astronomia etrusco-romana, Roma 2003; N. Donati–P. Stefanetti, Dies natali. I
calendari romani e gli anniversari dei culti, Roma 2006.
[52]
Sull’intercalare vedi, ad es.: A.K. Michels, The Intercalary Month in the Pre-Julian Calendar, in Hommages à A. Grenier, a cura di
M. Renard, Bruxelles 1962, 1174 ss.;
V.M. Warrior, Notes on Intercalation,
in Latomus 50, 1991, 80 ss.; Id., Intercalation and the Action of M’. Acilius Glabrio (cos. 191 BC),
in Studies in Latin Literature and Roman
History, VI, a cura di C. Deroux, Bruxelles 1992, 119 ss.
[53] Su «Pontifes
et gestion du temps à Rome», F. Van
Haeperen, Le collège
pontifical, cit., 216 ss.
[54] M. Le Glay, La religion romaine, cit., 19 s.
Sulla «centralità del tempo (o più
concretamente dei giorni e delle stagioni) nelle pratiche cultuali
dell’antica religione romana, finalizzate sempre alla conservazione della
pax deorum», rinvio per tutti alle riflessioni di F. Sini, Qualificazione/riqualificazione
religiosa del tempo nei documenti dei sacerdoti in Roma repubblicana, in Diritto@Storia
12, 2014, http://www.dirittoestoria.it/12/tradizione-romana/Sini-Tempo-documenti-sacerdoti-Roma-repubblicana.htm (ivi ampia rassegna di fonti e
bibliografia).
[55]
Svetonius, Caes. 40.1: Conversus hinc ad ordinandum rei publicae
statum fastos correxit iam pridem vitio pontificum per intercalandi licentiam
adeo turbatos, ut neque messium feriae aestate neque vindemiarum autumno
conpeterent; Censorinus, De die nat.
20.7: Sed horum plerique ob odium vel
gratiam, quo quis magistratu citius abiret diutiusve fungeretur aut publici
redemptor ex anni magnitudine in lucro damnove esset, plus minusve ex libidine
intercalando rem sibi ad corrigendum mandatam ultro quod depravarunt.
[56]
Così F. Bona, “Ius pontificium” e “ius
civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana, cit., 224
ss. (= Id., Lectio sua, II, cit., 983
ss.).
[57]
Ovidius, Fast. 3.155 s.; Plinius, Nat. hist. 18.211; Svetonius, Iul. 40; Censorinus, De die
nat. 20.8-10; Macrobius, Sat. 1.14.6-13.
Sulla riforma cesariana, vedi per tutti L.
Polverini, Il calendario giuliano,
in L’ultimo Cesare. Scritti riforme
progetti poteri congiure. Atti del convegno internazionale. Cividale del
Friuli, 16-18 settembre 1999, a cura di G. Urso, Roma 2000, 245 ss.
[58] Ad Att. 5.21.14: Cum scies
Romae intercalatum sit necne, velim ad me scribas certum quo die mysteria
futura sint. Cfr. anche Ad Att. 6.1.26:
Sed ut tibi placebit, faciesque me in
quem diem Romana incidant mysteria certiorem et quo modo hiemaris
(sull’identificazione dei mysteria menzionati
da Cicerone rimando alle note di L.
Richardson Jr., Cicero Att. 5.21.14 and the Romana Mysteria, in Phoenix 55, 2001, 411 ss.).
[59] Per questa orazione, vedi spec.: A. Boulanger, Notice, in Cicéron, Discours XI, Paris 1962, 9 ss.; C. Moatti, Droit et politique dans le «Pro Murena» de Cicéron, in Revue Historique de Droit
français et étranger 61, 1983,
515 ss.; J. Adamietz, Ciceros Verfahren in den Ambitus-Prozessen
gegen Murena und Plancius, in Gymnasium
93, 1986, 102 ss.; R. Stem, Cicero
as Orator and Philosopher: The Value of the Pro Murena for Ciceronian Political
Thought, in The Review of Politics
68, 2006, 206 ss.; I. Sándor, Diritto, religione, retorica nella Pro
Murena, in Index 35, 2007, 117 ss.
[60] È lo stesso Cicerone, nella Philipp. IX, a compiere l’elogio funebre del giurista. Per i
rapporti tra i due personaggi, vedi per tutti M.
Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 79 ss.
[61] Sul giurista e la sua opera vedi, ad es.: F.D. Sanio,
Zur Geschichte der römischen
Rechtwissenschaft. Ein Prolegomenon, Königsberg 1858 [rist., Napoli
1981], 54 ss.; P. Meloni, Servio Sulpicio Rufo e i suoi tempi. Studio Biografico, in Annali della Facoltà di Lettere e
Filosofia della Università di Cagliari 13, 1946, 66 ss.; W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung, 2ª ed., Graz 1967 [rist.,
Köln-Weimar-Wien 2001], 25; S.
Tafaro, «Causa
timoris» e «migratio inquilinorum» in un responso serviano, in Index 5, 1974-75, 49 ss.; P.
Stein, The place of Servius
Sulpicius Rufus in the development of Roman legal science, in Festschrift für F. Wieacker zum 70.
Geburtstag, a cura di O. Behrends, M. Dießelhorst, H. Lange, D.
Liebs, J.G. Wolf, C. Wollschläger, Göttingen 1978, 175 ss.; F.P. Casavola, Giuristi
adrianei, Napoli 1980, 135 ss.; M.
Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 91 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, cit., 602 ss.; F. D’Ippolito, Questioni decemvirali, Napoli 1993, 137
ss. (vedi anche l’appendice I
maestri di Servio, ora in Per la
storia del pensiero giuridico romano, cit., 29 ss.); A. Schiavone,
Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, cit., 109 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, cit., 97 ss.; C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, cit., 266 ss.; O. Beherends, Das Gewaltmonopol der Magistratur der klassischen Republik in einer
Fallentscheidung des Servius Sulpicius Rufus, in Viva vox iuris. Essays in honour of J.E. Spruit, a cura di L. De
Ligt, J. De Ruiter, E. Slob, J.M. Tevel, M. van De Vrugt, L.C. Winkel,
Amsterdam 2002, 283 ss.; J. Paricio, La vocación de Servio Sulpicio Rufo,
in Iurisprudentia universalis.
Festschrift für T. Mayer-Maly zum 70. Geburtstag, a cura di M.J.
Schermaier, J.M. Rainer, L.C. Winkel, Köln-Weimar-Wien 2002, 549 ss.; F. Briguglio, Servio Sulpicio e la definizione di tutela: vis ac potestas o ius ac potestas?, in Studi in onore di A.
Metro, I, a cura di C. Russo
Ruggeri, Milano 2009, 163 ss.; L. Vacca,
La giurisprudenza nel sistema delle
fonti del diritto romano, cit., 50 ss., 64 ss. Per una palingenesi
dell’opera serviana rimando a M.
Miglietta, «Servius respondit». Studi
intorno a metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana -
Prolegomena I -, Trento 2010.
Una ricostruzione delle argomentazioni dell’accusa
mosse dal giurista è offerta da M. Pierpaoli,
L’orazione di Servio
Sulpicio Rufo nel processo di Murena, in Maia 49, 1997, 231 ss.
[62] Così
A. Boulanger, Notice, cit., 21: «Cicéron
s’adonne au jeu un peu pervers d’exposer des opinions de
circonstance qui contredisent formellement ses doctrines les plus chères
où sa vanité est le plus intéressée. C’est
ainsi qu’en magnifiant le militaire aux dépens du togatus et même de l’orateur
(§ 20), il donne par avance un démenti, ou du moins une
contre-partie au mot fameux “cedant
arma togae, concedat laurea linguae”. De même la charge
à fond contre la science du jurisconsulte succède, à peu
d’années d’intervalle, au panégyrique enthousiaste de
cette science qu’on trouve dans le pro
Caecina». Per
il tortuoso atteggiamento di Cicerone verso i giuristi, rimando a F. Lucrezi, Iurisperiti - iuris
imperiti da Cicerone a Lorenzo
Valla, in Ciceroniana n.s. 9,
1996, 133 ss.
[63] Cicero, Pro Caecin.
70: Nam qui ius civile
contemnendum putat, is vincula
revellit non modo iudiciorum, sed etiam utilitatis vitaeque communis; qui autem interpretis iuris vituperat, si inperitos iuris
esse dicit, de hominibus, non de iure civili detrahit; sin peritis non putat esse optemperandum, non homines laedit, sed legis ac
iura labefactat: quod vobis venire in mentem profecto necesse est, nihil esse
in civitate tam diligenter quam ius civile retinendum.
Etenim hoc sublato nihil est quare exploratum cuiquam possit esse, quid suum
aut quid alienum sit, nihil est quod aequabile inter omnes atque unum omnibus
esse possit. M. Talamanca, L’oratore,
il giurista, il diritto nel De
oratore di Cicerone, in Ciceroniana
n.s. 13, 2009 (= Atti del XIII Colloquium
Tullianum. Milano, 27-29 marzo 2008),
34, evidenzia «come Cicerone si muovesse coerentemente nell’ambito
della concezione tradizionale del ruolo del giurista, in definitiva sottoposto
solo al controllo, ancorché indiretto, della comunità».
[64] Vedi
anche Pro Caecin. 67: ... non numquam ab ingeniosis hominibus
defendi mihi mirum videri solet, nec iuris consultis concedi nec ius civile in
causis semper valere oportere.
Rimando in merito ad A. Magdelain, «Jus
respondendi», in Revue Historique de Droit français et
étranger 28, 1950, 166 s.
(ora in Id., Jus imperium
auctoritas, cit., 136): «Le Pro
Caecina fait état d’une condamnation radicale du droit
jurisprudentiel prononcée par une partie de l’opinion publique.
[...] Personne à Rome ne peut avoir proclamé le mépris du
droit. Jus civile est, dans ce texte,
comme souvent dans la langue cicéronienne, l’interpretatio. Le mépris, dont parle Cicéron, ne
concernait que la jurisprudence».
[66] Pro Mur. 21: Summa in utroque
est honestas, summa dignitas; quam ego, si mihi per Servium liceat, pari atque
in eadem laude ponam. Sed non licet; agitat rem militarem, insectatur totam
hanc legationem, assiduitatis et operarum harum cotidianarum putat esse
consulatum. ‘Apud exercitum mihi fueris’ inquit ‘tot annos,
forum non attigeris; afueris tam diu et, cum longo intervallo veneris, cum his
qui in foro habitarint de dignitate contendas?’.
[67] Pro Mur. 15 ss.
[68] Vedi spec. Pro Mur. 22-24: Sed ut hoc
omisso ad studiorum atque artium contentionem revertamur: qui potest dubitari quin
ad consulatum adipiscendum multo plus adferat dignitatis rei militaris quam
iuris civilis gloria? Vigilas
tu de nocte ut tuis consultoribus respondeas, ille ut eo quo intendit mature
cum exercitu perveniat; te gallorum, illum bucinarum cantus exsuscitat; tu
actionem instituis, ille aciem instruit; tu caves ne tui consultores, ille ne
urbes aut castra capiantur; ille tenet et scit ut hostium copiae, tu ut aquae
pluviae arceantur; ille exercitatus est in propagandis finibus tuque in
regendis. Ac nimirum - dicendum est enim quod sentio - rei militaris virtus
praestat ceteris omnibus. Haec nomen populo Romano, haec huic urbi aeternam
gloriam peperit, haec orbem terrarum parere huic imperio coegit; omnes urbanae
res, omnia haec nostra praeclara studia et haec forensis laus et industria
latent in tutela ac praesidio bellicae virtutis. Simulatque increpuit suspicio
tumultus, artes ilico nostrae conticiscunt. 23. Et quoniam mihi videris istam scientiam
iuris tamquam filiolam osculari tuam, non patiar te in tanto errore versari ut
istud nescio quid quod tanto opere didicisti praeclarum aliquid esse arbitrere.
Aliis ego te virtutibus, continentiae, gravitatis, iustitiae, fidei, ceteris
omnibus, consulatu et omni honore semper dignissimum iudicavi; quod quidem ius
civile didicisti, non dicam operam perdidisti, sed illud dicam nullam esse in
illa disciplina munitam ad consulatum viam. Omnes enim artes quae nobis populi
Romani studia concilient et admirabilem dignitatem et pergratam utilitatem
debent habere. 24. Summa dignitas est
in iis qui militari laude antecellunt; omnia enim quae sunt in imperio et in
statu civitatis ab his defendi et firmari putantur; summa etiam utilitas,
siquidem eorum consilio et periculo cum re publica tum etiam nostris rebus
perfrui possumus. Gravis etiam illa est et plena dignitatis [dicendi] facultas
quae saepe valuit in consule deligendo, posse consilio atque oratione et
senatus et populi et eorum qui res iudicant mentes permovere.
[69] In materia, mi sia permesso rinviare a C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, cit.,
§ 3.
[70] Per il personaggio vedi, da ultimo, T. Lanfranchi, À propos de la carrière de Cn. Flavius, in Mélanges
de l’Ecole française de Rome. Antiquité 125, 2013, 175 ss. Cfr. anche P. Fioretti, Scribae. Riflessioni sulla cultura
scritta nella Roma antica, in Storia
delle scritture e altre storie (suppl. 29 al Bollettino dei classici), a cura di D. Bianconi, 2014, 337 ss.
[71] Livius 9.46.5: civile
ius, repositum in penetralibus pontificum, evulgavit fastosque circa forum in
albo proposuit, ut, quando lege agi posset, sciretur; Valerius Maximus
2.5.2: Ius civile per multa saecula inter
sacra caerimoniasque deorum inmortalium abditum solisque pontificibus notum Cn.
Flavius libertino patre genitus et scriba, cum ingenti nobilitatis indignatione
factus aedilis curulis, vulgavit ac fastos paene toto foro exposuit.
Critica questa tradizione, ad esempio, C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, cit., 142: «in realtà,
il ius civile non era più, come
invece si ripete raccontando la storiella delle pubblicazioni di Gneo Flavio
(Liv.9,46,5), tutto repositum in
penetralibus pontificum, poiché le dodici tavole ne contenevano
abbastanza per poterci, avendo sott’occhio le actiones, ragionar sopra».
[72] Cfr., De orat.
1.200: Est enim sine dubio domus iuris consulti totius oraculum civitatis, dove
Cicerone richiama l’immagine allegorica dell’oracolo.
[73] G. Sfameni
Gasparro, Oracoli Profeti Sibille.
Rivelazione e salvezza nel mondo antico, Roma 2002, 57.
[76] Su questa opera, rinvio per tutti a F. Bona, Contributo allo studio della composizione del «de verborum
significatu» di Verrio Flacco,
Milano 1964.
[77] Festus, De verb. sign., p. 198 L.: Ordo sacerdotum aestimatur deorum
<ordine, ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post
hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in
soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem;
Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus:
Dialis, quia universi mundi sacerdos, qui appellatur Dium; Martialis, quod Mars
conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito
Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum
humanarumque.
Per le varie manifestazioni del concetto di potenza,
«che invade il mondo», vedi P. de
Francisci, Primordia civitatis, cit., 199 ss. Lo studioso
rinviene una antichissima “fase dinamistico-animista” della storia
di Roma, caratterizzata dall’idea che una serie di “potenze”
interagissero sulla vita del singolo e su quella dell’intera
società, che affiora dalle fonti, ad es. in Festus, vv. Magisteria e Ordo sacerdotum, De
verb. sign., pp. 140 e 198 L., «proprio là dove si tratta di
fissare la posizione di magistrati o di sacerdoti» (364).
[78] Plutarchus, Num. 9.2:
Κεκλῆσθαι δὲ τοὺς ποντίφικας οἱ μὲν ὅτι τοὺς
θεοὺς
θεραπεύουσι
δυνατοὺς
καὶ κυρίους ἁπάντων ὄντας·
ὁ γὰρ δυνατὸς ὑπὸ Ῥωμαίων ὀνομάζεται πότηνς.
Per l’uso del termine in riferimento alla
divinità, vedi, ad es.: Seneca phil.,
Ad Luc. 31.10: ... deus ille maximus
potentissimusque ipse vehit omnia; Apuleius, Met. 11.10: ... et antistites
sacrorum proceres illi, qui candido linteamine cinctum pectoralem adusque
vestigia strictim iniecti potentissimorum deum proferebant insignis exuvias.
[79]
Termini questi legati allo svolgimento dei rituali, vedi, ad esempio: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome,
cit., 13; P. Flobert, La relation de sacrificare et de sacerdos, cit., 171 ss. Per le
diverse accezioni del verbo posse
vedi: Æ. Forcellini, Totius latinitatis Lexicon, III,
consilio et cura J. Facciolati, III, Patavii 1771, 478; G. Kuhlmann, v. possum, in Thesaurus Linguae
Latinae, X.2, fasc. 1, Leipzig 1980, coll. 125 ss.; fasc. 2, Leipzig 1982,
coll. 153 ss.
[80] Sulla vita, l’ideologia e l’opera del giurista
vedi, specialmente: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana,
cit., 81 ss.; O. Behrends, Die Wissenschaftslehre im Zivilrecht des Q.
Mucius Scaevola pontifex, in Nachrichten
der Akademie Wissenschaften in Göttingen. I.
Philologisch-historische Klasse 7, 1976, 265 ss.; A. Schiavone, Nascita della giurisprudenza. Cultura aristocratica e pensiero
giuridico nella Roma tardo-repubblicana, Roma-Bari 1976, 71 ss.; Id., Giuristi e nobili nella Roma repubblicana, cit., 25 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, cit., 47 ss.; B. Albanese, Volontà negoziale e forma in una testimonianza di Q. Mucio
Scevola, in De iustitia et iure. Festgabe für U. von Lübtow
zum 80. Geburtstag, a cura di M. Harder e G. Thielmann, Berlin
1980, 155 ss. (= Id., Scritti giuridici, II, cit., 1523 ss.); R.A. Bauman, Lawyers in Roman
Republican Politics, cit., 340 ss.; M.
Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, cit., 107 ss.; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, cit., 595 ss.; V. Giuffrè, La traccia di Quinto Mucio. Saggio su «ius civile» / «ius
honorarium», Napoli 1993; M.J. Casado Candelas, Primae
luces. Una introducción al estudio del origen de la jurisprudencia
romana, Valladolid 1994, 61 ss.; A. Fernández
de Buján, Sistemática y ius civile en las obras
de Quintus Mucius Scaevola y de Accursio, in Revista Jurídica de la Universidad Autónoma de Madrid
6, 2002, 57 ss.; R. Fiori,
Contrahere e solvere obligationem in Q. Mucio Scevola, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna, a cura di C. Cascione e C. Masi Doria, Napoli 2007, 1955
ss.; M.-Cl. Ferriès–F. Delrieux, Quintus Mucius Scaevola, un gouverneur
modèle pour les Grecs de la province d’Asie?, in Les gouverneurs et les provinciaux sous la
République romaine, a cura di N. Barradon e F. Kirbihler, Rennes 2011, 207 ss.
[81] Varro, De ling. Lat. 5.83:
Sacerdotes universi a sacris dicti.
Pontufices, ut [a] Sc<a>evola Quintus pontufex maximus dicebat, a posse
et facere, ut po[n]tifices (Ph.E. Huschke,
Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, 5ª ed., Lipsiae 1886, 14 fr. 9; F.P. Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt. I. Liberae rei publicae iuris consulti,
Lipsiae 1896, 57 fr. 5).
Sull’etimologia del termine pontifex,
vedi, ad es.: R.G. Kent, The Vedic Path of the Gods and the Roman
Pontifex, in Classical Philology
8, 1913, 317 ss.; F. Ribezzo, Pontifices ‘quinionalis sacrificii
effectores’. I, e Id., I pontifices nella organizzazione e nella
struttura della città italica, in Rivista indo-greco-italica di filologia lingua-antichità 15,
1931, 56 e 75 ss.; E. Evangelisti, Per l’etimologia di pontifex,
Brescia 1969; J.P. Hallett, “Over Troubled Waters”: The
Meaning of the Title pontifex, in Transactions
and Proceedings of the American Philological Association 101, 1970, 219 ss.; H. Le Bourdellès, Nature profonde du pontificat romain. Tentative
d’une étymologie, in Revue de l’histoire des religions 189,
1976, 53 ss.; G.J. Szemler, v. Pontifex, cit., coll. 334 ss.; P. Flobert, La relation de sacrificare et
de sacerdos, in Hommages à H.
Le Bonniec, cit., 171 ss.; R. Del
Ponte, La religione dei Romani. La
religione e il sacro in Roma antica, Milano 1992, 107 ss.; B.J.
Kavanagh, Pontifices,
Bridge-Making and Ribezzo Revisited, in Glotta
76, 2000, 59 ss.; A. Ernout–A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, cit., 521; F. Van Haeperen,
Le collège pontifical, cit.,
11 ss.
[82] Secondo P. Fioretti, Scribae.
Riflessioni sulla cultura scritta nella Roma antica, cit., 338 s., la
potenza pontificale derivava anche dalla conoscenza élitaria della scrittura;
durante il conflitto tra gli ordini sociali tale strumento assunse, in tal
modo, «una connotazione ambivalente: da un lato, in una situazione di
analfabetismo dominante, continua a costituire lo scrigno inaccessibile nel
quale i pontefici custodiscono e di fatto celano il ius, sottraendone la gestione ad ogni ‘trasparenza’
pubblica; dall’altro inizia a presentarsi come lo strumento mediante il
quale un’azione antipontificale può tentare di sottrarre la
disciplina di questioni fondamentali per la vita cittadina alla cerchia
ristretta che la detiene».
[83] In materia, M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani,
cit., 116 ss.
[84] Per le varie accezioni del termine vedi la v. cūriōsus di Schwering,
in Thesaurus Linguae Latinae, IV,
Lipsiae 1909, coll. 1492 ss.
[85]
Per l’ampio ricorso al concetto di maiores
nelle orazioni ciceroniane, vedi per tutti J. Kenty, Congenital
virtue: Mos maiorum in Cicero’s
orations, in The Classical Journal
111, 2016, 429 ss., la quale, in riferimento a De dom. 33, afferma: «His grave invocations of the maiores
and repetition of ideologically laden words like religio and ius heighten
the sense of the vital importance of and the principles underlying that role,
building it on historical origins tailored to create a diachronic trajectory
which leads directly to this case, and particularly to a verdict in
Cicero’s favor. Cicero thus puts the pontifices into a role as the
ultimate arbiters of Roman ethics and religion, the maiores-to-be. Their
decision will determine ethical and religious principles for future
generations, just as the maiores’ decisions established
contemporary values» (449).
[86] Cfr. De har. resp. 14 e 18.
[87] Valerius Maximus
1.1.1: Maiores statas sollemnesque caerimonias pontificum scientia, bene gerendarum rerum
auctoritates augurum observatione, Apollinis praedictiones vatum libris,
portentorum depulsiones Etrusca disciplina explicari voluerunt.
[88] Per
l’ideologia sottesa al concetto di maiores,
F. Pina Polo, Die nützliche Erinnerung:
Geschichtsschreibung, mos maiorum und
die römische Identität, in Historia
53, 2004, 167: «Die Vergangenheit wurde idealisiert mit dem Ziel, die
Gegenwart mit der auctoritas der
Vorfahren zu rechtfertigen. Die Vorgänger dienten als Archetypen für
die zeitgenössischen Römer, die stillschweigend ein Bündnis mit
ihren maiores schlossen. Dieses von
Treue geprägte Verhältnis ermöglichte den Fortbestand und das
Anwachsen der Gemeinschaft. Grundsätzlich wurde alles, was von den maiores stammte, hochachtungsvoll
betrachtet und schließlich als geschichtliche Wahrheit angenommen. Die
Vorfahren hatten nicht nur eine Geschichte geschaffen, sondern
gewissermaßen als Demiurgen auch neue Gebräuche und Institutionen
begründet. Sie aufzurufen bedeutete für einen Römer, als
Wortführer der Ahnen aufzutreten und somit Autorität zu
erlangen».
[89] De dom. 138: Dixi a principio nihil me de scientia
vestra, nihil de sacris, nihil de abscondito pontificum iure dicturum. Per i significati del termine, si
veda la v. abscondo di Oertel, in Thesaurus Linguae Latinae, I, Lipsiae 1901, coll. 152 ss.
In merito, vedi i rilevi di A. Schiavone, Ius,
cit., 101: «Cicerone sapeva benissimo che tra la fine del IV secolo e i
primi decenni del III non era più solo il collegio pontificale a
monopolizzare il sapere del ius; ma
questo cambiamento non ne aveva ancora intaccato il carattere esclusivo e
segreto».
[90] Per i significati, vedi la v. interior di Kuhlmann, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae 1963, coll. 2208 ss., spec.
col. 2213 per cui in De dom. 138 il
termine interiora si deve intendere
come «pontificum secreta».
[91] Così, F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri
e commentarii, Sassari 1983, spec.
152; Id., Sua cuique civitati religio, cit., spec. 115 s.
[92] Per la datazione: E. Courbaud, Introduction, in Cicéron,
De l’orateur, I, 5ª
ed., Paris 1962, VII; G. Norcio, Introduzione, in Opere retoriche di M. Tullio Cicerone,
I, Torino 1976, 7 ss. Cfr. A.D. Leeman, Entstehung und Bestimmung von Ciceros De
Oratore, in Mnemosyne 31, 1978, 253
ss.
[93] Sul personaggio: N.
HÄpke, v. Licinius
(Crassus) 55, in Paulys
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XIII.1,
Stuttgart 1926, coll. 252 ss.; E.
Courbaud, Introduction, cit., XX ss.; G. Norcio, Introduzione, cit.,
20 ss.; O. Behrends, La lex Licinia
Mucia de civibus redigundis de 95 a.C.
Une loi néfaste d’auteurs savants et bienveillants, in Antiquité
et citoyenneté. Actes du colloque international de Besançon (3-5
novembre 1999), Besançon 2002, 15 ss.,
spec. 20 ss.
[94] F. Münzer, v. Mucius 21, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XVI.1, Stuttgart 1933, coll. 430
ss.; E. Courbaud, Introduction, cit., XXVI s.; W.
Kunkel, Die Römischen
Juristen, cit., 14; R. Seguin, Sacerdoces
et magistratures chez les Mucii Scaevolae, in Revue des Études
Anciennes 72, 1970, 97 ss., 103 ss.; G. Norcio, Introduzione, cit., 26 s.; M. Bretone, Tecniche
e ideologie dei giuristi romani, cit., 67, 71 s., 78 nt. 45; R.A. Bauman, Lawyers in Roman
Republican Politics, cit., 312 ss.; F.
Wieacker, Römische
Rechtsgeschichte, cit., 546 s. Per la carriera del personaggio, vedi:
T.R.S. Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic. I.
509 B.C. – 100 B.C.,
New York 1951 [rist., Atlanta, Ga. 1986], 496, 523 s., 528; J. Rüpke, Römische Priester in der Antike. Ein biographisches Lexikon,
Stuttgart 2007, 169 s., nr. 2479.
[95] De orat. 1.185: Et quoniam de impudentia dixi, castigemus etiam segnitatem hominum
atque inertiam; nam si esset ista cognitio iuris magna atque difficilis, tamen
utilitatis magnitudo deberet homines ad suscipiendum discendi laborem
impellere: sed, o di immortales, non dicerem hoc, audiente Scaevola, nisi ipse
dicere soleret nullius artis sibi faciliorem cognitionem videri.
Su tale affermazione, rinvio alle pregnanti parole di M. Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, cit., 118: «queste parole hanno uno scopo
esortativo, invitano e incoraggiano allo studio della giurisprudenza, non descrivono
una situazione di fatto. Alcuni forse le condividevano, ma i più non si
sarebbero dichiarati d’accordo. Quella del diritto era, o sembrava,
un’ars difficillima.
Perciò la potentia dei
giureconsulti non era scomparsa all’età di Q. Mucio Scevola l’augure,
né scomparirà dopo. Essa poteva addirittura presentarsi come adrogantia».
[96] Per il concetto di ars,
vedi specialmente: V. Scarano Ussani,
L’ars dei giuristi. Considerazioni sullo statuto epistemologico della
giurisprudenza romana, Torino 1997, 5 ss., 111 ss.; B. Albanese, L’ars iuris civilis nel pensiero di Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico
dell’Università di Palermo 47, 2002, 23 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, IV, a cura di G. Falcone, Palermo 2006, 891
ss.).
[97] Il termine veteres
utilizzato nelle fonti giuridiche, del principato e del periodo postclassico,
è stato interpretato diversamente in letteratura; la questione è
da considerarsi risolta dopo la pubblicazione del fondamentale contributo di F. Horak (Wer waren die “veteres”?
Zur
Terminologie der klassischen römischen Juristen, in Vestigia Iuris Romani. Festschrift für G. Wesener zum 60. Geburtstag am 3. Juni
1992, a cura di
G. Klingenberg, J.M. Rainer, H. Stiegler, Graz 1992, 201 ss.), secondo cui,
l’uso del vocabolo è relativo all’età di riferimento
(vedi, in tal senso, la rec. di M.
Talamanca, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 96, 1993-1994, 916 s., per il quale
«con questo saggio è definitivamente demolito il fondamento
terminologico della distinzione fra “alte” e “neue”
Jurisprudenz», propugnata da Behrends).
[98]
Vedi la v. praesum di Ramminger, in Thesaurus Linguae Latinae, X.2, Leipzig 1991, coll. 951 ss.
[99] Vedi F. Bona,
L’ideale retorico ciceroniano ed il
‘ius civile in artem redigere’, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, 282 ss. (ora in Id., Cicerone tra diritto e oratoria. Saggi su retorica e giurisprudenza
nella tarda repubblica, Como 1984, 62 ss., e in Id., Lectio sua, II, cit., 717 ss.).
[100] B. Albanese, L’ars iuris civilis nel pensiero di Cicerone, cit., 34 (= Id., Scritti giuridici, IV, cit., 902), qui ravvede il «rimprovero
di Crasso stesso ai giuristi successivi a Gneo Flavio, di non aver voluto componere
generatim gli elementi del ius civile artificiose digesta». Sul progetto di una ars iuris delineata
nei paragrafi successivi del De oratore, vedi spec.: G. Falcone, Sul ‘finis in iure civili’ di Cic., de
orat. I.188, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 75, 2009, 503 ss.; M. Talamanca, L’oratore, il giurista, il diritto nel
De oratore di Cicerone,
cit., 38 ss.
[101] In merito, vedi quanto afferma G. Coppola, Cultura e potere. Il lavoro intellettuale nel mondo romano, Milano
1994, 29: «L’inscindibile connessione tra cultura e sfera
magico-religiosa appare uno dei tratti più interessanti del mondo romano
arcaico. In tutte le più rilevanti attività intellettuali,
infatti, come il diritto, l’agrimensura e la medicina, i sacerdoti, in
quanto garanti della pace e della salute sociale, rappresentano gli unici
depositari della misterica rivelazione della volontà divina agli uomini,
assorbendo conseguentemente nelle loro mani un potere di indubbia
importanza».
[102] F. D’Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica,
Roma-Bari 1986, 24 s., vedi anche 101 ss.
In tal senso anche Pro
Mur. 25: Itaque irati illi, quod sunt
veriti ne dierum ratione pervulgata et cognita sine sua opera lege <agi>
posset, verba quaedam composuerunt ut omnibus in rebus ipsi interessent.
[103] Il vocabolo multitudo designa una massa numerosa non ordinata e
indifferenziata: Æ. Forcellini,
Totius latinitatis Lexicon, III,
cit., 125; M. Balzarini, v. Plebs, in Novissimo Digesto Italiano, 13, 1966, 141 e nt. 6; V. Giuffrè, «Plebeii gentes non habent», in Labeo 16, 1970, 329 ss.; M.T.
Sblendorio Cugusi, I sostantivi
latini in –tudo, Bologna 1991, 175 ss.; A. Ernout–A. Meillet, Dictionnaire
étymologique de la langue latine, cit., 420. Cfr. J.-Cl. Richard,
Les origines de la plèbe romaine.
Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, Rome 1978, 83, per il quale il termine
indicherebbe la plebe, ovvero la parte del popolo estranea alla élite senatoria (in tal senso
anche A. Magdelain, La
plèbe et la noblesse dans la Rome archaïque, in Id., Jus imperium auctoritas,
cit., 473).
[104]
P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, cit., 56. Vedi anche: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 27 e 44, per cui i
pontefici diedero responsa in
pubblico già prima di Tiberio Coruncanio; R. Orestano, Dal ius al
fas, cit., 255 (= Id., Scritti, II, cit., 622), secondo il
quale, più che le norme, in Roma antica si doveva tenere celato il
procedimento religioso per cui «continuava a doversi riconoscere in
concreto la liceità o illiceità dei singoli atti da compiere».
[105] De
dom. 33 (testo supra § 3).
Sul compito inerente alla illustrazione del corretto svolgimento dei riti
pubblici e privati, vedi anche: De dom. 132:
Si quid deliberares, si quid tibi aut piandum aut instituendum fuisset religione
domestica, tamen instituto ceterorum vetere rem ad pontificem detulisses; novum
delubrum cum in urbis clarissimo loco nefando quodam atque inaudito instituto
inchoares, referendum ad sacerdotes publicos non putasti?; De leg. 2.20: Quoque haec privatim et publice modo rituque fiant, discunto ignari a
publicis sacerdotibus. Eorum autem genera sunto tria, unum, quod praesit
caerimoniis et sacris, alterum, quod interpretetur fatidicorum et vatium ecfata
incognita, quorum senatus populusque adsciverit; interpretes autem Iovis optumi
maxumi, publici augures, signis et auspiciis + postea vidento. Cfr. anche De leg. 2.30: Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad
civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae
satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate
optimatium semper populum indigere.
[106] Dionysius Halicarnassensis 2.73.3: Ὥστε εἰ
βούλεταί τις αὐτοὺς ἱεροδιδασκάλους καλεῖν εἴτε ἱερονόμους
εἴτε ἱεροφύλακας
εἴτε, ὡς ἡμεῖς ἀξιοῦμεν, ἱεροφάντας, οὐχ
ἁμαρτήσεται τοῦ ἀληθοῦς. Come evidenzia F. Van Haeperen, Grand-prêtre
ou hiérophante. Les traductions grecques du terme pontifex, in L’antiquité classique 73, 2004, 152, i tre
termini, hierodidaskaloi, hieronomoi e hierophylakes, utilizzati da Dionigi per descrivere i
pontefici, «semblent
finement choisis: ils correspondent bien aux fonctions pontificales telles que
Denys vient de les décrire, d’une part, mais aussi à la
manière dont les auteurs latins présentent ce sacerdoce, avec une
forte insistance sur le rôle de responsables des sacra rempli par les pontifes».
Vedi anche la testimonianza di Plutarchus, Num. 9.8, relativa al pontefice massimo: ἀλλὰ καὶ τοὺς ἰδίᾳ θύοντας ἐπισκοπῶν, καὶ κωλύων παρεκβαίνειν τὰ νενομισμένα, καὶ διδάσκων ὅτου τις δέοιτο πρὸς θεῶν τιμὴν ἢ παραίτησιν.
[107] Livius
1.20.5-7: [Numa] Pontificem deinde Numam
Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque
attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque
unde in eos sumptus pecunia erogaretur. 6. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis
subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris
neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; 7. nec caelestes modo caerimonias, sed iusta
quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia
fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Per un’analisi del passo, C.M.A. Rinolfi, Livio
1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, cit.
[108] La creazione del pontificato da parte di
Numa è ricordata anche da Cicerone in De re publ. 2.26 (testo supra
a nt. 23).
[109] In materia, vedi:
J.B. Carter, The Religion of Numa,
London 1906; F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della
religione primitiva di Roma, in Rendiconti
della Accademia Nazionale dei Lincei ser. VIII, 5, 1950, 553 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia, 2ª ed., Napoli s.d. [1959?], 219 ss.; E.M. Hooker, The
Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; G.B. Pighi,
La religione romana, Torino
1967, 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i ‘penetralia pontificum’, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo.
Classe di Lettere e Scienze morali e storiche 115, 1981 [ma 1984], 161 ss.;
J. Martínez-Pinna, La
reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3,
1985, 97 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella
‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi d’Alicarnasso, I,
Napoli 1988, 128 ss.; G. Capdeville,
Les institutions religieuses de la Rome
primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, 153 ss. Cfr. M. Silk, Numa Pompilius and the Idea of Civil Religion in the West, in Journal of the American Academy of Religion 72, 2004, 863 ss.,
relativamente all’influenza che la tradizione intorno a questa riforma
esercitò nel pensiero occidentale.
[110] Per l’etimologia del termine scitum, vedi la v. sciō, in A. Ernout–A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 603. C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, cit., 48 s.:
«Nel segno ‘scitum’,
che proviene dal verbo ‘sciscere’,
è insito tanto il senso del conoscere derivante da specifica
attività ricognitiva, quanto il senso del deliberare, per cui il parere
risulta ufficiale ed autorevole anche quando esso non corrisponda ad una
semplice rivelazione delle conoscenze acquisite, ma altresì
all’adozione di conoscenza ed esperienza per dare corpo ad una soluzione
nuova. Il parere pontificale è dunque applicazione concreta in senso
anche creativo di una preparazione specializzata».
[111]
Sul concetto e sulla terminologia di plebs
nelle opere letterarie tra la tarda repubblica e il principato augusteo: B. Kühnert, Populus Romanus und sentina urbis: zur Terminologie der plebs urbana der späten Republik bei Cicero, in Klio 71, 1989, 432 ss.; Ead.,
Die plebs urbana bei Horaz, in Klio 78,
1991, 130 ss.
[112]
Per il significato del termine, vedi O. Hey,
v. ēdoceo, in Thesaurus Linguae Latinae, V.2, Lipsiae
1931, coll. 106 ss.: «i. q. perdocere, diligenter docere; inferiore
aetate fare i. q. simplex docere, facere ut aliquis quid sciat, teneat. Est verbum
tam declarandi (i. q. certiorem facere aliquem, comunicare aliquid; sic passim)
quam instruendi (i. q. habilem, aptum facere aliquem, instituere aliquid
[…])»; relativamente al vocabolo usato in Livius 1.20.7 si offre il
significato di «instruendi, erudendi».
Il verbo è usato dalle fonti per indicare
l’istruzione a pratiche cultuali: Ennius, apud Cicero, De divin. 1.42:
Tum coniecturam postulat pacem petens /
Ut se edoceret obsecrans Apollinem / Quo sese vertant tantae sortes somnium;
Vergilius, Aen. 5.746-748: Extemplo socios primumque arcessit Acesten /
et Iovis imperium et cari praecepta parentis / edocet et quae nunc animo
sententia constet; Festus, De verb.
sign., p. 270 L.: Potitium et
Pinarium Hercules, cum ad aram, quae hodieque maxima appellatur, decimam bovum,
quos a Geryone abductos abigebat Argos in patriam, profanasset, genus sacrifici
edocuit. Quae familia et posteris eius non defuerunt decumantibus usque ad
Appium Claudium Censorem, qui quinquaginta milia aeris gravis his dedit, ut servos
publicos edocerent ritum sacrificandi; Aurelius Victor, Orig. gent. Rom. 8.1: Cum ergo Recaranus sive Hercules patri
Inventori aram maximam consecrasset, duos ex Italia, quos eadem sacra certo
ritu administranda edoceret, ascivit, Potitium et Pinarium; 8.5: Verum postea Appius Claudius accepta pecunia
Potitios illexit, ut administrationem sacrorum Herculis servos publicos
edocerent nec non etiam mulieres admitterent; De viris illustribus 34.2: Potitios
Herculis sacerdotes pretio corrupit, ut sacra Herculea servos publicos
edocerent: unde caecatus est, gens Potitiorum funditus periit.
[113] Plutarchus, Num.
12.1: Οἱ δὲ
Ποντίφικες καὶ
τὰ περὶ
τὰς ταφὰς
πάτρια τοῖς
χρῄζουσιν ἀφηγοῦνται,
Νομᾶ διδάξαντος
μηδὲν ἡγεῖσθαι
μίασμα τῶν
τοιούτων, ἀλλὰ
καὶ τοὺς
ἐκεῖ
θεοὺς σέβεσθαι
τοῖς
νενομισμένοις,
ὡς τὰ
κυριώτατα τῶν
ἡμετέρων
ὑποδεχομένους.
[115] L. Franchini, Il diritto casistico, cit., § 4:
«Titolare della funzione restava a nostro avviso il collegio come tale,
al quale si poteva teoricamente ancora ricorrere, al fine di ottenere un
decreto di risposta, specie, è lecito supporre, nelle questioni in cui i
suoi membri si fossero, l’uno di seguito all’altro, diversamente
pronunciati; ma in base ad una prassi consolidata, avvalendosi dello strumento
della “delega” - cui peraltro il collegio pontificale faceva di
frequente ricorso, come si evince anche dai casi relativi al praeire verbis -, i pontefici facevano
sì che almeno in prima battuta, per comprensibili ragioni di
praticità, e quindi nella quasi totalità delle ipotesi, fosse il
singolo sacerdote incaricato a dare il responso al privato».
[116]
In altri luoghi del liber singularis
enchiridii, il termine è spesso collegato a compiti specifici,
attribuiti poi a magistrati costituiti all’occorrenza: D. 1.2.2.21
(Pomponius libro singulari enchiridii):
Itemque ut essent qui aedibus praeessent,
in quibus omnia scita sua plebs deferebat, duos ex plebe constituerunt, qui
etiam aediles appellati sunt; 22: Deinde
cum aerarium populi auctius esse coepisset, ut essent qui illi praeessent,
constituti sunt quaestores ...; 29: Deinde
cum esset necessarius magistratus qui hastae praeessent, decemviri in litibus
iudicandis sunt constituti; 32: ...
totidem praetores, quot provinciae in dicionem venerant, creati sunt, partim
qui urbanis rebus, partim qui provincialibus praeessent.
[117] De dom. 1: ... religionibus
deorum immortalium et summae rei publicae praesse voluerunt ...; De
nat. deor. 1.122: Quod
ni ita sit, quid veneramur quid precamur deos, cur sacris pontifices cur
auspiciis augures praesunt, quid optamus a deis inmortalibus quid vovemus?
[118] Vedi, però, in merito le
considerazioni di Th. Mommsen, Le
droit public romain, III, trad. fr. di P.F. Girard, Paris 1893, 51 nt. 3:
«il est impossible de lier avec l’expression peu claire præsse privatis un sens conforme
au rôle des pontifes qui nous est connu».
[119] In materia,
ad es.: C. Lovisi, Vestale, incestus et juridiction pontificale sous la République romaine, in Mélanges de l’Ecole
française de Rome. Antiquité 110,
1998, 699 ss.; R.G. Lewis, Catilina and the Vestal, in The
Classical Quarterly 51,
2001, 141 ss.; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano,
cit., 236 ss.
[120] Per i significati del termine, G. Meyer, v. explānātio, in Thesaurus Linguae Latinae, V.2, Lipsiae
1931, coll. 1708 ss.
[121] De har. resp. 13: Nego umquam post sacra
constituta, quorum eadem est antiquitas quae ipsius urbis, ulla de re, ne de
capite quidem virginum Vestalium, tam frequens collegium iudicasse. Quamquam ad
facinoris disquisitionem interest adesse quam plurimos – ita est enim
interpretatio illa pontificum ut eidem potestatem habeant iudicum –,
religionis explanatio vel ab uno pontifice perito recte fieri potest –
quod idem in iudicio capitis durum atque iniquum est –, tamen sic
reperietis, frequentiores pontifices de mea domo quam umquam de caerimoniis
virginum iudicasse.
[122] Per questa funzione rimando al frammento
di Catone (Orig. 4 fr. 1, p. 16 ed.
Jordan) apud Gellius, Noct. Att. 2.28.4: Non lubet scribere quod in tabula apud pontificem maximum est, quotiens
annona cara, quotiens lunae aut solis lumine caligo aut quid obstiterit.
L’importanza della memorizzazione pontificale degli avvenimenti storici
emerge anche da Livius 6.1.2. Vedi, inoltre, Macrobius, Sat. 3.2.17: Pontificibus
enim permissa est potestas memoriam rerum gestarum in tabulas conferendi, et
hos annales appellant et quidem maximos quasi a pontificibus maximis factos.
In materia: J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, I,
cit., 361 ss.; A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne
Rome, cit., 250 ss.; A.G. Amatucci, Gli Annales Maximi, in Rivista di Filologia e d’Istruzione
Classica 24, 1896, 208 ss.; L.
Cantarelli, Origine degli
«Annales Maximi», in Rivista
di Filologia e d’Istruzione Classica 26, 1898, 209 ss. (ora in Id., Studi romani e bizantini, Roma 1915, rist., Roma 1970, 145 ss.); E. Kornemann, Die älteste Form der Pontifikalannalen, in Klio 11, 1911, 245 ss. (ora in Id., Römische Geschichtsschreibung, a cura di V. Pöschl,
Darmstadt 1969, 59 ss.); J.E.A. Crake, The Annals of the Pontifex Maximus, in Classical Philology 35, 1940, 375 ss.; E. Peruzzi, Origini di Roma, II. Le
lettere, Bologna 1973, 175 ss.; K.-E.
Petzold, Annales maximi und
Annalen, in Ex Ipsis Rerum
Documentis. Beiträge zur
Mediävistik. Festschrift für H. Zimmermann, a cura di K.
Herbers, H.H. Kortüm, C. Servatius, Sigmaringen
1991, 3 ss. (ora in Id., Geschichtsdenken und Geschichtsschreibung.
Klein Schriften zur griechischen und römischen Geschichte, Stuttgart
1999, 252 ss.); J. Rüpke, Livius, Priesternamen und die annales
maximi, in Klio 75, 1993, 155 ss.; S. D’Ambrosio, Considerazioni sul valore giuridico degli
Annales pontificum, in Atti del II
convegno sulla problematica contrattuale in diritto romano. In
onore di A. Dell’Oro, Milano, 11-12 maggio 1995, Milano 1998,
237 ss.; B.W. Frier, Libri
Annales Pontificum Maximorum. The Origins of the Annalistic Tradition, 2ª ed., Ann Arbor 1999.
Intorno all’estesa opera di scrittura sacerdotale,
rimando alla monumentale ricerca di F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica,
cit., in part. 150 ss.; vedi, inoltre, J.A. Norton, The Books
of the Pontifices, in La
mémoire perdue. Recherches
sur l’administration romaine, a cura di C. Moatti, Rome 1998, 45
ss.
[123] De orat. 2.52: Erat enim historia nihil aliud nisi annalium
confectio, cuius rei memoriaeque publicae retinendae causa ab initio rerum
Romanarum usque ad P. Mucium pontificem
maximum res omnis singulorum annorum mandabat litteris pontifex maximus efferebatque in album
et proponebat tabulam domi, potestas ut esset populo cognoscendi: ii qui etiam
nunc annales maximi nominantur (commento in B.W. Frier, Libri
Annales Pontificum Maximorum, cit., 286 ss., vedi anche G. D’Anna, La testimonianza di Cicerone sugli annales maximi, in Ciceroniana n.s. 7, 1990, 223 ss.).
Per le connessioni tra popolo e pontefici, vedi De dom. 136: Sed ut revertar ad ius publicum dedicandi, quod ipsi pontifices semper non solum ad suas
caerimonias sed etiam ad populi iussa accommodaverunt ...
[125]
Tra i molteplici esempi (dove segnalo l’utilizzo del verbo negare), vedi: Livius 39.5.9:
Cum pontifices negassent ad religionem
pertinere quanta impensa in ludos fieret; Columella, Res rust.
2.21: pontifices negant segetem
feriis saepiri debere; Gellius,
Noct. Att. 5.17.2: Pontifices decreverunt nullum his diebus
sacrificium recte futurum.
[126] Il termine è qui utilizzato in
senso negativo, come in De dom. 33.
[127] De
dom. 121: Nihil loquor de pontificio iure, nihil de ipsius
verbis dedicationis, nihil de religione, caerimoniis; non dissimulo me nescire
ea quae, etiam si scirem, dissimularem, ne aliis molestus, vobis etiam curiosus
viderer; etsi effluunt multa ex vestra disciplina quae etiam ad nostras aures
saepe permanant.
Secondo C.A. Cannata,
Per una storia della scienza giuridica
europea, cit., 142,
«il modello della giurisprudenza pontificale era noto e poteva essere
seguito. I pontefici potevano essere consultati da chiunque, ed anche se non
usavano fornire motivazioni dei loro responsi, fornivano sempre le soluzioni,
ed un uomo colto ed accorto poteva ben farsi un’idea delle tecniche rapportando
quelle soluzioni alle sue conoscenze del materiale normativo, negoziale e
processuale».
[128] La definizione del termine è
offerta, ad es., in D. 50.16.33 (Ulpianus libro
vicensimo primo ad edictum): ‘Palam’
est coram pluribus.
[129] De
dom. 138: Quae sunt adhuc me de iure
dedicandi disputata non sunt quaesita ex occulto aliquo genere litterarum, sed
sumpta de medio, ex rebus palam per magistratus actis ad collegiumque delatis
[ex senatus consulto, ex lege]. Illa interiora iam vestra sunt, quid dici, quid
praeiri, quid tangi, quid teneri ius fuerit.
[131] Sul cursus honorum e sulla vita
dell’illustre personaggio: F. Münzer,
v. Claudius 220, in Paulys
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.2,
Stuttgart 1899, coll. 2738 ss.; T.R.S. Broughton,
The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 233, 254 s., 258 s.,
264, 268 s., 273 s., 277 ss., 287, 289 s.; G. Bonamente, v. Marcello, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, 362 ss. Per
la sua raffigurazione in Livio, E.M. Carawan,
The Tragic History of Marcellus and Livy’s Characterization, in The Classical Journal 80, 1984-1985, 131 ss.
[132] Livius 27.25.7-9: Marcellum
aliae atque aliae obiectae animo religiones tenebant; in quibus quod, cum bello
Gallico ad Clastidium aedem Honori et Virtuti vovisset, dedicatio eius a
pontificibus impediebatur 8. quod
negabant unam cellam amplius quam uni deo recte dedicari, quia si de caelo
tacta aut prodigii aliquid in ea factum esset, 9. difficilis procuratio foret, quod utri deo res divina fieret sciri non
posset; neque enim duobus nisi certis deis rite una hostia fieri. Riporta lo stesso episodio, come
esempio di stretta osservanza dei culti religiosi, Valerius
Maximus 1.1.8: Non mirum igitur, si
pro eo imperio augendo custodiendoque pertinax deorum indulgentia semper
excubuit, quo tam scrupulosa cura parvula quoque momenta religionis examinari
videntur, quia numquam remotos ab exactissimo cultu caerimoniarum oculos
habuisse nostra civitas existimanda est. In qua cum M. Marcellus quintum
consulatum gerens templum Honori et Virtuti Clastidio prius, deinde Syracusis
potitus nuncupatis debitum votis consecrare vellet, a collegio pontificum
inpeditus est, negante unam cellam duobus diis recte dicari: futurum enim, si
quid prodigii in ea accidisset, ne dinosceretur utri rem divinam fieri
oporteret, nec duobus nisi certis diis una sacrificari solere. E
Sull’episodio, vedi F. Van Haeperen, Le
collège pontifical, cit., 251, e L.
Franchini, Aspetti giuridici del
pontificato romano, cit., 187 ss.
[133] In materia, per
tutti, Y. Berthelet, Le rôle des pontifes dans
l’expiation des prodiges à Rome, sous la République: le cas
des “procurations” anonymes, in Cahiers «Mondes
anciens» 2, 2011, (https://mondesanciens.revues.org/348 ).
[134] Livius 1.20.7 (testo supra alla nt. 107).
[135] Rinvengono nell’episodio la
“tensione analitica”, caratteristica tipica
dell’interpretazione pontificale, C. Giachi–V.
Marotta, Diritto e giurisprudenza
in Roma antica, Roma 2012, 55 s.:
«La decomposta fantasia religiosa dei pontefici sarebbe, dunque,
all’origine di quella spiccata tensione analitica riscontrabile perfino
nelle opere dei più tardi giuristi di epoca repubblicana e
alto-imperiale: anche dalla loro lettura emergerebbe una medesima attitudine,
la capacità, cioè, di scomporre una realtà complessa nei
suoi elementi più semplici».
[136] Per il cursus honorum del pontefice-giurista: W. Drumann, Geschichte Roms in seinem Übergange von der republikanischen zur
monarchischen Verfassung oder Pompeius, Caesar, Cicero und ihre Zeitgenossen. IV: Junii-Pompeii, 2ª ed., Leipzig 1908-1910, 59 s. [rist., Hildesheim 1964, 69
s.]; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic,
I, cit., 268, 271, 278, 291, 301, 308, 381; J.
Rüpke, Römische Priester
in der Antike, cit., 148, nr. 2235. Sul personaggio, rimando per tutti a F. Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur. Ricerche sui giuristi
del III secolo a.C., Torino 1995, 113 ss.
[137] Vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 272, 280, 287, 292,
300, 311, 323, 328, 334, 338, 341, 348.
[138] Livius
31.9.5-7: Cum dilectum consules haberent
pararentque quae ad bellum opus essent, civitas religiosa in principiis maxime
novorum bellorum, 6. supplicationibus
habitis iam et obsecratione circa omnia pulvinaria facta, ne quid
praetermitteretur quod aliquando factum esset, ludos Iovi donumque vovere
consulem cui provincia Macedonia evenisset iussit. 7. Moram voto publico Licinius pontifex maximus attulit, qui negavit ex
incerta pecunia voveri debere, quia ea pecunia non posset in bellum usui esse
seponique statim deberet nec cum alia pecunia misceri: quod si factum esset,
votum rite solvi non posse.
Per la vicenda: F.
Sini, A quibus iura civibus
praescribebantur, cit., 122 ss.; L.
Franchini, A proposito del votum
ex incerta pecunia del 200 a.C., in Archivio giuridico «F. Serafini»
221, 2001, 159 ss.; Id., Aspetti giuridici del pontificato romano,
cit., 291 ss.; F. Van Haeperen, Le collège
pontifical, cit., 248 ss.
[139]
Macrobius, Sat. 1.16.25: Sed et Fabius Maximus Servilianus pontifex
in libro duodecimo negat oportere atro die parentare, quia tunc quoque Ianum
Iovemque praefari necesse est, quos nominari atro die non oportet.
[140] H.
Peter, Historicorum Romanorum
Fragmenta, Lipsiae 1883, 76 fr. 4; F.P.
Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 28. Cfr., però, M. Bretone, Tecniche e ideologie dei
giuristi romani, cit., 55, per il quale l’attribuzione di
quest’opera a Q. Fabio Massimo Serviliano «dipende da
un’ambigua notizia di Macrobio».
[141] Sulla vita e la carriera del personaggio:
F. Münzer, v. Fabius
115, in Paulys Real-Encyclopädie
der classischen Altertumswissenschaft, VI.2, Stuttgart 1909, coll. 1811
ss.; T.R.S. Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 469, 474, 476, 477, 478, 480; J. Rüpke, Römische Priester in der Antike, cit., 103 s., nr. 1594; G.J. Szemler, The Priest of the Roman Republic. A study of Interactions Between
Priesthoods and Magistracies, Bruxelles 1972, 120. Cfr. R.M. Kallet-Marx, Quintus Fabius Maximus and the Dyme Affair (Syll. 3 684), in The Classical Quarterly 45, 1995, 129 ss.
[142] In materia, da ultimo, F. Van Haeperen,
Le collège pontifical, cit., 251, e L. Franchini, Aspetti
giuridici del pontificato romano, cit., 234 ss.
[143] Macrobius, Sat. 1.16.9 s.: Adfirmabant
autem sacerdotes pollui ferias si indictis conceptisque opus aliquod fieret.
Praeterea regem sacrorum flaminesque non licebat videre feriis opus fieri et
ideo per praeconem denuntiabant nequid tale ageretur, et praecepti neglegens
multabatur. 10. Praeter multam vero adfirmabatur
eum qui talibus diebus imprudens aliquid egisset porco piaculum dare debere.
Prudentem expiare non posse Scaevola pontifex adseverabat, sed Umbro negat eum
pollui qui opus vel ad deos pertinens sacrorumve causa fecisset, vel aliquid ad
urgentem vitae utilitatem respiciens actitasset (Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, cit., 15 fr. 11; F.P.
Bremer, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, I, cit., 57 fr. 1b).
[144] Macrobius, Sat. 1.16.11: Scaevola
denique consultus quid feriis agi liceret, respondit quod praetermissum
noceret. Quapropter si bos in specum decidisset eumque pater familias adhibitis
operis liberasset, non est visus ferias polluisse: nec ille qui trabem tecti
fractam fulciendo ab imminenti vindicavit ruina.
[145] Ph.E. Huschke,
Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, cit., 15 fr. 12, attribuisce a Scevola l’ultima frase di Macrobius, Sat.
1.16.11. Contra F.P.
Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 57 fr. 2: «non Mucii,
sed interpretis videntur esse».
[146] Vedi, ad esempio, A. Bellodi Ansaloni, Linee essenziali di storia della scienza giuridica,
Sant’Arcangelo di Romagna 2014, 20: «Per molto tempo [...] i
responsi non vengono motivati poiché appaiono come la manifestazione di
una capacità superiore, oracolare, che in quanto tale non richiede
spiegazione alcuna. Il prodotto di questa sapienza, il responso, è come
profeticamente ‘intuito’ dal suo cultore ed è destinato ad
essere applicato per l’autorevolezza della fonte da cui proviene».
[147] Livius 10.6.1-6; 10.9.1-2; vedi anche Ioannes Lydus, Mag. 1.45: καὶ πάλιν ὁ δῆμος
προεχειρίσατο
πέντε μὲν οἰωνοσκόπους τέσσαρας
δὲ ἱεροφάντας. (cfr. G.
Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912 [rist., Hildesheim 1962], 236).
Sul plebiscito, vedi, ad esempio: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome,
cit., 320 ss.; L.-R. Ménager, Les
collèges sacerdotaux, les tribus et la formation primordiale de Rome, in Mélanges de l’Ecole
française de Rome. Antiquité 88, 1976, 459 ss.; F. D’Ippolito, Das ius Flavianum und die lex Ogulnia, cit.;
Id., Giuristi e sapienti in Roma arcaica, cit., 3 ss., 71 ss.; K.-J. Hölkeskamp, Das plebiscitum Ogulnium de sacerdotibus. Überlegungen zu Authentizität und Interpretation der
livianischen Überlieferung, in Rheinisches Museum
für Philologie 11, 1988, 51 ss.; C.A.
Cannata, Per una storia della
scienza giuridica europea, cit.,
139; J.A. Delgado Delgado, Criterios y procedimientos para la
elección de los sacerdotes en la Roma republicana, in ’Ilu 4, 1999, 65 ss.; F. Vallocchia, Collegi sacerdotali
ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 35 ss.
[148] Tra coloro che hanno considerato la lex Ogulnia come un intervento legislativo avverso al cosiddetto monopolio
pontificale della giurisprudenza, si deve ricordare P. de Francisci, Storia del diritto
romano, I, Milano 1943, 401. Vedi ancora in tal
senso, tra i lavori più recenti, ad es., A. Bellodi Ansaloni,
Linee essenziali di storia della scienza
giuridica, cit., 25.
[149] F.
D’Ippolito, Giuristi e sapienti in Roma arcaica, cit., 88: «Non si deve [...]
dubitare del fatto che gli Ogulnii, immettendo nel collegio propri specialisti,
tendevano ad orientare, in modo culturalmente diverso dal passato, la scienza
del diritto».
Un esempio in tal senso è l’introduzione, nel
III sec. a.C., del principio elettorale nella scelta dei sacerdoti con
l’elezione comiziale del pontefice massimo (Livius 25.5.2-4); vedi in
merito F. Vallocchia, Collegi
sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 21 ss.
[150] Nel suo discorso, al fine di ottenere il
diritto di connubio, il tribuno della plebe Canuleio, si lamentava della
preclusione ai plebei degli archivi pontificali: Obsecro vos, si non ad fastos, non ad commentarios pontificum
admittimur, ne ea quidem scimus, quae omnes peregrini etiam sciunt, consules in
locum regum successisse nec aut iuris aut maiestatis quicquam habere, quod non
in regibus ante fuerit? (Livius 4.3.9).
Vedi, invece, F. D’Ippolito, Giuristi
e sapienti in Roma arcaica,
cit., 102, per il quale la riforma degli Ogulnii produsse «il ritorno
all’ermetica sapienza dei pontefici», mentre «una cauta
apertura si ha solo a partire da Tiberio Coruncanio».
[151] Sul pontefice-giurista, ad
esempio: W. Kunkel, Die
Römischen Juristen, cit., 7 s.; F. D’Ippolito, I giuristi e la città, cit., 27 ss. (già
in Labeo 23, 1977, 131 ss.); R.A. Bauman, Lawyers in Roman
Republican Politics, cit., 71 ss.; J.W.
Cairns, Tiberius Coruncanius and
the Spread of Knowledge about Law in Early Rome, in The Journal of Legal History 5, 1984, 129 ss.; C.A. Cannata, Tiberius Coruncanius, qui
primus publice profiteri coepit. L’inizio dell’insegnamento pubblico del diritto, in Mélanges en l’honneur de J.-M. Grossen,
Bâle-Francfort-sur-le-Main 1992, 485 ss. (ora in Id., Scritti scelti di
diritto romano, II, a cura di L. Vacca, Torino 2012, 31 ss.); Id., Per una storia della scienza giuridica europea, cit., 145 ss.; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 81 ss.; Id., Sua
cuique civitati religio, cit., 218 ss.; G. Viarengo, I giuristi arcaici: Tiberio Coruncanio, in Ius
Antiquum - Drevnee Pravo 2(7),
2000, 73 ss. Sul cursus honorum, T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I,
cit., 190 s., 210, 216, 218.
[152] D. 1.2.2.35
(Pomponius libro singulari enchiridii):
et quidem ex omnibus, qui scientiam
nancti sunt, ante Tiberium Coruncanium publice professum neminem traditur: ceteri
autem ad hunc vel in latenti ius civile retinere cogitabant solumque
consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant; vedi
anche 38: Post hos fuit Tiberius
Coruncanius, ut dixi, qui primus profiteri coepit: cuius tamen scriptum nullum
exstat, sed responsa complura et memorabilia eius fuerunt.
Tra gli studiosi che evidenziano il superamento da parte di
Coruncanio della segretezza della giurisprudenza pontificale, vedi, ex multis: G. Nocera, “Iurisprudentia”,
cit., 84, per cui Coruncanio svolse «una attività e un’opera
(annales pontificum) aperte alla
libera consultazione e alla elaborazione, di cultura e di respiro»; R.A. Bauman, Lawyers in Roman Republican
Politics, cit., 76 s.; M.
Bretone, Storia del diritto romano,
8ª ed., Roma-Bari 2001,
112, per cui Coruncanio «pronunciò i suoi responsi in pubblico,
spezzando la tradizionale segretezza del collegio» (cfr. la recensione
alla 2ª ed. di M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Redazione, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto Romano 91, 1988, 745 ss., il quale precisava
che «Questo modo di pensare va, ovviamente, contro il buon senso,
ché i responsa dei pontifices non potevano restar segreti,
proprio perché erano diretti ad influenzare le parti, il iudex privatus, il magistrato»,
764); L. Franchini, La
nozione di «laicità» nella giurisprudenza romana, cit.,
4 ss.; Id., Il diritto casistico, cit., § 4. Vedi anche A. Magdelain, «Jus respondendi», cit., 178 s. nt. 6 (= Id., Jus imperium auctoritas, cit., 148 nt. 149), il
quale rifiuta l’idea di consultazioni pubbliche da parte di Coruncanio:
«Publice profiteri, en
réalité, à propos de Tib. Coruncanius, vise seulement la divulgation de la science
juridique. Pomponius ne dit pas que Tib. Coruncanius se donna en spectacle
comme les juristes de l’Empire. Il se borne à constater que ce
pontife répandit dans le public une science restée
jusque-là secrète, § 35 [...]. L’instrument de
divulgation fut l’enseignement, mais il serait absurde de supposer
qu’au IIIe siècle avant J.-C. un enseignement public ait pu
exister à Rome. L’anachronisme serait assez violent et
contredirait le caractère nettement aristocratique que conserva
jusqu’au dernier siècle de la République la science du
droit. Les auditores étaient
des jeunes gens que les juristes avaient acceptés dans leur
intimité». Dubbi
sulla tradizione pomponiana sono stati sollevati, ad esempio, da: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 27: «anche prima di
Coruncanio i pontefici, all’occasione, debbono aver dato responsa in pubblico. Quanto poco
Coruncanio segni una rottura può essere desunto dal fatto che non
conosciamo nessun suo allievo importante» (vedi la lucida critica di C.A. Cannata, Tiberius Coruncanius, qui primus publice profiteri coepit, cit.,
spec. 488 ss. =Id., Scritti scelti di diritto romano, cit.,
spec. 31 ss.); E.L. Wheeler,
Sapiens and Stratagems: The Neglected
Meaning of a Cognomen, in Historia
37, 1988, 174 s.: «Tradition maintained that as the first plebeian pontifex maximus he first broke the
priestly monopoly and secrecy about public responsa
and public instruction in the law. [...] His initiation of public
instruction in law is probably a myth».
[153] Cicero, De leg. 2.52: Placuit P. Scaevolae et Ti. Coruncanio pontificibus maximis itemque
ceteris, eos qui tantundem caperent quantum omnes heredes sacris alligari;
Plinius, Nat. hist. 8.206: Coruncanius ruminalis hostias donec bidentes
fierent, puras negavit; Gellius, Noct.
Att. 4.6.10: Tib. Coruncanio pontifici maximo feriae praecidaneae
in atrum diem inauguratae sunt. Collegium
decrevit non habendum religioni, quin eo die feriae praecidaneae essent (in
materia rimando per tutti a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur, cit., 85 ss.).
[154] Cfr.: F.A. Brause, Librorum de
disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875,
45 fr. 1; P. Regell, Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882, 21
fr. 18.
[155]
Così, T.R.S.
Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic, II. 99 B.C. – 31 B.C., New York 1952 [rist., Chico, Ca. 1984],
233. Vedi, invece, J. Linderski,
The Aedileship of Favonius, Curio the
Younger and Cicero’s Election to the Augurate, in Harvard Studies in Classical Philology 76, 1972, 181 ss., il quale afferma «that Pompey and Hortensius may have nominated Cicero in
the autumn of 53 at a contio convened
by one of the consuls after the announcement of elections for 52; in that case
the actual election would have been performed under Pompey’s presidency
in March 52» (199).
[157] Vedi, in materia, J. Linderski, The libri
reconditi, in Harvard Studies in
Classical Philology 89, 1985, 207 ss. (ivi fonti e bibliografia
precedente).
[158] Servius Dan., Verg. Aen. 1.398: Multi tamen adserunt cycnos inter augurales aves non inveniri neque
auguralibus commentariis eorum nomen inlatum, sed in libris reconditis lectum
esse, posse quamlibet avem auspicium adtestari, maxime quia non poscatur
(F.A. Brause, Librorum de disciplina augurali, cit.,
35 fr. 18; P. Regell, Fragmenta auguralia, cit., 13 fr. 2);
vedi anche 2.649: Sane de fulminibus hoc
scriptum in reconditis invenitur quod si quem principem civitatis vel regem
fulmen afflaverit, et supervixerit, posteros eius nobiles futuros et aeternae
gloriae.
[159] P. Regell, De augurum publicorum libris.
I, diss. Vratislaviae 1878, 34 ss.,
ascrisse i libri reconditi alla
disciplina etrusca; in tal senso, ad es.: P.
Catalano, Contributi allo studio
del diritto augurale, cit., 80; F. Sini,
Documenti sacerdotali di Roma antica,
cit., 107, 119 nt. 20; O. Monno, Tracce
di disciplina augurale nel commento di Servio ad ecl. 9,13, in Invigilata Lucernis 26, 2004,
207 s. e nt. 19. Cfr., però, J. Linderski, The libri
reconditi, cit., 232 ss.
[160] Tesi prospettata da
J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, trad. fr.
di M. Brissaud, Paris 1890, 112, il quale, però, al contempo manifestava
le proprie incertezze in merito: «Cicéron lui-même
n’eut jamais connaissance de ces derniers et nous ne savons rien à
leur sujet»; ma vedi il condivisibile appunto di G. Wissowa, ivi, a
nt. 6: «L’expression libri
reconditi n’est pas prise par Cicéron dans un sens
technique».
[161] Sul
punto, J. Linderski, The libri reconditi, cit., 208: «In the passage concerning the augurs Cicero
contrasts the libri reconditi and the
responsa of the augurs. But observe
the curious way in which he mentions these books: he does not really say that
the augurs possess them. He says only that should the augurs have any books of
recondite character, he is not prying into them. This is revealing: the very
existence of a secret book is a secret. It is not wise to inquire even into
this preliminary matter, let alone into the content of such libri, should they exist». Vedi anche M. Albana, I luoghi della memoria a
Roma in età repubblicana: templi e archivi, in Annali della
Facoltà di Scienze della Formazione 3, 2004, 31: «È
difficile stabilire se i testi degli Auguri fossero consultabili da parte dei
non addetti ai lavori: Cicerone, che li classifica come reconditi,
lascia supporre qualche restrizione. D’altra parte non dovevano essere
molte le persone, eccetto gli stessi sacerdoti, o personale specializzato quali
gli scribi, dotate della competenza necessaria per la consultazione degli
archivi pubblici».
[162] Y. Berthelet, Légitimer les
experts religieux, sous la République romaine, cit., 126, sottolinea come «Les livres auguraux,
qualifiés à plusieurs reprises de “secrets” (reconditi),
ne sont pas plus accessibles que les archives pontificales».
[163] J. Linderski, The libri reconditi, cit., 209 s.:
«A Roman statesman could well ridicule Greek philosophy, but he would
never ridicule in public the augural or pontifical discipline; quite on the
contrary it was to his great advantage to be well versed in the sacral law, but
at the same time he had to avoid giving
the impression of having acquired his knowledge through unauthorized channels
or leaks as we would call them today. Some information would inevitably come to
the ears of the layman, but he should not seek it out. Curiosa mens was almost as pernicious as the curiosi oculi, of Clodius of course, which polluted the sacrificium occultum of Bona Dea».
[164] In tal senso, specialmente: F. Càssola, Livio,
il tempio di Giove Feretrio e la inaccessibilità dei santuari in Roma,
in Rivista storica italiana 82, 1970,
5 ss., spec. 24; Ph. Culham, Archives and Alternatives in Republican Rome,
in Classical Philology 84, 1989, 112;
D. Tamblè, Tablina, tabulae publicae, Tabularium: gli
archivi dell’antica Roma, in Strenna
dei Romanisti 62, Roma 2001, 562 ss. Cfr. A.
Giovannini, Les livres auguraux, in La mémoire perdue, cit., 116 ss., secondo il quale le
motivazioni della inacessibilità degli archivi del collegio degli auguri
erano “essentiellement matérielles et pratiques”:
l’elevato valore dei libri augurali, per cui questi dovevano
«impérativement être préservés de la
dégradation qu’aurait inévitablement entraînée
une consultation par des mains inexpertes», e le difficoltà della
loro esatta consultazione da parte di estranei al collegio (117).
[165] Plutarchus, Quaest.
Rom. 99: Πότερον, ὡς ἔνιοι λέγουσι, βούλονται μηδένα τὰ τῶν ἱερῶν ἀπόρρητα γιγνώσκειν, ὃς
οὐκ ἔστιν ἱερεύς: ἢ
κατειλημμένον ὅρκοις
τὸν αὔγουρα μηδενὶ φράσειν τὰ τῶν ἱερέων ἀπολῦσαι τῶν ὅρκων οὐ θέλουσιν
ἰδιώτην γενόμενον. A cerimonie segrete degli auguri
parrebbe alludere Lactantius, Div. Inst. 2.16.1: Eorum inventa sunt astrologia et haruspicina
et auguratio et ipsa quae
dicuntur oracula et necromantia et ars magica et quidquid praeterea malorum
exercent homines vel palam vel occulte. Cfr. Augustinus Hipponensis, Serm. noviss. 26D (=198 auctus).41: Itaque inflatos vanis falsisque doctrinis ducit per nescio quae sacra
sacrilega, promittens purgationem in templis, et per magicas consecrationes et
detestanda secreta trahit ad
mathematicos, ad sortilegos, ad augures, ad haruspices.
[166] A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans
l’antiquité, IV. Divination italique (étrusque
– latine – romaine), Paris 1882 [rist., New York 1975], 278 nt. 1, collega questo
sacrificio alla inauguratio, di cui i
Romani fecero «un secret d’État»; così anche K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 141 (ma vedi la critica di B. Gladigow, Condictio und Inauguratio. Ein Beitrag zur römischen
Sakralverfassung, in Hermes 98,
1970, 370 nt. 5). P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
cit., 354 s., lo riconduce a generiche attività divinatorie, mentre, J.
Linderski (The libri
reconditi, cit., 221; The Augural Law,
in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt II.16.3, Berlin-New York 1986, 2254 s.), associa la
cerimonia all’augurium salutis,
rito in cui si pronunciava il nome segreto di Roma e della sua divinità
tutelare.
[167] Per questo uso del termine, vedi:
Ovidius, Heroid. 12.79: Per triplicis vultus arcanaque sacra Dianae; Met.
10.436: regis adest coniunx arcanaque sacra frequentat;
Tacitus, Germ. 18.2: ...
arcana sacra ...(per quest’ultimo, H.W. Benario, Arcanus in
Tacitus, in Rheinisches Museum
für Philologie 106, 1963, 356 ss.).
Sui significati del termine, vedi la v. arcānus di Klotz, in Thesaurus
Linguae Latinae, II, Lipsiae 1901, coll. 434 ss.
[168] Per il rapporto tra arca, arx e arcana, vedi Servius, Ad Aen.
1.262: Arcana secreta. Unde et arca et arx dictae, quasi res
secretae; nel commento, si deve evidenziare l’utilizzo
dell’avverbio quasi, che
comporta soltanto una prossimità tra l’arce e le res secretae.
Sull’arx
capitolina e il suo auguraculum,
vedi, ad es.: G. Costa, L’«augurium salutis» e l’«auguraculum» capitolino, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma 38,
1910, 118 ss.; L. Richardson, Jr., Honos et Virtus and
the Sacra Via, in American Journal of Archaeology 82,
1978, 240 ss.; F. Coarelli, La doppia tradizione sulla morte di Romolo e
gli Auguracola dell’Arx e del Quirinale, in Gli Etruschi e Roma. Atti dell’incontro di studio in onore di M.
Pallottino. Roma, 11-13 dicembre 1979, Roma 1981, 177 ss.; A. Ziolkowski, Between Geese and the Auguraculum: The Origin of the Cult of Juno on
the Arx, in Classical Philology
88, 1993, 206 ss., spec. 213 ss.; D.
Filippi, L’arx
Capitolina e le primae Capitolinae
arcis fores di Tacito (hist., III,
71): una proposta di lettura, in Bullettino
della Commissione Archeologica Comunale di Roma 99, 1998, 73 ss.; F.P. Arata, Osservazioni sulla topografia sacra dell’Arx capitolina, in Mélanges de
l’Ecole française de Rome. Antiquité 122, 2010, 117 ss.; R. Fiori, La
convocazione dei comizi centuriati: diritto costituzionale e diritto augurale,
in Zeitschrift der Savigny-Stiftung
für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 131, 2014, 60 ss., spec. 147 ss.
[169] Cicero, De off. 3.66.
Vedi ancora, per gli auguri e l’Arx,
ad es.: Varro, De ling. Lat. 5.47: ... augures ex Arce profecti
solent inaugurare; 7.8: In terris dictum templum locus augurii aut
auspicii causa quibusdam conceptis verbis finitus. Concipitur verbis non
[h]isdem usque quaque; in arce sic ...
[170] Paulus Diaconus, Excerpt. de verb. sign., p. 17 L.: Auguraculum appellabant antiqui, quam nos arcem dicimus, quod ibi
augures publice auspicarentur (P. Regell,
Fragmenta auguralia, cit., 19).
[171] Procedura e formula dell’inauguratio di Numa Pompilio sono
descritte in Livius 1.18.6-9. Quanto alla dottrina: J. Marquardt, Le culte
chez les Romains, I, cit., 277 s.; I.M.J.
Valeton, De inaugurationibus Romanis caerimoniarum et sacerdotum,
in Mnemosyne 19, 1891, 405 ss.; Th.
Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 8 s., 37 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 490; F. Richter,
v. Inauguratio, in Paulys
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IX.2,
Stuttgart 1916, coll. 1220 ss.; H.J. Rose, The
inauguration of Numa, in The Journal
of Roman Studies 13, 1923, 82 ss.; U. Coli,
Regnum. IV. Aspetto religioso della
regalità. Inaugurazione del re, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 17, 1951, 79 ss. (ora in Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1973, 398 ss.); P. de Francisci, Primordia civitatis,
cit., 390 s., 511 ss.; P. Catalano,
Contributi allo studio del diritto
augurale, cit., 211 ss., 396 ss., 414 ss., 422 ss., 504 s., 516 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit.,
141, 403; A. Magdelain, Recherches sur
l’«imperium». La loi
curiate et les auspices d’investiture, Paris 1968, 39; Id., L’auguraculum de l’arx à Rome et dans d’autres
villes, in Revue
des Études Latines 47, 1969,
253 ss. (ora in Id., Jus imperium auctoritas, cit., 193 ss.), per cui l’arx è distinta dall’urbs in quanto costituisce «un
espace augural autonome»; B.
Gladigow, Condictio und
Inauguratio, cit., 369 ss.; G.
Nicosia, Lineamenti di storia
della costituzione e del diritto di Roma, I, cit., 56 ss.; G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, cit., 586 s.; P.M.
Martin, L’idée de
royauté à Rome. De la Rome
royale au consensus républicain, I, Clermond-Ferrand
1982, 47 s.; R. Turcan, Rome et ses dieux, Paris 1998, 130 ss.; J. Vaahtera,
Roman Augural Lore in Greek
Historiography. A Study of the Theory and Terminology, Stuttgart 2001, 112
ss.; J. Linderski, The Augural Law, cit., 2215 ss., 2256
ss.; F. Van Haeperen, Le
collège pontifical, cit., 304 ss.; J.
Delgado Delgado, Extensión y efecto del rito augural
de la inauguratio sacerdotum, in ’Ilu 14, 2009, 83 ss.;
Y. Berthelet, Gouverner avec les dieux, cit., 121 ss.,
183 s. Cfr. F. Blaive, De la designatio à l’inauguratio:
Observations sur le processus de choix du rex Romanorum, in Revue Internationale des Droits de
l’Antiquité 45, 1998, 63 ss., contro la storicità della
inauguratio del re in età
regia.
[172] In materia: G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit.,
512 e nt. 3, 515 s. nt. 11; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, 81; A.K. Michels, The “Calendar of Numa” and the Pre-Julian Calendar,
cit., 323 s.; P. de Francisci, Primordia civitatis,
cit., 450; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
cit., 370 s.; C.M.A. Rinolfi, Plebe, pontefice massimo, tribuni della
plebe: a proposito di Liv. 3.54.5-14,
in Diritto@Storia 5, 2006 (http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Rinolfi-Plebe-pontefice-massimo-tribuni-della-plebe.htm ), § 3 b); E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e
nell’Italia antica, Milano 2010, 197 s.; F. Marcattili, Moles Martis, il turpe sepulcrum di Tarpea e la Luna dell’Arx, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma 112,
2011, 20 s.
[173] Varro, De ling. Lat. 6.28: Eodem die [enim] in Urbem ab agris ad regem conveniebat populus. Harum
in Arce, quod rerum vestigia apparent in sacris Nonalibus in Arce, quod tunc
ferias primas menstruas, quae futurae sint eo mense, rex edicit populo.
[174] Sui libri sibillini
e sui loro sacerdoti (il cui numero aumentò nel corso del tempo), vedi ex multis: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV, cit.,
286 ss.; E. Hoffmann, Die
tarquinischen Sibyllen-Bücher, in Rheinisches
Museum für Philologie 50, 1895, 90 ss.; A.A. Boyce, The Development
of the Decemviri Sacris Faciundis, in Transactions
of the American Philological Association 69, 1938, 161 ss.; R. Bloch, La divination romaine et
les livres sibyllins, in Revue des Études Latines 40, 1962, 118 ss.; C.
Santi, I Libri Sibyllini e i decemviri sacris faciundis, Roma 1985; Ead., I viri sacris faciundis tra concordia
ordinum e pax deorum, in Gli operatori cultuali. Atti
del II Incontro di studio organizzato dal “Gruppo di contatto per lo
studio delle religioni mediterranee”. Roma, 10-11 maggio 2005, a cura di M. Rocchi, P. Xella, J.-Á. Zamora (= Studi epigrafici e linguistici sul Vicino
Oriente 23), Verona 2006, 171 ss.; H.W.
Parke, Sibyls and Sibylline
Prophecy in Classical Antiquity, a cura di B.C. McGing, London-New York
1988, 190 ss.; E.M. Orlin, Temples, Religion, and Politics in the Roman
Republic, Leiden 1997 [rist., Boston – Leiden 2002], 76 ss.; L. Breglia Pulci Doria, Libri
Sybillini e dominio di Roma, in Sibille e linguaggi oracolari. Mito
Storia Tradizione. Atti del convegno
internazionale di studi, Macerata-Norcia 20-24 Settembre 1994, a cura di I.
Chirassi Colombo, Macerata 1998, 277 ss.; J.
Scheid, Les Livres Sibyllins et
les archives des quindécemvirs, G.
Liberman, Les documents
sacerdotaux du collège sacris faciundis, in La mémoire perdue, cit., rispett. a 11 ss. e 65 ss.; T. Mazurek, The decemviri sacris faciundis:
Supplication and Prediction, in Augusto augurio. Rerum humanarum et divinarum commentationes in honorem J. Linderski,
a cura di C.F. Konrad, Stuttgart 2004, 151 ss.; M. Monaca, La Sibilla a
Roma. I Libri Sibillini fra religione e politica, Cosenza 2005; A. Gillmeister, The Role of the Viri Sacris Faciundis College in Roman Public Religion, in Society and Religions. Studies
in Greek and Roman History 2, Toruń 2007, 57 ss.; Id., Sibyl in Republican Rome – literary construction or ritual
reality?, in Society and Religions.
Studies in Greek and Roman History, 3, Toruń 2010, 9 ss.; Id., The Sibylline Books – Social Drama in Action and Civic Religion
in Ancient Rome, in Mantic Perspectives:
Oracles, Prophecy and Performance, a cura di K. Bielawski,
Gardzienice-Lublin-Warszawa 2015, 177 ss.; J.
Keskiaho, Re-visiting the Libri Sibyllini: Some Remarks on Their Nature in Roman
Legend and Experience, in Studies in Ancient Oracles and Divination,
a cura di M. Kajava, Roma 2013, 145 ss.
Cfr. anche P. Garuti, Storie di re, di libri e di fuoco. Ger 36 e la leggenda dei libri
sibillini, in Revue biblique 120,
2013, 240 ss. Cfr. J. Poucet, Les Tarquins, les Livres Sibyllins et la
Sibylle de Cumes: entre la Tradition, Histoire et Imaginaire, in Folia
Electronica Classica 16.1, 2008 (http://bcs.fltr.ucl.ac.be/FE/16/TM16.html ).
[175] Come ha sottolineano C. Santi,
I Libri Sibyllini e i decemviri
sacris faciundis, cit., 25, i libri
Sibyllini «devono restare “arcani”, nella doppia valenza
di chiusi in un’arca e segreti». Così
anche J. Linderski, The libri reconditi, cit., 211:
«the libri Sibyllini were the libri reconditi in the full sense of the
word, although this term was never used with respect to them».
[176] Lactantius, Div. Inst.. 1.6.13: Harum omnium Sibyllarum carmina et feruntur et habentur, praeterquam
Cymaeae, cuius libri a Romanis occultantur nec eos ab ullo nisi a
quindecimviris inspici fas habent. Cfr. Cicero, De leg. 2.30: ... ad
interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque
ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra conlegium nosset.
[178]
Dionysius Halicarnassensis 4.62.5: μετὰ δὲ τὴν ἐκβολὴν τῶν βασιλέων ἡ πόλις ἀναλαβοῦσα τὴν τῶν χρησμῶν προστασίαν ἄνδρας τε τοὺς ἐπιφανεστάτους ἀποδείκνυσιν αὐτῶν φύλακας, οἳ διὰ βίου ταύτην ἔχουσι τὴν ἐπιμέλειαν στρατειῶν ἀφειμένοι καὶ τῶν ἄλλων τῶν κατὰ πόλιν πραγματειῶν, καὶ δημοσίους αὐτοῖς παρακαθίστησιν, ὧν χωρὶς οὐκ ἐπιτρέπει τὰς ἐπισκέψεις τῶν χρησμῶν τοῖς ἀνδράσι ποιεῖσθαι.
συνελόντι δ’ εἰπεῖν οὐδὲν οὕτω Ῥωμαῖοι φυλάττουσιν οὔθ’ ὅσιον κτῆμα οὔθ’ ἱερὸν ὡς τὰ Σιβύλλεια θέσφατα.
χρῶνται δ’ αὐτοῖς, ὅταν ἡ βουλὴ ψηφίσηται,
στάσεως καταλαβούσης τὴν πόλιν ἢ δυστυχίας τινὸς μεγάλης συμπεσούσης κατὰ πόλεμον ἢ τεράτων τινῶν καὶ φαντασμάτων μεγάλων καὶ δυσευρέτων αὐτοῖς φανέντων,
οἷα πολλάκις συνέβη. οὗτοι διέμειναν οἱ χρησμοὶ μέχρι τοῦ Μαρσικοῦ κληθέντος πολέμου κείμενοι κατὰ γῆς ἐν τῷ ναῷ τοῦ Καπιτωλίνου Διὸς ἐν λιθίνῃ λάρνακι,
ὑπ’ ἀνδρῶν δέκα φυλαττόμενοι.
[179]
Sull’epiteto Optimus Maximus,
rimando per tutti a G. Radke, Iuppiter Optimus Maximus: dieu libre de
toute servitude, in Revue Historique
de Droit français et étranger 64, 1986, 1 ss. In generale,
per gli appellativi di Giove vedi O.
Thulin, v. Iuppiter, in Paulys
Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, X.2,
Stuttgart 1917, coll. 1126
ss., e in part. coll. 1142-1144.
[180] L’importanza del dio emerge
soprattutto in Cicero, Pro Rosc. Am.
131: ... etenim si Iuppiter
Optimus Maximus, cuius nutu et arbitrio caelum, terra mariaque reguntur
...
Tra
gli studiosi che hanno posto in risalto il ruolo politico di Iuppiter Optimus Maximus, vedi
specialmente: G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, 201: «Jupiter O. M. a été
naturellement associé à la mission de puissance et de
conquête que Rome se découvrait»; R. Del Ponte, La religione
dei Romani, cit., 135: «la figura maestosa di Giove Ottimo Massimo
appartiene solo allo Stato. Iuppiter e
res publica si protendono entrambi
verso l’avvenire, che molti prodigi rivelano foriero di grandezza. Al
centro di tutto, il tempio capitolino, nato sacralmente in contemporanea alle
nuove magistrature statuali. Finché questo esisterà,
esisterà anche lo Stato»; C.
Santi, Iuppiter nella religione civica di Roma arcaica, in Chaos e Kosmos 15, 2014, 3 (http://www.chaosekosmos.it/pdf/2014_08.pdf ), per
cui Iuppiter Optimus
Maximus era «la rappresentazione religiosa
dell’idea di res publica». Vedi ancora, per le prospettive ideologiche connesse a Giove:
C. Koch, Der römische Juppiter, 2ª
ed., Frankfurt am Main 1937 [rist., Darmstadt 1968, ora in trad. it. di L.
Arcella: Giove Romano, Roma 1986];
J.R. Fears, The Cult of Jupiter and Roman Imperial Ideology, in Aufstieg und Niedergang der römischen
Welt II.17.1, Berlin-New York 1981, 3 ss.; C.M.A. Rinolfi, Plebe,
pontefice massimo, tribuni della plebe, cit., § 3 c.
[181] Per l’episodio di Atilio vedi anche Dionysius
Halicarnassensis 4.62.4: ... Ταρκύνιος δὲ
τῶν ἀστῶν ἄνδρας ἐπιφανεῖς δύο
προχειρισάμενος καὶ δημοσίους
αὐτοῖς θεράποντας
δύο
παραζεύξας
ἐκείνοις ἀπέδωκε τὴν
τῶν βιβλίων φυλακήν, ὧν τὸν ἕτερον
Μάρκον Ἀτίλιον ἀδικεῖν τι δόξαντα
περὶ τὴν πύστιν
καταμηνυθέντα ὑφ’ ἑνὸς τῶν
δημοσίων, ὡς
πατροκτόνον εἰς ἀσκὸν ἐνράψας βόειον ἔρριψεν
εἰς
τὸ
πέλαγος.
Con alcune varianti, Zonaras 7.11.4. Sulla vicenda, ad es.: M. Monaca, La Sibilla a Roma, cit., 71 s.; A.
Gillmeister, Sibyl in Republican
Rome – literary construction or ritual reality?, cit., 16 s.
[182] Per le problematiche inerenti alla poena culleis, vedi da ultimo, D. Di
Ottavio, Octo genera poenarum
(a margine di August., civ. Dei 21.11 e Isid., etym.
5.27.1 ss.), in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 57,
2014, 321 ss., spec. 336; P. Biavaschi, L’ambiguo destino della poena
cullei tra sopravvivenza e innovazione,
in Ravenna Capitale, Codice Teodosiano e
tradizioni giuridiche in Occidente. La terra, strumento di arricchimento e
sopravvivenza, Santarcangelo di Romagna 2016, 169 ss., spec. 170 (fonti e
bibliografia ivi).
[183] C. Santi,
I Libri Sibyllini e i decemviri
sacris faciundis, cit., 28, sottolinea come, in relazione
all’episodio in esame, «in ogni versione manca qualsiasi accenno ad
una eventuale consultazione dei libri
Sibyllini in età regia da parte dei duumviri, consultazione che – in epoca repubblicana –
costituisce l’unico compito –oltre a quello di custodia –
affidato ai decemviri».
[184] Come evidenzia F.
Gnoli, v. Sacrilegio. a)
Diritto romano, in Enciclopedia del diritto, XLI, Milano 1989, 212, il riferimento di Valerio Massimo a un
illecito religioso si può spiegare attraverso «la necessità
di escludere dalla civitas i
responsabili di atti tali da poter provocare l’ira deorum contro la comunità nazionale».
[185] Questa caratteristica si coglie nella ben
nota asserzione ciceroniana: Sua cuique
civitati religio, Laeli, est, nostra nobis (Pro Flac. 69). Intorno a
questa religione, rimando a J. Scheid, Numa et Jupiter ou les dieux citoyens de
Rome, in Archives de Sciences sociales des Religions 59.1, 1985, 41
ss. Vedi anche, ad esempio, F. Pina Polo, Consuls as curatores pacis deorum, in Consuls and res publica. Holding High Office in the Roman Republic,
a cura di H. Beck, A. Duplá, M. Jehne, F. Pina Polo, Cambridge 2011, 97;
C. Santi, Iuppiter nella religione civica
di Roma arcaica, cit.,
1 ss. Per il “carattere collettivo” della religione antica, J. Rüpke, La
religione dei Romani, cit., 14 ss.
[186] Utilizzo qui la locuzione di Livius
31.9.5 (testo in nt. 138). Cfr. Festus, De
verb. sign., p. 366 L.: Religiosi
dicuntur, qui faciendarum praetermittendarumque rerum divinarum secundum morem
civitatis dilectum habent, nec se superstitionibus inplicant.
[187] Vedi C.M.A. Rinolfi, Servi e
religio, in Diritto@Storia 9, 2010 (http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Rinolfi-Servi-religio.htm
).
[188] S. Savage, Remotum a Notitia Vulgari,
in Transactions and Proceedings of the
American Philological Association 76, 1945, 157: «In the religion of
Rome, there was always a small terra
incognita which only privileged priests might explore».
[189] Vedi in materia A. Brelich, Osservazioni
sulle “esclusioni rituali”, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 22, 1949-1950, 1 ss.
[190] Macrobius, Sat. 1.12.28: Unde et
mulieres in Italia sacro Herculis non licet interesse, quod Herculi cum boves
Geryonis per agros Italiae duceret, sitienti respondit mulier aquam se non
posse praestare, quod feminarum deae celebraretur dies, nec ex eo apparatu
viris gustare fas esset. Propter quod Hercules facturus sacrum detestatus est
praesentiam feminarum, et Potitio ac Pinario sacrorum custodibus iussit ne
mulierem interesse permitterent. Cfr. Gellius, Noct. Att. 11.6.1-2, per cui le donne non potevano giurare in nome
di Ercole: In veteribus scriptis neque
mulieres Romanae per Herculem deiurant neque viri per Castorem. 2. Sed cur illae non iuraverint Herculem, non
obscurum est, nam Herculaneo sacrificio abstinent.
Per la cerimonia, celebrata dai Potizi e dai Pinari fino
alla sua trasformazione in culto pubblico, nel 312 a.C., durante la censura di
Appio Claudio Cieco, vedi, ad esempio: L.G. Gyraldus,
Historiae Deorum Gentilium, Basileae 1548, 660 s.; A. De Marchi, Il Culto Privato di
Roma antica. II. La religione gentilizia e collegiale, Milano 1906
[rist., Forlì 2004], 16 ss.; G. Wissowa,
Religion und Kultus der Römer, cit., 274 s.; J. Bayet, Les origines de
l’Hercule romain, Paris 1926, 248 ss.; F. Sbordone, Il ciclo
italico di Eracle, in Athenaeum 19,
1941, 149 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani. IV. La
fondazione dell’impero. II. Vita
e pensiero nell’età delle grandi conquiste, Firenze 1953
[rist., 1963], 255 s.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, cit., 213 s.; R.E.A. Palmer, The Censors of 312 B.C. and the State Religion,
in Historia 14, 1965, 293 ss.; A. Alföldi,
Die Struktur des voretruskischen Römerstaates, Heidelberg 1974, 148
ss.; D. Sabbatucci, Lo stato
come conquista culturale. Ricerca sulla Religione Romana, Roma 1975, 190
ss.; N. Rouland, A propos des servi
publici populi Romani, in Chiron 7, 1977, 270 ss.; G. Dumézil, La religion romaine
archaïque, cit., 434 ss.; W. Eder,
Servitus publica. Untersuchungen zur Entstehung, Entwicklung und Funktion
der öffentlichen Sklaverei in Rom, Wiesbaden 1980, 39 ss.; B. Biondo, I Potizi, i Pinari e la
statizzazione del culto di Ercole, in Ricerche sulla organizzazione
gentilizia romana, a cura di G. Franciosi, II, Napoli 1988, 189 ss.; M.A. Levi, Ercole e Roma, Roma 1997,
40 s., 49 s., 54 s., 68; C.E. Schultz,
Modern Prejudice and Ancient Praxis:
Female Worship of Hercules at Rome, in Zeitschrift
für Papyrologie und Epigraphik 133, 2000, 291 ss.; A. Marzano, Hercules and the triumphal
feast for the Roman people,
in Transforming historical landscapes in
the Ancient Empires. Proceedings of the first
workshop, December 16-19th 2007, a cura di B. Antela-Bernárdez, T. Ñaco del Hoyo, Oxford
2009, 83 ss., spec. 89 s.; C.M. MacDonough,
Women at the Ara Maxima in the Fourth
Century A.D.?, in The Classical
Quarterly 54, 2004, 655 ss. Per
la esclusione delle donne da alcuni riti, vedi, ad esempio: O. de Cazanove, Exesto: L’incapacité sacrificielle
des femmes à Rome (à propos de Plutarque Quaest. Rom. 85), in Phoenix 41, 1987, 159 ss.
[191] Su questa divinità e sul suo culto, ad esempio:
Cicero, De dom. 105: Quem umquam audisti maiorum tuorum, qui et
sacra privata coluerunt et publicis sacerdotiis praefuerunt, cum sacrificium Bonae Deae fieret interfuisse? Neminem, ne illum
quidem qui caecus est factus; Plutarchus, Caes. 9.6-8: Ἄνδρα δὲ
προσελθεῖν οὐ θέμις οὐδ’ ἐπὶ τῆς οἰκίας γενέσθαι τῶν ἱερῶν ὀργιαζομένων, αὐταὶ δὲ καθ’ ἑαυτὰς αἱ γυναῖκες
πολλὰ τοῖς Ὀρφικοῖς ὁμολογοῦντα δρᾶν λέγονται
περὶ τὴν ἱερουργίαν. 7. Ὅταν οὖν ὁ τῆς ἑορτῆς καθήκῃ χρόνος, ὑπατεύοντος ἢ
στρατηγοῦντος ἀνδρός, αὐτὸς μὲν ἐξίσταται
καὶ
πᾶν
τὸ
ἄρρεν,
ἡ
δὲ
γυνὴ τὴν οἰκίαν
παραλαβοῦσα
διακοσμεῖ. 8. Καὶ τὰ μέγιστα
νύκτωρ
τελεῖται,
παιδιᾶς ἀναμεμειγμένης ταῖς
παννυχίσι, καὶ
μουσικῆς ἅμα
πολλῆς παρούσης; Cic. 19.4 s.: ... καὶ
προπεμφθεὶς παρῆλθεν εἰς οἰκίαν φίλου
γειτνιῶντος, ἐπεὶ τὴν ἐκείνου
γυναῖκες
κατεῖχον ἱεροῖς ἀπορρήτοις ὀργιάζουσαι
θεόν,
ἣν
Ῥωμαῖοι μὲν Ἀγαθήν, Ἕλληνες
δὲ
Γυναικείαν ὀνομάζουσι.
5. Θύεται
δ’ αὐτῇ κατ’ ἐνιαυτὸν ἐν τῇ οἰκίᾳ τοῦ ὑπάτου διὰ
γυναικὸς ἢ μητρὸς αὐτοῦ, τῶν Ἑστιάδων
παρθένων
παρουσῶν; vedi ancora Quaest. Rom. 20.
In
materia, ex multis: J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, II,
cit., 32 ss.; C. Bailey, The religion of ancient Rome, London
1911, 25 s.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit., 216 ss.; F.
Cumont, La Bona Dea et ses serpents, in Mélanges d’archéologie et histoire 49, 1932, 1
ss.; N. Turchi, La religione
di Roma antica, cit., 88 s.; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte, cit., 228 ss.; J. Gagé, Matronalia. Essai sur les dévotions et les organisations cultuelles des femmes
dans l’ancienne Rome, Bruxelles 1963, 137 ss.; G. Piccaluga, Bona Dea. Due contributi
all’interpretazione del suo culto, in Studi e
Materiali di Storia delle Religioni 35, 1964, 195 ss.; M. Cébeillac, Octavia, épouse de Gamala, et la
Bona Dea, in Mélanges
de l’Ecole française de Rome. Antiquité
85, 1973, 517 ss., spec. 530 ss.; L. Herrmann, Ovide, la
Bona Dea et Livie, in L’antiquité classique 44,
1975, 126 ss.; H.H.J. Brouwer, Bona Dea: the sources and a description of the cult, Leiden 1989; H.S.
Versnel, The Festival for Bona Dea
and he Thesmophoria, in Greece &
Rome 39, 1992, 31 ss.; N.
Böels-Janssen, La vie religieuse
de matrones dans la Rome archaïque, Rome 1993, 429 ss.; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici. Archetipi
e forme della sacralità romano-italica, 3ª ed., Genova 1998, 164 ss.; A. Stables, From Good Goddess to Vestal Virgins. Sex and category in Roman religion,
London-New York 1998, 13 ss.; F. Marcattili, Bona Dea, ἡ Θεὸς γυναικεῖα, in Archeologia classica 61, 2010, 7 ss. (cfr. anche Id., Tra Venere, Bona Dea e Cupra. Note a margine della lamina di Fossato di
Vico, in Forme e strutture della
religione nell’Italia mediana antica. III Convegno internazionale
dell’Istituto di Ricerche e Documentazione sugli Antichi Umbri, Perugia
21-25 settembre 2011, a cura di A.
Ancillotti, A. Calderini, R. Massarelli, Roma 2016, 469 ss.); A. Mastrocinque, Religione e politica: il caso di Bona Dea, in Politiche religiose nel mondo antico e tardoantico. Poteri e indirizzi,
forme del controllo, idee e prassi di tolleranza. Atti del Convegno
internazionale di studi, Firenze, 24-26 settembre 2009, a cura di G.A.
Cecconi, C. Gabrielli, Bari 2011, 165 ss.;
M. Arnhold, Male Worshippers and the
Cult of Bona Dea, in Religion in the Roman Empire 1.1, 2015, 51 ss.; F. Gatto, Las sacerdotisas de Bona Dea:
condición social y aspectos organizativos del culto, in Estudo de Arqueoloxía, Prehistoria e
Historia Antiga: achegas dos novos investigadores, a cura di R. Cordeiro
Macenlle, A. Vázquez Martínez, Santiago de Compostela 2016, 287
ss.
[192] In età ciceroniana, il
culto della Bona Dea fu oggetto di un
celebre scandalo, che ebbe strascichi religiosi, politici e giudiziari. Nella
notte del 3 dicembre del 62 a.C., Publio Clodio Pulcro, travestito da donna,
violò le celebrazioni in onore della divinità commettendo
adulterio con Pompea, la moglie di Cesare, nella casa di quest’ultimo;
l’atto compiuto dal tribuno fu dichiarato nefas da una commissione composta da pontefici e vestali, a cui il
senato aveva sottoposto la questione: Cicero, Ad Att. 1.13.3: Credo enim te
audisse, cum apud Caesarem pro populo fieret, venisse eo muliebri vestitu virum,
idque sacrificium cum virgines instaurassent, mentionem a Q. Cornificio in
senatu factam (is fuit princeps, ne tu forte aliquem nostrum putes); postea rem
ex senatus consulto ad virgines atque ad pontifices relatam idque ab iis nefas
esse decretum; deinde ex senatus consulto consules rogationem promulgasse;
uxori Caesarem nuntium remisisse. In hac causa Piso amicitia P. Clodi ductus
operam dat ut ea rogatio quam ipse fert, et fert ex senatus consulto et de
religione, antiquetur. Messalla vehementer adhuc agit <et> severe. Boni
viri precibus Clodi removentur a causa, operae comparantur. Vedi ancora, ad
es., Cicero, De har. resp. 37: Quod quidem sacrificium nemo ante P. Clodium
omni memoria violavit, nemo umquam adiit, nemo neglexit, nemo vir aspicere non horruit,
quod fit per virgines Vestales, fit pro populo Romano, fit in ea domo quae est
in imperio, fit incredibili caerimonia, fit ei deae cuius ne nomen quidem viros
scire fas est, quam iste idcirco Bonam dicit quod in tanto sibi scelere
ignoverit; 44: P. Clodius a crocota,
a mitra, a muliebribus soleis purpureisque fasceolis, a strophio, a psalterio,
<a> flagitio, a stupro est factus repente popularis. Nisi eum mulieres
exornatum ita deprendissent, nisi ex eo loco quo eum adire fas non fuerat ancillarum
beneficio emissus esset, populari homine populus Romanus, res publica cive tali
careret; Seneca phil., Ad Luc.
97.2: Credat aliquis pecuniam esse
versatam in eo iudicio, in quo reus erat P. Clodius ob id adulterium, quod cum
Caesaris uxore in operto commiserat violatis religionibus eius sacrificii, quod
pro populo fieri dicitur sic summotis extra consaeptum omnibus viris, ut
picturae quoque masculorum animalium contegantur? Atqui dati iudicibus nummi
sunt et, quod hac etiamnunc pactione turpius est, stupra insuper matronarum et
adulescentulorum nobilium stilari loco exacta sunt.
Sul tema, ad es.: J.P.V.D.
Balsdon, Fabula Clodiana, in Historia 15, 1966, 65 ss.; W.M.F. Rundell, Cicero and
Clodius, cit., 303 ss.; D.F.
Epstein, Cicero’s Testimony
and the Bona Dea Trial, in Classical Philology 81, 1986, 229 ss.; P. Moreau, Clodiana Religio. Un procès politique en 61 av. J.-C., Paris
1982; D. Mulroy, The Early Career of P. Clodius Pulcher,
cit., 165 ss.; H.H.J. Brouwer, Bona Dea, cit., 363 ss.; W.J. Tatum, Cicero and the Bona Dea scandal,
in Classical Philology 85, 1990, 202
ss.; J. Spielvogel, P. Clodius
Pulcher, cit., 58 ss.; E. Winsor
Leach, Gendering Clodius,
cit., 335 ss.; F. Van Haeperen, Le collège
pontifical, cit., 243 s.; J. Lennon,
Pollution and ritual impurity in
Cicero’s De domo sua, cit., 432 ss.
[193] Paulus Diaconus, Excerpt. de verb. sign., p. 72 L.: Exesto,
extra esto. Sic enim
lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus, mulier, virgo exesto;
scilicet interesse prohibebatur. Per le questioni sorte in letteratura intorno identificazione
di tali sacra, rimando a F. Sini, Bellum nefandum, cit., 149
nt. 8.
[194] Su Ops
e sulla sua cerimonia, vedi, ad esempio: A. Bouché-Leclercq,
Les pontifes de l’ancienne
Rome, cit., 280; E. Aust, Die Religion
der Römer, cit., 186; W.
Warde Fowler, The Roman Festivals
of the Period of the Republic. An
Introduction to the Study of the Religion of the Romans, London
1899, 213 s.; C. Bailey, The religion of ancient Rome, cit., 67
s.; G. Wissowa, Religion und
Kultus der Römer, cit., 203 s., 338; K.
Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 72, 110; G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, 289 ss.; P. Pouthier, Ops et la
conception divine de l’abondance dans la religion romaine
jusqu’à la mort d’Auguste, Rome 1981; F. Van Haeperen,
Le collège pontifical, cit., 353 ss.
[195] Varro, De ling. Lat. 5.64: Terra Ops, quod hic omne opus et hac opus ad
vivendum, et ideo dicitur Ops mater, quod terra mater.
Sulla dea vedi ancora, ad esempio: Macrobius, Sat. 1.10.18-22: 18 Ex his ergo omnibus colligi potest et uno die Saturnalia fuisse et non
nisi quarto decimo kalendarum Ianuariarum celebrata. Quo solo die apud aedem
Saturni convivio dissoluto Saturnalia clamitabantur, qui dies nunc Opalibus
inter Saturnalia deputatur, cum primum Saturno pariter et Opi fuerit
adscriptus. 19. Hanc autem deam Opem
Saturni coniugem crediderunt, et ideo hoc mense Saturnalia itemque Opalia
celebrari, quod Saturnus eiusque uxor tam frugum quam fructuum repertores esse
credantur. Itaque omni iam
fetu agrorum coacto ab hominibus hos deos coli quasi vitae cultioris auctores. 20. Quos etiam non nullis caelum ac terram esse
persuasum est Saturnumque a satu dictum cuius causa de caelo est, et terram
Opem cuius ope humanae vitae alimenta quaeruntur, vel ab opere, per quod
fructus frugesque nascuntur. 21. Huic
deae sedentes vota concipiunt terramque de industria tangunt, demonstrantes
ipsam matrem terram esse mortalibus adpetendam. 22. Philochorus Saturno et Opi primum in Attica statuisse aram Cecropem
dicit, eosque deos pro Iove terraque coluisse, instituisseque ut patres
familiarum et frugibus et fructibus iam coactis passim cum servis vescerentur,
cum quibus patientiam laboris in colendo rure toleraverant. Cfr. anche
Paulus Diaconus, Excerpt. de verb. sign.,
p. 203 L.: Opis dicta est coniunx
Saturni, per quam voluerunt terram significare, quia omnes opes
humano generi terra tribuit; unde et opulenti terrestribus rebus
copiosi, et hostiae opimae praecipue pingues, et opima magnifica et ampla spolia.
[196] Sui sacraria: D. 1.8.9.2 (Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum): Illud
notandum est aliud esse sacrum locum, aliud sacrarium. sacer locus est locus
consecratus, sacrarium est locus, in quo sacra reponuntur, quod etiam in aedificio
privato esse potest, et solent, qui liberare eum locum religione volunt, sacra
inde evocare; Servius,
Ad Aen. 12.99: sacrarium proprie
est locus in templo, in quo sacra reponuntur, sicut donarium est, ubi ponuntur oblata, sicut
lectisternia dicuntur, ubi homines in templo sedere consueverunt.
Per questi luoghi di culto, vedi, ad
esempio: M. Van Doren, Les sacraria une catégorie
méconnue d’édifices sacrés chez les Romains, in L’antiquité
classique 27, 1958,
31 ss.; Å. Fridh, Sacellum,
Sacrarium, Fanum, and Related Terms, in Greek and Latin
Studies in memory of C. Fabricius, Göteborg 1990, 173 ss.; A. Dubourdieu–J. Scheid, Lieux de culte, lieux
sacrés: les usages de la langue. L’Italie romaine,
in Lieux sacrés, lieux de culte, sanctuaires. Approches
terminologiques, méthodologiques, historiques et monographiques,
Rome 2000, 59 ss., spec. 75 ss.
[197] Varro, De ling. Lat. 6.21: Opiconsivia dies ab dea Ope Consiva, cuius in Regia
sacrarium, quod adeo augustum, ut eo praeter virgines Vestales et sacerdotem
publicum introeat nemo (riporto qui l’edizione di P. Flobert, in Varron, La langue Latine, VI, Paris 1985, 13).
[198] La lacuna presente in Varro, De ling. Lat. 6.21, dopo il termine quod, talvolta, è stata colmata
dagli editori con artum o con angustum, così, ad esempio, R.G. Kent, in Varro, On the Latin Language, I,
Massachussetts-London 1938, rist. 1977, 192 s.: Opeconsiva dies ab dea Ope Consiva, cuius in Regia
sacrarium, quod adeo artum, ut eo praeter virgines Vestales et
sacerdotem publicum introeat nemo; ma vedi le considerazioni di P. Flobert, in Varron, La langue Latine, cit., 92 nt. 2.
[199] Vedi, ad esempio, G.
Dumézil, Idées romaines, cit., 295; Id., La religion romaine
archaïque, cit., 169, 185; P.
Pouthier, Ops et la conception divine
de l’abondance dans la religion romaine jusqu’à la mort
d’Auguste, cit., 60.
[201] Servius, Ad Aen. 6.71.
Vedi ancora, ad esempio: Lactantius, Div. Inst. 2.4.28: ... tanta fuit religio, ut adire templi eius
secreta penetralia viris nefas
esset ...; Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 2.26: Perhibentur tamen in adytis suis secretisque penetralibus dare quaedam
bona praecepta de moribus quibusdam velut electis sacratis suis? Cfr.
Livius 6.41.9: nunc nos, tamquam iam
nihil pace deorum opus sit, omnes caerimonias polluimus.Vulgo ergo, pontifices,
augures, sacrificuli reges creentur; ... tradamus ancilia, penetralia, deos deorumque curam,
quibus nefas est; Festus, De verb.
sign., p. 296 L.: Penetrale sacrificium dicitur, quod
interiore parte sacrari conficitur. Unde et penetralia cuiusque dicuntur; et penes nos, quod in potestate
nostra est; Paulus Diaconus, Excerpt.
de verb. sign., p. 96 L.: Inpenetrale,
cuius ultimum penetrale intrare
non licet. In Vergilius, Aen. 2.296 s.: Sic ait, et manibus vittas Vestamque potentem /aeternumque adytis
effert penetralibus ignem, si rinviene, inoltre, l’assimilazione dei penetrali con gli adyta greci, su cui: Caesar, Bell. Civ. 3.105.5: Pergamique in occultis ac reconditis templi quo praeter sacerdotes adire fas non est quae Graeci adyta appellant Tympana
sonuerunt; Servius, Ad Aen. 2.115: adytum est locus templi
secretior, ad quem nulli est aditus nisi sacerdoti; cfr. Hieronymus, Comment. in Isaiam 10.32.9: Adyta
templi et secreta mysteria palpabiles tenebrae possederunt, et facta
sunt nequaquam cellaria vasorum domini, sed speluncae usque in sempiternum.
In materia, J. Linderski, The libri reconditi, cit., 210 s.
[202] Per il penus Vestae, ad esempio: J. Marquardt,
Le culte chez les Romains, I,
cit., 298 ss.; II, cit., 35; I.
Santinelli, Alcune questioni
attinenti ai riti delle vergini Vestali. Vesta aperit (Cal. Philoc., al 7
giugno), in Rivista di Filologia e
d’Istruzione Classica 30, 1902, 255 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit.,
159; G. Giannelli, Il “Penus Vestae” e i
“Pignora Imperî”, in Atene
e Roma 17, 1914, coll. 252 ss.; St. Weinstock, Penates (Staatskult), in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, XIX.1, Stuttgart 1937, coll. 440 ss.; D.
Sabbatucci, La religione di Roma
antica dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, 202 s.
Per la ricostruzione
delle vicende storiche dell’Aedes Vestae, A. Carandini, Il fuoco sacro di Roma:
Vesta, Romolo. I Enea, Bari-Roma 2015, 5 ss., vedi anche 25
s. per il penus.
[203] Lactantius, Div. Inst. 3.20.4: Nimirum multo
sceleratiores qui arcana mundi et hoc caeleste templum profanare inpiis
disputationibus quaerunt quam qui aedem Vestae aut Bonae Deae aut Cereris
intraverit. Quae penetralia quamvis
adire viris non liceat, tamen a viris fabricata sunt.
Queste
limitazioni sono collegate al fatto che la dea Vesta «rappresenta la privatezza, la riservatezza, in qualche modo anche
il segreto» (C. Masi Doria, Acque
e templi nell’Urbe: uso e riti. Il caso della Vestale Tuccia, in Il governo del territorio
nell’esperienza storico-giuridica, a cura di P. Ferretti, M.
Fiorentini, D. Rossi, Trieste 2017,
96).
[204] Festus, De verb.
sign., p. 296 L.: <Penus v>ocatur locus intimus in
aede Vestae tegetibus saeptus,
qui certis diebus circa Vestalia aperitur,
vedi anche p. 152 L.: Muries est,
quemadmodum Veranius docet, ea quae fit ex sali sordido, in pila pisato, et in
ollam fictilem coniecto, ibique operto gypsatoque et in furno percocto; cui
Virgines Vestales serra ferrea
secto, et in seriam coniecto, quae est intus in aede Vestae in penu exteriore,
aquam iugem, vel quamlibet, praeterquam quae per fistulas venit, addunt, atque
ea demum in sacrificiis utuntur.
[205] Su tale festa, ad esempio: W. Warde Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, cit., 145 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der
Römer, cit., 158 ss.; K. Latte,
Römische Religionsgeschichte,
cit., 109 s., 143 s.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica dal calendario
festivo all’ordine cosmico, cit., 202 ss.; N. Böels-Janssen, La
vie religieuse de matrones dans la Rome archaïque, cit., 337; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 113 s.
[206] Scriptores Historiae Augustae (Aelius Lampridius), Heliogab. 6.7: Nec Romanas tantum extinguere voluit religiones, sed per orbem terrae, unum studens, ut Heliogabalus deus ubique coleretur, et in penum Vestae, quod solae virgines solique pontifices adeunt, inrupit pollutus ipse omni contagione morum cum his, qui se polluerant. Et penetrale sacrum est auferre conatus cumque seriam quasi veram rapuisset, quam[q] virgo maxima falso[m] monstraverat atque in ea nihil repperisset, adpl[a]osam <f>regit; nec tamen quicquam religioni dempsit, quia plures similes factae dicuntur esse, ne quis veram umquam possit auferre. In letteratura la notizia è stata considerata erronea (ad es., G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 159 nt. 6), ma vedi i rilievi di G. Giannelli, Il “Penus Vestae” e i “Pignora Imperî”, cit., coll. 254 ss., per cui, il racconto di Lampridio, solo a prima vista, sembrerebbe contenere una contraddizione interna a causa dell’inciso “quod solae virgines solique pontifices adeunt”, «giacchè dov’era più il sacrilegio di Eliogabalo, se nel Penus potevano entrare anche i Pontefici? All’Imperatore allora, come Pontefice Massimo, non poteva esser impedito l’accesso». Questa apparente incoerenza del testo è spiegata da Giannelli attraverso la distinzione del penus interior e di quello exterior: «Il sacrilegio di Eliogabalo consistè infatti non nell’essere penetrato egli, pontefice, in penum Vestae quod solae virgines solique pontifices adeunt, ma nell’essere entrato pollutus ipse omni contagione morum cum iis, qui se polluerant, e nell’aver poi posto le mani sul penetrale sacrum, anche al Pontefice intangibile». L. Cracco Ruggini, Oggetti “caduti dal cielo” nel mondo antico: valenze religiose e politiche, in Sacre impronte e oggetti «non fatti da mano d’uomo» nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale - Torino, 18-20 maggio 2010, a cura di A. Monaci Castagno, Alessandria 2011, 104, rinviene l’ideologia contenuta nel passo: «una sottesa polemica filopagana contro Costantino (il dedicatario ‘ufficiale’ della Vita di Elagabalo scritta da ‘Elio Lampridio’), e contro la sua velleità di portare a Costantinopoli, nuova Roma, i sacra più antichi dell