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Sini-foto-D@S-2016 - CopiaAspetti e problemi dell’universalismo romano. Ricerche di ius publicum (e ius sacrum) *

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FRANCESCO SINI

Università di Sassari

 

Nel ricordo dell’Avvocato Lucilio Secchi Tarugi

 

 

SOMMARIO: 1. La fine della religione politeista romana. – 2. Luoghi dell’universalismo romano: la urbs Roma «auspicato inauguratoque condita». – 3. Una religio per la pax deorum. – 4. Dimensione religiosa dell’imperium populi Romani. – 5 Il sacrificio nella religione romana. – 6. Tensioni universalistiche e aperture (“tolleranza”) della religione politeista romana e dell’Impero Romano. – 7. “Aperture cultuali” come “procedure operative” dell’universalismo religioso romano. – 8. Conclusione. – 9. Bibliografia.

 

 

 

1. – La fine della religione politeista romana

 

Nel primo libro del Codex, promulgato dall’imperatore Giustiniano «In nomine Domini nostri Ihesu Christi» nell’anno 534 d.C., possiamo leggere – raccolti nel titolo XI sotto la rubrica «de paganis sacrificiis et templis» – ben dieci frammenti di costituzioni imperiali che vietano, comminando pene severissime, soprattutto il compimento degli antichi riti sacrificali[1]. Dunque, nei primi decenni del VI secolo d.C. l’imperatore riteneva ancora necessario ribadire le sanzioni comminate dai predecessori per coloro i quali avessero violato il divieto di compiere cerimonie religiose in onore degli dèi romani. Si tratta, a ben vedere, di una attestazione autorevolissima, quanto involontaria, della sotterranea e tenace resistenza di sentimenti religiosi popolari, che avevano bisogno per esprimersi delle pratiche cultuali elaborate dall’antica religione politeista romana.

Eppure, nel tempo in cui l’imperatore Giustiniano procedeva alla codificazione dello ius Romanum, erano trascorsi quasi due secoli dalla morte di Costantino il Grande, alla cui opera legislativa l’imperatore Costanzo, in una sua costituzione del 341 d.C., attribuiva la prima normazione contraria ai sacrifici cruenti di animali[2]. Molti anni erano passati anche dal 380 d.C., anno della promulgazione dell’editto di Tessalonica, con il quale gli imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I avevano stabilito che tutti i popoli dell’Impero dovessero aderire a quella religione «quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis»[3]. Molti anni erano trascorsi, infine, da quell’otto novembre del 392, quando l’imperatore Teodosio I, congiuntamente ai figli Arcadio e Onorio, aveva legiferato la proibizione di qualsiasi atto di culto (foss’anche privato) che si ispirasse all’antica religione del Popolo romano[4].

Così, per volontà dell’imperatore Teodosio I, cessava (almeno ufficialmente) il culto degli dèi; ultima e definitiva prova dello strettissimo legame che la religione politeista romana aveva sempre conservato, nel corso della sua storia millenaria, con la politica della res publica romana e con la vita del Populus Romanus Quirites. «Morte per decreto», sintetizza con un’espressione assai efficace il grande storico della religione romana Jean Bayet:

 

«Théodose a mis fin à l’ancienne religion romaine. Mort par décret. Nul geste n’offre plus clair symbole: italique, méditerranéenne, universelle, cette religion n’a cessé de se développer dans le cadre d’exigences politiques; là est la plus surprenante originalité de son évolution»[5].

 

 

2. – Luoghi dell’universalismo romano: la urbs Roma «auspicato inauguratoque condita»

 

Nei libri ab urbe condita di Tito Livio traspare più volte la convinzione che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come nelle vicende umane «omnia prospera evenisse sequentibus deos»[6]; unitamente ad un altro convincimento profondo: la pietas e la fides avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la legittimazione divina dell’imperium del popolo Romano. A suo avviso, gli dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza, assai più ben disposti verso coloro i quali avessero osservato la pietas ed onorato la fides[7].

Per il tema che intendo trattare, appare rilevante un altro passo di Tito Livio, peraltro molto conosciuto, tratto dal quinto dei suoi ab urbe condita libri (Livius 5.52.1-3). In questo testo, relativo alla narrazione degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma come il luogo massimamente votato alla religione: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus.

 

Livius 5.52.1-3: Haec culti neglectique numinis tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum vixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. Hos omnes deos publicos privatosque, Quirites, deserturi estis?

 

Tito Livio 5.52.1-3: Vedendo queste così grandi prove dell’importanza che ha nelle cose umane il rispetto degli dèi, non avvertite, o Quiriti, quale empietà ci prepariamo a commettere, appena scampati dal naufragio della colpa e della rovina precedente? Abbiamo una città fondata con auspici e augurii, dove non vi è luogo che non sia pieno di cose sacre e di dèi; per i sacrifici solenni, nonché i giorni, sono stati fissati anche i luoghi in cui devono compiersi. Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi dèi, pubblici e privati?

 

La valenza religiosa di questo testo liviano era stata colta assai bene da Huguette Fugier nelle sue «ricerche sulle espressioni del sacro nella lingua latina»:

 

«En fait, le populus ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette “paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies»[8].

 

Del resto il testo di Tito Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo sosteneva che il Popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il sito dell’urbs Roma, dove «nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento della fondazione) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e giuridica del Popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale seguendo il volere degli dèi. Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è che non si potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo ambito locale (la urbs Roma) adatto a contenere i riti e i sacrifici che ordinariamente assicuravano al Popolo romano la conservazione della pax deorum. Anzi nella parte finale del testo, si confondono volutamente i luoghi con gli dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio, infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe all’abbandono degli dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi dèi, pubblici e privati?»

Questo imprescindibile legame tra dèi e luoghi deputati al loro culto, di cui la urbs Roma rappresenta un esempio tanto significativo, non deve far dimenticare, tuttavia, che la religione politeista romana, proprio perché finalizzata alla conservazione della pax deorum, fu sempre caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti “aperture” cultuali verso l’esterno.

 

 

3. – Una religio per la pax deorum

 

Per comprendere le dinamiche della religione politeista romana risulta fondamentale il concetto di pax deorum. La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora sia loca) – rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra uomini e dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum. La conservazione della pax deorum richiedeva una perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere pronunciate.

 

«In queste condizioni – scriveva con la consueta acutezza Riccardo Orestano – tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste "forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina»[9].

 

Nell'antitesi fas/nefas, fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo appartenessero agli dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano. La teologia e lo ius divinum dei sacerdoti romani rappresentavano la vita e la storia del Popolo romano in rapporto di imprescindibile causalità con la religio: era stata la volontà degli dèi non solo a determinare il luogo – e il tempo – della fondazione dell’Urbs Roma (già il poeta Ennio vedeva, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est)[10]; ma anche a sostenerne la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[11]; infine, sempre alla volontà degli déi si doveva l’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e la garanzia della sua estensione sine fine[12].

I sacerdoti romani postularono, dunque, fin dalle prime attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs Roma con il culto degli dèi e della vita del Popolo romano con la sua religio; al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione politeista, la pax deorum («pace degli dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli dèi»).

 

«La conception – d'ordre philosophique – du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi»[13].

 

Per la vita del Popolo Romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra gli uomini e le divinità, considerate anch’esse come una delle parti (certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che agli dèi si riconosceva) del sistema giuridico-religioso romano; poiché, come ha scritto giustamente John Scheid:

 

«La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»[14].

 

Dagli dèi, potenti immensamente rispetto agli uomini, i Romani si aspettavano di ricevere pace e perdono[15]; senza tuttavia ignorare che le loro colpe potevano essere punite da Iuppiter con gravissimi mali[16]. Emerge così la nozione di pax deorum, che secondo una suggestiva ipotesi avanzata da Marta Sordi potrebbe essere addirittura «all'origine del concetto romano di pax». L’espressione pax deorum è attestata anche nella sua forma arcaica, pax divom o deum, da Plauto[17], Lucrezio[18], Virgilio[19] e Tito Livio[20].

Dal punto di vista umano, il «legalismo religioso» dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi. Ciò spiega, tra l'altro, l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici, nel documentare fatti e avvenimenti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere per espiare[21]. In questa prospettiva, può ben comprendersi anche il perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, dunque, dello ius del Popolo romano (ius publicum), che non a caso si presenta, stando alla testimonianza del giurista Ulpiano, tripartito in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus[22].

 

 

4. – Dimensione religiosa dell’imperium populi Romani

 

Come si è detto, i sacerdoti romani teorizzarono sempre un rapporto causale con la religio per tutte le manifestazioni significative della vita e della storia del Popolo romano. Gli antichi non avevano alcuna difficoltà a riconoscere un segno del favore degli dèi nell’egemonia mondiale dei Romani; tuttavia, erano anche coscienti del fatto che ciò non sarebbe potuto accadere senza alcun merito da parte loro: essi infatti, per sensibilità e cautela verso la religio, avevano superato di gran lunga tutti gli altri popoli.

Al riguardo, risultano davvero importanti le definizioni ciceroniane di religio, in cui la parola è utilizzata quasi sempre nel senso di "culto degli dèi"[23]: due passi del trattato “sulla natura degli dei” lasciano intravedere con grande chiarezza questa legittimazione religiosa (e quindi, giuridica) dell’imperium del Popolo romano.

 

Cicero, De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores[24].

 

In De nat. deorum 2.8, Cicerone sostiene che neglegere la religio ha sempre determinato intollerabili vulnera al Popolo romano; mentre l’osservanza della religio non può che produrre, nella dinamica della storia, la costante amplificatio della res publica: almeno finché i Romani continueranno ad essere, rispetto agli altri popoli, «religione, id est cultu deorum, multo superiores».

Nel secondo testo, Cicerone fa delineare a C. Aurelio Cotta i principali campi della religio, teorizzando che essa in sacra et in auspicia divisa sit.

 

De nat. deorum 3.5: Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta icisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse[25].

 

Da questo testo, emergono le convinzioni profonde della tradizione sacerdotale in merito alle basi religiose e giuridiche della civitas romana. Sacra e auspicia non solo costituiscono i due principali campi della religio, ma devono essere considerati più propriamente gli originari fundamenta (riferibili, infatti, alle origini dell’Urbs di Romolo e di Numa Pompilio) della res publica: sia l'elevato potere conseguito dal Popolo romano nel corso della sua storia, sia l’estensione “mondiale” dell’imperium populi Romani sarebbero del tutto inspiegabili sine summa placatione deorum immortalium.

La sottolineatura del carattere provvidenziale dell'Impero, quasi un premio al Popolo romano per aver saputo superare in religiosità tutti gli altri popoli, è motivo ricorrente in diverse opere ciceroniane: così, nell'orazione De haruspicum responsis si legge che per pietas e religio «omnis gentis nationesque superavimus»[26].

Anzi, a ben vedere, proprio la consapevolezza del ruolo fondamentale esercitato dalla religio nella vita della comunità romana costituiva una caratteristica saliente della storiografia latina. Consapevolezza che traspare, ad esempio, nella Catilinae coniuratio di C. Sallustio Crispo. Lo storico dei populares contrapponeva il luminoso esempio dei nostri maiores, religiosissimi mortales, alla corrotta decadenza dei contemporanei, rimarcando con nostalgia e rimpianto, soprattutto che illi, a differenza di questi ignavissumi homines del suo tempo, delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant[27].

Anche per Valerio Massimo, l’elemento basilare e caratterizzante della civitas romana consisteva nel principio omnia namque post religionem ponenda semper nostra civitas duxit[28]. Spiegava, infatti, l’autore dei Facta et dicta memorabilia che per questa ragione i titolari della summa maiestas non avevano mai esitato a mettersi a disposizione della civitas per compiere i riti sacri, stimando che avrebbero avuto il governo del mondo, se avessero servito bene e costantemente il potere degli dèi.

Per chiudere, una testimonianza dal campo avverso alla religione politeista romana. Si tratta di Q. Settimio Fiorente Tertulliano, vero padre della letteratura latina cristiana, il quale alla fine del II secolo d.C., nel suo Apologeticum, contestava le misure repressive anticristiane con precisi riferimenti a nozioni giuridiche romane e polemizzava contro i molti dèi della religione tradizionale. La polemica di Tertulliano in difesa della causa Christianorum[29] tende soprattutto a dimostrare infondata la stessa base teologica e giuridica della religione politeista romana: vale a dire, illa praesumptio, assai diffusa naturalmente tra i suoi contemporanei, secondo cui i Romani sarebbero stati innalzati fino al dominio del mondo (ut orbem occuparint) solo in ragione della grandissima pietà religiosa (pro merito religionis diligentissimae), in quanto gli dèi concedono il massimo della potenza ai popoli che più degli altri li venerano[30].

 

 

5. – Il sacrificio nella ‘religione’ romana: vittime sacrificali tra teologia e diritto

 

Nelle pratiche cultuali dell’antica religione politeista romana (e quindi nella conservazione della pax deorum) risalta la centralità dei sacrifici di esseri animati (hostiae o victimae). Per parlare dei sacrifici, muoverò da un notissimo testo di Tito Livio, in cui è descritta l’istituzione dei pontefici romani da parte del re Numa Pompilio.

 

Livius 1.20.5-7: Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset, quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.

 

Nell’elenco delle materie di competenze dei pontefici, il cui ordine non può ritenersi certo casuale, proprio le hostiae vengano collocate al primo posto; precedendo rispettivamente dies, templa, pecunia, cetera sacra, funebria e prodigia. Le potenzialità classificatorie e sistematiche insite in questo testo di Tito Livio non sono sfuggite alla parte più avvertita della dottrina contemporanea: da Auguste Bouché-Leclercq, a Nicola Turchi, a Emilio Peruzzi. Bisogna ricordare, poi, che le ricerche del Peruzzi hanno dimostrato in maniera convincente la derivazione sacerdotale del testo liviano; si sarebbero conservati elementi di autenticità assai risalenti, come la formula onomastica del pontifex: «Tutti i precisi particolari di Liu. 1.20.5-7 sul pontefice, che, ripeto – scrive lo studioso –, è l’ultimo dei sacerdoti elencati e tuttavia, unico fra tutti, è perfino rammentato con piena formula onomastica, denotano che la fonte prima da cui deriva la notizia dello storico patavino è un testo redatto dai pontefici: verosimilmente (poiché si tratta di una notizia storica, non di norme religiose o giuridiche), gli annales maximi»[31].

Appare abbastanza credibile che la riforma religiosa di Numa Pompilio[32] abbia imposto l’esigenza di testi scritti, senza il cui ausilio doveva essere quasi impossibile osservare la complessità dei sacra e delle caerimoniae e la minuziosa regolamentazione dei sacrifici, testimoniate a proposito della religiosità di quell'epoca. Di alcune delle prescrizioni rituali abbiamo notizia nella ‘vita di Numa’ di Plutarco[33]: esse riguardavano l’obbligo di sacrificare un numero dispari di vittime agli dèi celesti ed un numero pari a quelli inferi[34]; il divieto di libare agli dèi con vino[35]; il divieto di sacrificare senza farina[36]; la necessità di pregare e adorare la divinità compiendo un giro su sé stessi[37]. Apprendiamo inoltre, da una testimonianza di Arnobio, che gli antichi attribuivano a Numa Pompilio la composizione degli indigitamenta[38], appellativi rituali delle divinità (nomina deorum et rationes ipsorum nominum)[39], raccolti in seguito dai sacerdoti in libris pontificalibus.

Alla luce di quanto si è detto, nel passo di Tito Livio deve considerarsi particolarmente affidabile l’elenco, o per meglio dire l’ordine-gerarchia, delle materie di competenze dei pontefici (quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur), poiché esso ricalcava l’ordine degli antichissimi sacra omnia exscripta exsignataque istitutivi del sacerdozio pontificale, ritenuti dalla tradizione annalistica opera dello stesso Numa Pompilio. Infine, non va dimenticato che secondo la tradizione antiquaria (Varrone) questi libri Numae avevano costituito il nucleo primitivo dei libri pontificum[40].

Torniamo, ora, agli aspetti giuridici e rituali del sacrificio e alla valenza teologica delle hostiae[41] nella religione politeista romana. Il sacrificio (sacra facere) si presenta come un’azione rituale che permetteva alle diverse aggregazioni comunitarie romane di stabilire, per mezzo della vittima immolata, forme di comunicazione con le divinità destinatarie del sacrificio.

A proposito delle forme di religiosità romana, sarà bene ricordare che il vocabolo cultus è un derivato del verbo colere, utilizzato indifferentemente in riferimento alla terra, agli uomini, agli dèi. Questo significa che anche i rapporti con le divinità, per produrre i frutti desiderati, necessitavano di assidue cure e di particolari attenzioni. L’uomo doveva impegnarsi in una incessante attività cultuale, poiché solo così poteva sperare di ricevere benefici sempre maggiori dall’immenso potere degli dèi; tuttavia, come spiega Robert Turcan, nella concezione romana dei rapporti tra l’umano e il divino le azioni cultuali degli uomini (con particolare riguardo al sacrificio) erano reputate indispensabili per la stessa esistenza degli dèi:

 

«Il faut les faire agir, comme on fait valoir la Terre Mère. Mais les dieux ont aussi besoin des hommes. Varron déclarait craindre de les voir périr civium neglegentia, victimes de la négligence cultuelle des citoyens… Pour profiter de leur puissance, les Romains doivent entretenir celle-ci par les sacrifices qui sont censés revigorer les dieux»[42].

 

Teologia e ius divinum mostravano nei confronti del sacrificio un atteggiamento bivalente: i sacerdoti romani, da un lato, ritenevano che le azioni sacrificali costituissero i riti più idonei per attrarre la benevolenza divina sulle vicende umane, volgendo in tal modo a beneficio degli uomini l’immensa potenza degli dèi; d’altro lato, consideravano i sacrifici indispensabili per la sopravvivenza delle stesse divinità; le quali diventavano tanto più potenti, quanto più numerose erano le vittime immolate sui loro altari (J. Bayet). Di questa concezione romana del sacrificio, costituisce una prova anche l’uso del verbo mactare: come insegnano i linguisti (É. Benveniste), tale verbo, dal significato originario di «accrescere», «fare più grande» (deriva infatti dalla stessa radice di magis), ha finito per acquisire il senso prevalente di «sacrificare», «immolare»:

 

Servius, in Verg. Aen. 4.57: MACTANT verbum sacrorum, kat' eÙfhmismÒn dictum, ut adolere; nam ‘mactare’ proprie est ‘magis augere’[43].

 

Nell’azione rituale del sacrificio, percepito come vero e proprio nutrimento degli dèi[44], si perfeziona in tutta la sua dimensione bilaterale il rapporto di reciprocità insito nella concezione romana di religio. Di certo, aveva presente questa concezione della religio M. Tullio Cicerone, quando scriveva nel de legibus che gli dèi e gli uomini appartengono alla medesima societas, alla medesima civitas e che la loro associazione riposa nella comunanza della legge: lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus[45].

I sacerdoti romani avevano operato ab antiquo partizioni fondamentali in materia di sacrifici:

 

Cicero, De leg. 2.29: Quod ad tempus ut sacrificiorum libamenta serventur fetusque pecorum quae dicta in lege sunt, diligenter habenda ratio intercalandi est, quod institutum perite a Numa, posteriorum pontificum neglegentia dissolutum est. Iam illud ex institutis pontificum et haruspicum non mutandum est, quibus hostiis immolandum quoique deo, cui maioribus, cui lactentibus, cui maribus, cui feminis.

 

Essi potevano consistere in offerte incruente di prodotti della terra (libamina), oppure in sacrifici cruenti di esseri animati (hostiae, victimae). Quanto al risultato che si voleva conseguire, la pratica dei sacrifici cruenti erano ritenuta di gran lunga superiore alla semplice offerta di libamina, in ragione del radicato convincimento che il sangue delle vittime sacrificali, versato nell’azione rituale, risultasse sommamente gradito alle divinità (e ai defunti):

 

Servius Dan., in Verg. Aen. 3.67: Ideo autem lactis et sanguinis mentio facta est, qui adfirmantur animae lacte et sanguine delectari. Varro quoque dicit mulieres in exsequiis et luctu ideo solitas ora lacerare, ut sanguine ostenso inferis satisfaciant, quare etiam institutum est, ut apud sepulcra et victimae caedantur. Apud veteres etiam homines interficiebantur, sed mortuo Iunio Bruto cum multae gentes ad eius funus captivos misissent, nepos illius eos qui missi erant inter se conposuit, et sic pugnaverunt: et quod muneri missi erant, inde munus appellatum.

 

Nello stesso tempo, al fine di assicurare ai fedeli la piena conoscenza delle modalità di celebrazione dei sacrifici, i sacerdoti romani fissarono con estrema precisione sia le regole rituali, sia le tipologie degli animali sacrificabili alle diverse divinità; in tal modo, diventava possibile per i cittadini vincere ogni scrupolo religioso e associare a ciascun dio la vittima più idonea[46]. Si andarono elaborando classificazioni sempre più rigorose delle vittime sacrificali, pur nella generale tendenza alla semplificazione dei genera hostiarum. Sul finire dell’età repubblicana, il grande giurista C. Trebazio Testa, autore di un’opera intitolata de religionibus, aveva teorizzato che tali genera potessero ridursi sostanzialmente a due[47].

In genere, nella pratica religiosa corrente col termine hostiae si designavano gli animali piccoli, quali maiali, capre, pecore; mentre erano denominati victimae tutti gli animali più grandi, soprattutto tori e vacche. I pontefici poi, nella classificazione delle vittime, tenevano conto dell’età, del sesso[48], del colore, o anche dello scopo che si voleva conseguire con il sacrificio[49]. Naturalmente, le vittime dei sacrifici non dovevano avere difetti fisici (purae):

 

Macrobius, Sat. 3.5.6: Eximii quoque in sacrificiis vocabulum non poeticum ™p…qeton, sed sacerdotale nomen est. Veranius enim in Pontificalibus quaestionibus docet eximias dictas hostias quae ad sacrificium destinatae eximantur e grege, vel quod eximia specie quasi offerendae numinibus eligantur[50].

 

Per questo, come leggiamo in Macrobio, che trascriveva letteralmente un brano delle quaestiones pontificales di Veranio, prima del sacrificio era necessario procedere ad una verifica che dichiarasse tali vittime electae (scelte), eximiae, egregiae (separate dal gregge) e quindi idonee all’immolazione.

Nella dinamica del sacrificio assumeva un certo rilievo anche la volontà dell’animale destinato all’immolazione. I pontefici romani consideravano requisito necessario per la validità dell’offerta e dell’azione rituale il fatto che la vittima manifestasse in qualche modo il proprio consenso. Per questa ragione l’animale non poteva essere condotto a forza presso l’ara, poiché ciò avrebbe rappresentato un pessimo auspicio per il buon esito del sacrificio[51].

 

 

6. – Tensioni universalistiche e aperture (“tolleranza”) della religione politeista romana e dell’Impero Romano

 

Sarà bene tornare alle tensioni universalistiche della religione politeista romana ed alle sue costanti aperture nei confronti delle religioni straniere. Per cogliere le motivazioni profonde dell’atteggiamento “tollerante” dei governanti romani (o per meglio dire, dei principes civitatis), i quali non disciplinavano, di norma, i riti e le cerimonie con cui i popoli dell’Impero adoravano le proprie divinità.

Nella storia religiosa dell’Impero Romano le religioni straniere ebbero straordinaria rilevanza; perfino i cosiddetti culti orientali o misterici, che pure differivano notevolmente dai riti tradizionali della religione politeista romana. Si trattava, com’è noto, di culti molto popolari (anche fra i cittadini romani), quali il culto di Cibele, proveniente dall’Asia Minore; di Giove Dolicheno, Giove Eliopolitano e Atargatide, provenienti dalla Siria; di Iside e Serapide provenienti dall’Egitto; di Mitra, divinità di origine persiana. Di solito questi culti conservavano evidenti connotati della tradizione religiosa delle regioni di origine; avevano sacerdoti professionisti non pubblici, ma assunti dalle comunità di fedeli; infine, lo scopo del culto era rivolto non tanto a propiziare la vita e la potenza della comunità politica romana, quanto piuttosto ad ottenere il benessere del corpo e dell’anima del singolo fedele.

Riguardo all’universalismo della religione romana, sarà bene partire da un dato quasi ovvio: per i popoli che non credevano all’esistenza di un unico dio, non c’erano falsi dèi. Le basi dell’universalismo religioso romano poggiavano proprio su questa concezione politeistica e multireligiosa, propugnata dalla teologia e dallo ius sacrum dei sacerdoti romani; concezione ben sintetizzata da Cicerone in un passo dell’orazione Pro Flacco:

 

Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis[52].

 

Per quanto gli dèi delle diverse popolazioni non fossero ritenuti tutti egualmente potenti, tutti però erano ritenuti veri in eguale maniera. I pontefici romani aggiornavano costantemente, per includervi nuovi dèi, le liste delle divinità conosciute[53], i nomina deorum dei libri pontificum. Grazie a questi scrupoli religiosi verso tutti gli dèi, la religione politeista romana ignorava, quasi del tutto, il proselitismo e l’intolleranza.

 

«Si elle se gardait bien de détruire la religion des peuples vaincus, elle était bien plus éloignée encore de vouloir leur imposer la sienne»[54].

 

Si spiega, in tal modo, la condotta tenuta dai Romani nei confronti delle religioni straniere nel corso della conquista dell’Impero: non distruggevano i templi, né proscrivevano le divinità dei popoli sottomessi; la religio consigliava di onorarle in maniera adeguata, al fine di volgere anche la loro potenza a favore dell’imperium populi Romani.

A questo punto, va detto con chiarezza che riguardo alla religione politeista romana risultano del tutto inadeguati – e forse anche un poco fuorvianti  – i concetti moderni di «libertà individuale», «isolamento» e «laicizzazione». Costituirebbe ugualmente un grave errore metodologico, assumere come parametro categorie quali «tolleranza» o «intolleranza», per quanto l’immagine della religione romana come religione tollerante costituisca un motivo ormai accettato, in maniera quasi unanime, dalla dottrina più recente.

La prospettiva dei sacerdoti romani era piuttosto quella di tutelare i diritti degli dèi, mossi dalla preoccupazione di non violare, seppure inconsapevolmente, aliquid divini iuris. Si voleva salvaguardare, insomma, soprattutto il diritto degli dèi di essere adorati come essi stessi avevano prescritto. Da qui traeva legittimità il diritto del singolo fedele di adorare la divinità secondo la propria coscienza, cioè nella forma che a lui sembrava più necessaria. Grazie a questa peculiare concezione della pax deorum, la religione politeista romana, nel corso di una storia millenaria, fu sempre in grado di far coesistere nel suo ambito le esigenze cultuali particolaristiche del Popolo romano e la tensione universalistica della sua teologia e del suo diritto (divino e umano).

Del resto, le fonti antiche testimoniano di una religione civica affatto esclusivista, fin dalla sua fase primordiale; la stessa tradizione antica ricorda, al riguardo, l'introduzione a Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re. A ben vedere, questa apertura originaria della religione romana si ricava dalla stessa memoria storica dei pontefici, i quali presentavano la coesistenza di culti patrii e peregrini[55] – regolamentata naturalmente dalla scienza sacerdotale –, quale dato originario, e fra i più caratteristici, della riforma religiosa dell’antichissimo re Numa Pompilio. Altre prove di questa originaria "apertura" cultuale della religione romana arcaica sono costituite sia dal carattere molto risalente dell'influenza greca, sia da quegli «italische Einflüsse», magistralmente studiati da Kurt Latte nel suo manuale sulla religione romana[56].

 

 

7. – “Aperture cultuali” come “procedure operative” dell’universalismo religioso romano

 

Abbiamo già visto che una costante apertura religiosa verso l’esterno era fortemente connaturata alla stessa concezione romana di pax deorum. La religione politeista romana, nell'intero arco del suo sviluppo storico, appare caratterizzata dalla costante esigenza (e preoccupazione) di integrare l’ “alieno" (divino o umano): dalle divinità dei vicini fino alle divinità dei nemici, in cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente abbracciavano l'intero spazio terrestre e, quindi, tutto il genere umano. Dai documenti sacerdotali emergono numerose testimonianze e frammenti delle “procedure operative” che hanno permesso ai sacerdoti di dare corpo a questa vocazione universalistica. Per ragioni di brevità, mi limiterò a segnalare solo alcuni esempi.

 

1.

 

Varro, De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures publici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur[57].

 

Il primo frammento attiene alla distinzione dei genera agrorum elaborata dagli auguri publici populi Romani; distinzione che possiamo leggere, appunto, nel passo appena citato del quinto libro De lingua Latina di M. Terenzio Varrone. La divisione dello spazio in cinque agrorum genera rappresenta un mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia interpretativa e delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale. Pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche verso gli dèi), la classificazione degli agrorum genera mostra una fortissima propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti – tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con gli innumerevoli dèi che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e tutelano.

 

2

 

Cicero, De nat. deor. 1.84: At primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Volcanus, idem in Africa, idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris, deorum autem innumerabilis[58].

 

3

 

Servius Dan., in Verg. Georg. 1.21: [dique deaeque omnes post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat,] more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur.

 

I frammenti 2 (Cicero, De nat. deor. 1.84) e 3 (Servius Dan., in Vergilii Georgica 1.21) si riferiscono, invece, al collegio dei pontefici. In De nat. deor. 1.84, Cicerone attesta la rigorosa propensione dei pontefici romani a determinare, con la maggiore certezza possibile, i nomina deorum; divinità di cui tuttavia sfuggiva alla conoscenza umana il dato numerico quantitativo. Il frammento n. 3 si presenta in logica connessione col testo di Cicerone. Servio Danielino riferisce all’antico mos pontificum una cautela rituale osservata nelle solenni formule di preghiera rivolte agli dèi. Quasi ad esorcizzare l'umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, i pontefici romani prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata l'invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia. Non senza ragione, proprio in questo antico mos pontificum delle preghiere può ravvisarsi la potenzialità universalistica della religione politeista romana e la sua propensione ad operare, fin dai primordia civitatis, «una "apertura" illimitata» verso tutti gli dèi[59].

 

4

 

Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268 L.: Peregrina sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt † conata † [conlata Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta.

 

Il quarto frammento, anch’esso riferibile al collegio dei pontefici, attiene al significato teologico e cultuale, nonché alla concreta procedura operativa, dell'interpretatio Romana. Negli ultimi decenni del Novecento, J.-L. Girard aveva dimostrato, in maniera assolutamente convincente, che fu proprio l’interpretatio Romana a consentire ai sacerdoti romani di conciliare l’assoluta fedeltà alla religione nazionale, con la propensione all’apertura potenzialmente illimitata verso i culti stranieri[60]. Grazie alla concreta procedura operativa dell’interpretatio Romana, i culti stranieri potevano di norma essere integrati nel rituale romano, come ha sottolineato Sesto Pompeo Festo nella definizione di peregrina sacra. A fondamento dell’interpretatio Romana stava un senso “cosmico” e “politico” della religione, che si traduceva, secondo J. Bayet, nei concetti di pax deorum e religio[61]. Mentre la propensione ad allargare la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti umani, fu una caratteristica congenita della religione politeista romana; ciò determinava, necessariamente, un rapporto inscindibile tra «polythéisme et pluralisme cultuel», poiché come ha scritto Robert Turcan: «Le polythéisme est foncièrement étranger à l’esprit d’une “religion d’Etat”, puisqu’il implique la possibilité d’un élargissement du panthéon à l’infini»[62].

 

5

 

Livius 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat[63].

 

6

 

Macrobius, Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura[64].

 

Gli ultimi due frammenti proposti riguardano gli esempi più conosciuti di evocationes degli dèi del nemico[65]. Si tratta delle formule solenni concepite dai sacerdoti romani per l’evocatio delle divinità che proteggevano due mortali nemici di Roma: la città etrusca di Veio e la metropoli africana dell’impero dei Fenici d’Occidente, Cartagine. Non posso certo discutere, qui e ora, le implicazioni teologiche e giuridiche della formula e del rito delle evocationes degli dèi del nemico; basterà al riguardo richiamare i risultati conseguiti nel lavoro, ormai fondamentale, di V. Basanoff[66]. Mi preme, invece, evidenziare ancora una volta, proprio nelle evocationes degli dèi del nemico, una delle prove più significative della costante apertura religiosa verso l’esterno della religione politeista romana; fortemente connaturata alla stessa concezione di pax deorum elaborata dalla teologia e dal diritto dei sacerdoti romani.

 

 

8. – Conclusione

 

Nel sistema giuridico-religioso romano, sarebbe stato improponibile interdire senza alcuna eccezione un culto, anche se straniero (pravae et externae religiones), poiché una simile legislazione avrebbe contrastato con gli stessi principi della religione politeista romana. Per questa ragione, il diritto romano, mentre reprime le superstitiones[67], non conosce divieti legali alla devozione personale verso qualsivoglia divinità. A Roma, assai prima del progresso derivato dal sincretismo e dall’interpretatio Romana, la procedura dell’evocatio e la consultazione dei libri Sibyllini avevano favorito istituzionalmente l’integrazione delle divinità straniere fra gli dèi romani. Per quanto, la loro naturalizzazione richiedesse evidentemente il gradimento dei poteri pubblici, che qualche volta prendevano l’iniziativa anche in prima persona[68].

Nella polemica anticristiana i tradizionalisti romani, ben rappresentati nell’Octavius di Minucio Felice dal discorso del pagano Cecilio Natale, sottolineavano quale caratteristica peculiare della religione e dell’Impero Romano il rispetto per gli dèi di tutti i popoli del mondo:

 

Minucius Felix, Octav. 6.2-3: Sic eorum potestas et auctoritas totius orbis ambitus occupavit, sic imperium suum ultra solis vias et ipsius oceani limites propagavit, dum exercent in armis virtutem religiosam, dum urbem muniunt sacrorum religionibus, castis virginibus, multis honoribus ac nominibus sacerdotum, dum obsessi et citra solum Capitolium capti colunt deos, quos alius iam sprevisset iratos, et per Gallorum acies mirantium superstitionis audaciam pergunt telis inermes, sed cultu religionis armati, dum captis in hostilibus moenibus adhuc ferociente victoria numina victa venerantur, dum undique hospites deos quaerunt et suos faciunt, dum aras extruunt [dum] etiam ignotis numinibus et Manibus. Sic dum universarum gentium sacra suscipiunt, etiam regna meruerunt[69].

 

Pur restando sempre fedele alle proprie divinità, il Popolo Romano ha saputo venerare anche i numina victa (cioè, le divinità dei popoli sconfitti), nella costante apertura cultuale verso gli altri: dum undique hospites deos quaerunt et suos faciunt. Da qui la convinzione di «aver meritato l’impero del mondo accogliendo i culti di tutti i popoli».

 

 

9. – Bibliografia

 

§ 1.

 

K.W. HARL, Sacrifice and Pagan belief in Fifth- and Sixth-Century Byzantium, in Past & Present 128, 1990, 7 ss.; S. BRADBURY, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in Phoenix 49, 1995, 331 ss.

 

Per la nozione di ius Romanum, vedi ora P. CATALANO, Ius Romanum. Note sulla formazione del concetto, in La nozione di ‘Romano’ tra cittadinanza e universalità [Da Roma alla Terza Roma, Studi II], Napoli 1984, 531 ss. [= ID., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 53 ss.]. Quanto alla «codificazione giustinianea del ius Romanum commune», rinvio invece a S. SCHIPANI, La codificazione del diritto romano comune, Torino 1996, 3 ss.

 

Sull’imperatore Costantino, tra le opere di carattere generale, R. PARIBENI, Storia di Roma. Da Diocleziano alla caduta dell’impero d’occidente, Bologna 1941, 47 ss.; F. LOT, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Paris 1951; S. MAZZARINO, L’impero romano, III, Roma-Bari 1976, 651 ss. Studi più tematici sulla figura del grande imperatore: J. BURCKHARDT, Die Zeit Konstantins des Grossen, 4a ed., Leipzig 1924, in part. IX. Abschnitt: «Konstantin und die Kirche», 373 ss. [= ID., L’età di Costantino il Grande, trad. it. di P. Chiarini, Introduzione di S. Mazzarino, Roma 1970, 355 ss.]; A. PIGANIOL, L’empereur Constantin, Paris 1932; J. VOGT, Constantin der Grosse und sein Jahrhundert, München 1949; C. CALDERONE, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze 1962; R.T. MACMULLEN, Constantine, London 1987. Per gli aspetti pubblicistici e costituzionali, basterà rinviare a P. DE FRANCISCI, Storia del diritto romano, III, Roma 1943, 82 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, V, 2a ed., Napoli 1975, 110 ss. (ivi altra bibliografia); per gli aspetti privatistici, vedi invece M. SARGENTI, Il diritto privato nella legislazione di Costantino. Persone e famiglia, Milano 1938, 7 ss. Quanto all’atteggiamento dell’imperatore verso le due religioni, cfr. N. TURCHI, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 302 s.; A. ALFÖLDI, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, trad. ingl. di H. Mattingly, Oxford 1948 [vedi anche in italiano: Costantino tra Paganesimo e Cristianesimo, trad. di A. Fraschetti, Roma-Bari 1976]. Fra i lavori recenti dedicati alla politica religiosa di Costantino, vedi A. EHRHARDT, Constantin d. Gr. Religionspolitik und Gesetzgebung, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 72, 1955, 127 ss. [= Konstantin der Grosse, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974, 388 ss.]; J. VOGT, Toleranz und Intoleranz im constantinischen Zeitalter: der Weg der lateinischen Apologetik, in Saeculum 19, 1968, 344 ss.; F. AMARELLI, Vetustas-innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978, 21 ss.; R.P.C. HANSON, The Christian Attitude to Pagan Religions up to the Time of Constantine the Great, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.23.2, Berlin-New York 1980, in part. 960 ss.; T.D. BARNES, Constantine and Eusebius, Cambridge, Mass. 1981; ID., Constantine's Prohibition of Pagan Sacrifice, in American Journal of Philology 105, 1984, 69 ss.; P.A. BARCELÓ, Die Religionspolitik Kaiser Constantins des Grossen vor der Schlacht an der Milvischen Brücke (312), in Hermes 116, 1988, 76 ss.; R.M. ERRINGTON, Constantine and the Pagans, in Greek, Roman and Byzantine Studies 29, 1988, 309 ss.; G. HÄRTEL, Bemerkungen zur Religionspolitik Konstantins I, in Klio 71, 1989, 374 ss.; R. LEEB, Konstantin und Christus. Die Verchristlichung der imperialen Repräsentation unter Konstantin der Grossen als Spiegel seiner Kirchenpolitik und seines Selbstverständnisses als christlicher Kaiser, Berlin-New York 1992; S. BRADBURY, Constantine and the Problem of Anti-Pagan Legislation in the Fourth Century, in Classical Philology 89, 1994, 120 ss.; E. LEHMEIER-G. GOTTLIEB, Kaiser Konstantin und die Kirche. Zur Anfänglichkeit eines Verhältnisses, in E fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften (Heinrich Chantraine zum 65. Geburtstag), hrsg. R. Günther und S. Rebenich, Paderborn-München-Wien-Zürich 1994, 163 ss.; J. CURRAN, Constantine and the Ancient Cults of Rome: the Legal Evidence, in Greece & Rome 43, 1996, 68 ss.

 

Valore della costituzione CTh. 16.10.2, P.O. CUNEO (a cura di), Legislazione di Costantino II, Costanzo II e Costante (337-361), Milano 1997, 88 s. (ivi altra bibliografia); L. DE GIOVANNI, Costantino e il mondo pagano. Studi di politica e legislazione, 2ª ed., Napoli 1982, 137 ss.; ID., Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, Napoli 1985, 128.

 

Sul frammento CTh. 16.1.2 = C. 1.1.1, vedi L. DE GIOVANNI, Il libro XVI del Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, cit., 32 s.; G. CRIFÒ, La Chiesa e l’Impero nella storia del diritto da Costantino a Giustiniano, in Cristianesimo e istituzioni politiche. Da Costantino a Giustiniano, a cura di E. dal Covolo e R. Uglione, Roma 1997, 189 ss. Quanto poi alle implicazioni giuridiche sottese all’uso del sostantivo Romani, rinvio al bel libro di M.P. BACCARI, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, 47 ss.

 

Sull’imperatore Teodosio I, vedi per tutti: A. LIPPOLD, Theodosius der Grosse und seine Zeit, München 1980; J. CURRAN, From Jovian to Theodosius, in The Cambridge Ancient History, XIII: The Late Empire, A.D. 337-425, ed. by A. Cameron-P. Garnsey, Cambridge 1998, 101 ss.; sui successori del grande imperatore cristiano, R.C. BLOCKLEY, The Dynasty of Theodosius, ibidem, 111 ss. Per la politica religiosa di questo imperatore, cfr. fra gli altri: J. GAUDEMET, La condamnation des pratiques païennes en 391, in Epektasis. Mélanges patristiques offerts au Cardinal Jean Danielou, Paris 1972, 597 ss. [= ID., Etudes de droit romain, I. Sources et théorie générale du droit, Napoli 1979, 251 ss.]; W. WALDSTEIN, Ecclesia in re publica, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.) 100, 1983, 542 ss.; H. BELLEN, Christianissimus Imperator. Zur Christianisierung der römischen Kaiserideologie von Constantin bis Theodosius, in E fontibus haurire. Beiträge zur römischen Geschichte und zu ihren Hilfswissenschaften, cit., 3 ss.; R. KLEIN, Theodosius der Grosse und die christliche Kirche, in Eos 82, 1994, 85 ss.; R.M. ERRINGTON, Church and State in the First Years of Theodosius I, in Chiron 27, 1997, 21 ss.; ID., Christian Accounts of the Religious Legislation of Theodosius I, in Klio 79, 1997, 398 ss.

 

 

§ 2.

 

Sulla pietas G. STÜBLER, Die Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941, 93; più recente D.S. LEVENE, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln 1993, 174 ss.; G.B. MILES, Livy. Reconstructing Early Rome, Ithaca-London 1995, 79 ss. Quanto alla fides: M.-L. Deißmann-Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. 1964, Frankfurt am Main 1965; W. FLURL, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios, Diss. München 1969, 127 ss.; P. BOYANCÉ, Études sur la religion romaine, Rome 1972, 105 ss. [Fides romana et la vie internationale], 135 ss. [Les Romains, peuple de la Fides]; K.-J. Hölkeskamp, Fides - deditio in fidem - dextra data et accepta: Recht, Religion und Ritual in Rom, in The Roman middle republic. Politics, religion, and historiography c. 400 - 133 B.C., edited by C. Bruun, Rome 2000, 223 ss. Fides e pietas vedi T.J. MOORE, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, in part. 35 ss., 56 ss.

Visione complessiva delle concezioni religiose del sommo annalista romano: G. STÜBLER, Die Religiosität des Livius, cit.; I. KAJANTO, God and fate in Livy, Turku 1957; A. PASTORINO, Religiosità romana dalle Storie di Titus Livius, Torino 1961; W. LIEBESCHUETZ, The Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67, 1967, 45 ss.; D.S. LEVENE, Religion in Livy, cit. Per le formule di preghiera, vedi invece F.V. HICKSON, Roman prayer language: Livy and the Aeneid of Virgil, Stuttgart 1993.

 

G. SCHERILLO, Il diritto pubblico romano in Titus Livius, in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, 79 ss., ha sottolineato, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana; nello stesso senso C.St. TOMULESCU, La valeur juridique de l'histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, 295 ss.

 

Caratterizzazione liviana della città di Roma come luogo massimamente votato alla religione in A. FERRABINO, Urbs in aeternum condita, Padova 1942; J. VOGT, Römischer Glaube und römisches Weltreich, Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi H. HAFFTER, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71, 1964, 236 ss. [= ID., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, 74 ss.]; M. MAZZA, Storia e ideologia in Livio. Per un'analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania 1966, in part. 129 ss.; G. MILES, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in Transactions of the American Philological Association 118, 1988, 185 ss.; B. FEICHTINGER, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius”, in Latomus 51, 1992, 3 ss.

 

Tensioni universalistiche della religione romana e costanti “aperture” cultuali verso l’esterno: F. Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni in tema di universalismo e “tolleranza” nella religione politeista romana, in Sandalion. Quaderni di cultura classica, cristiana e medievale 21-22, 1998-1999 [pubbl. 2001], 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 44 ss.; Id., Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e del diritto pubblico di Roma, in Diritto @ Storia 2, Marzo 2003, < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm > ; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in La Condition des “autres” dans les systèmes juridiques de la Méditerranée, sous la direction de F. Castro et P. Catalano, Paris 2001 [pubbl. 2004], 59 ss.

 

 

§ 3.

 

Per la definizione del concetto di pax deorum: H. FUCHS, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. VOCI, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, 49 ss. [= ID., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. BAYET, La religion romaine. Histoire politique et psychologique (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], 57 ss. [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), 59 ss.]; M. SORDI, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Milano 1985, 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Concezioni della pace. Seminario 21 aprile 1988 [Da Roma alla Terza Roma, Studi - VI], a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, Roma 2006, 39 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, 85 ss. (Appendice I: «Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis»). Vedi, ora, anche F. Santangelo, Pax deorum and Pontiffs, in J.H. Richardson-F. Santangelo (eds.), Priests and State in the Roman World, Stuttgart 2011, 161 ss.

Ho trattato di pax deorum in alcuni dei miei studi, che cito qui di seguito, anche per i costanti aggiornamenti bibliografici: F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente) [il libro, ora, è consultabile anche on line; per il capitolo che qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-V.htm ]; ID., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O. BIANCO e S. TAFARO, [Università di Lecce – Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Studi di Filologia e Letteratura 5, 1999] Galatina 2000, 176 ss.; ID., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., 167 ss., 262 ss.; Id., Люди и боги в римской религиозно-юридической системе: pax deorum, время богов, жертвоприношения = Uomini e Dèi nel sistema giuridico-religioso romano: Pax deorum, tempo degli Dèi, sacrifici (trad. in lingua russa a cura di M. Tchelintseva), in Ius Antiquum-Drevnee Pravo 8, Moskva, 2001, 8-30); Id., Aspetti giuridici e rituali della religione romana: sacrifici, vittime e interpretazioni dei sacerdoti, in Aa.Vv., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, Torino 2003, 19 ss.; Id., «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a proposito di bellum, hostis, pax), in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese. (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001), a cura di L. GAROFALO, III, Padova 2003, 535 ss.; Id., Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano, in Seminari di storia e di diritto, III. «Guerra giusta»? La metamorfosi di un concetto antico, a cura di A. CALORE, Milano 2003, 71 ss.; Id., Bellum, fas, nefas: aspetti religiosi e giuridici della guerra (e della pace) in Roma antica, in Diritto @ Storia 4, 2005, § 9 < http://www.dirittoestoria.it/4/Memorie/Sini-Guerra-pace-Roma-antica.htm >; ID., Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006 < http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm > (trad. russa a cura di L.L. Kofanov, E.V. Liapustina, A.M. Smorchkov: Ф. СИНИ, Право и pax deorum в древнем Риме, in Antiquum-Drevnee Pravo 19, Moskva 2007, 8-36 < http://www.dirittoestoria.it/iusantiquum/articles/Sini-Ius-Antiquum-19-2007.htm#_ftn127 >); Id., Pax deorum e sistema giuridico-religioso romano, in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di Luigi Labruna, VII, Napoli 2007, 5165 ss.; Id., Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana, in Diritto @ Storia 6, 2007 (ma on line febbraio 2008) § 4 < http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm >; Id., La règle «iniussu populi voveri non posse»: le peuple et la religion dans la Rome républicaine, in Diritto @ Storia 9, 2010 (on line febbraio 2011) § 3 < http://www.dirittoestoria.it/9/Tradizione-Romana/Sini-Iniussu-populi-voveri-non-posse.htm >.

 

Sull’antitesi fas/nefas: F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., 83 ss. [il libro, ora, è consultabile anche on line; per il capitolo che qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-II.htm].

 

Ho utilizzato l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57; con il quale concorda, in parte, anche G. LOMBARDI, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, 34 s. La validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di R. ORESTANO: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, 395 ss.; ID., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. CERAMI, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, 10 ss.; e parzialmente da A. GUARINO, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, 56 s.

 

Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse, sono state studiate da A. GRANDAZZI, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. 195, dove lo studioso francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.

 

Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augescens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., XIV s. Sulla stessa linea interpretativa, vedi M.P. BACCARI, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], 759 ss.; EAD., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, cit., 47 ss.

 

Sul rapporto tra l’imperium sine fine di Aen. 1.278 e l’eternità di Roma, vedi P. BOYANCÉ, La religion de Virgile, Paris 1963, 54, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute l’oeuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. PICCALUGA, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, 209; sia R. TURCAN, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, 16; mentre A. MASTINO, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III] Napoli 1986, 71, sostiene che nei due versi Aen. 1.278-279 è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.1, Berlin-New York 1980, 3 ss. Quanto alla divini et humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., 17 ss. [il libro, ora, è consultabile anche on line; per il capitolo che qui interessa nel sito: http://www.dirittoestoria.it/dirittoromano/Sini-Bellum-Nefandum-Cap-I.htm].

 

Sull’attività storiografica dei pontefici romani e sull'influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, v. B.W. FRIER, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the Origins of the Annalistic Tradition, Roma 1979 [2ª ed. Ann Arbor 1998]; J. RÜPKE, Livius, Priesternamen und die annales maximi, in Klio 75, 1993, 155 ss. Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati – direttamente o indirettamente – agli Annales Maximi, v. E. DE SAINT-DENIS, Les énumérations de prodiges dans l'oeuvre de Tite-Live, in Revue de Philologie 16, 1942, 126 ss.; J.Ph. PACKARD, Official notices in Livy's fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, 125 ss.; E. RAWSON, Prodigy list and the use of Annales Maximi, in The Classical Quarterly 21, 1971, 158 ss.; B. MACBAIN, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].

 

Riguardo al frammento di Ulpiano D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum), mi pare che possano ormai considerarsi superate sia affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. SCHULZ, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, 23 nt. 33; U. von LÜBTOW, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am Main 1955, 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. ALBANESE, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, 192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. STELLA MARANCA, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in ID., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, 102 ss.; SILVIO ROMANO, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, 157 ss.; G. NOCERA, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (161); ID., Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, 171 ss.; F. WIEACKER, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélanges De Visscher, II, Bruxelles 1949, 585, il quale sostiene che la tripartizione sacra, sacerdotes, magistratus è di inconfondibile stampo repubblicano; A. CARCATERRA, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, 272 ss.; G. ARICÒ ANSELMO, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, 447 ss., in part. 461 ss.; H. ANKUM, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español 53, 1983, 524 ss.; M. KASER, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, 6 ss.; P. STEIN, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, 499 ss.; V. MAROTTA, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, 153 ss.

 

 

§ 4.

 

Su religio sono da vedere H. FUGIER, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 172 ss.; é. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, 265 ss.; H. WAGENVOORT, Wesenszüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in ID., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, 223 ss.]; G. LIEBERG, Considerazioni sull'etimologia e sul significato di religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, 34 ss.; R. MUTH, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 290 ss.; R. SCHILLING, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in ID., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, 30 ss.; E. MONTANARI, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, 423 ss.

 

Le concezioni religiose di Cicerone sono state studiate da M. VAN DEN BRUWAENE, La théologie de Cicéron, Louvain 1937; da vedere anche: P. DEFOURNY, Les fondements de la religion d’après Cicéron, in Les études Classiques 22, 1954, 241 ss., 366 ss.; R.D. SWEENEY, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12, 1965, 99 ss.; J. GUILLÉN, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, 511 ss.; J. KROYMANN, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki, Leiden 1975, 116 ss.; L. TROIANI, Cicerone e la religione, in Rivista Storica Italiana 96, 1984, 920 ss.; C. BERGEMANN, Politik und Religion im spätrepublikanischer Rom, Stuttgart 1992. Sul passo de nat. deor. 2.8, C. BAILEY, Phases in the Religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn., 1972], 274 s.; M. HUMBERT, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 196 s.; ma cfr. anche R. TURCAN, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, 5 s.

 

Su C. Aurelio Cotta, cfr. G.W.R. ARDLEY, Cotta and the Theologians, in Prudentia 5, 1973, 33 ss.; W. HEILMANN, Auctoritas der Tradition und Ratio im Widerstreit. Zur Position des Cotta in Ciceros De natura deorum (3,5 und 3,51f.), in Der Altsprachliche Unterricht 36, 1994, Heft 6, 23 ss.

 

Per quanto attiene all’opera sallustiana e al contesto in cui maturò la “congiura”, vedi: Z. YAVETZ, The Failure of Catiline's Conspiracy, in Historia 12, 1963, 485 ss.; W. WIMMEL, Die zeitlichen Vorwegnahmen in Sallusts Catilina, in Hermes 95, 1967, 192 ss.; E.J. PHILLIPS, Catiline's Conspiracy, in Historia 25, 1976, 441 ss.; H.-J. GLÜCKLICH, Gute und schlechte Triebe in Sallusts Catilinae coniuratio, in Der altsprachliche Unterricht 31, 1988, Heft 5, 23 ss.; W. DAHLHEIM, Die Not des Staates und das Recht des Bürgers. Die Verschwörung des Catilina (63/62 v.Chr.), in Macht und Recht. Grosse Prozesse in der Geschichte, hrsg. von A. Demandt, München 1990, 27 ss.; A. DRUMMOND, Law, politics and power. Sallust and the execution of the Catilinarian conspirators, [Historia. Einzelschriften, 93] Stuttgart 1995; G. PHILIPP, Gedanken zum Prooemium und zur Charakterisierung Catilinas in Sallusts Coniuratio Catilinae, in Die Antike und ihre Vermittlung. Festschrift für Friedrich Maier zum 60. Geburtstag, München 1995, 137 ss.; A. GIOVANNINI, Catilina et le problème des dettes, in Leaders and Masses in the Roman World. Studies in Honor of Zvi Yavetz, Leiden-New York-Köln 1995, 15 ss.; A.T. WILKINS, Villain or Hero. Sallust's Portrayal of Catiline, New York 1996.

 

Fra la sterminata bibliografia dedicata alla figura e all’opera di Sallustio: G. FUNAIOLI, v. C. Sallustius Crispus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, I A 2, Stuttgart 1920, coll.1913 ss.; W. SCHUR, Sallust als Historiker, Stuttgart 1934; D.C. EARL, The Political Thought of Sallust, Cambridge 1961; K. HANELL, Bemerkungen zu der politischen Terminologie des Sallustius, in Eranos 43, 1945, 263 ss. [ripubblicato in Das Staatsdenken der Römer, hrsg. von Richard Klein, Wege der Forschung, Bd. 46, Darmstadt 1966, 500 ss.]; R. SYME, Sallust, Berkeley 1964 [= ID., Sallustio, trad. it. di S. Galli, Brescia 1968]; A. LA PENNA, Sallustio e la "rivoluzione" romana, Milano 1968; K.-E. PETZOLD, Der politische Standort des Sallust, in Chiron 1, 1971, 219 ss.; S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II.2, 4ª ed., Roma-Bari 1974, 3 ss.; J. MALITZ, Ambitio mala. Studien zur politischen Biographie des Sallust, Bonn 1975; V. PÖSCHL, Sallust, 2ª ed., Darmstadt 1981; K. BÜCHNER, Sallust, 2ª ed., Heidelberg 1982. Per maggiori informazioni rinvio a L. DI SALVO, Nota bibliografica, in Opere di Caio Sallustio Crispo, 2ª ed., a cura di P. Frassinetti e L. Di Salvo, Torino 1991, 29 ss.

 

Sui temi della decadenza e del rapporto tra espansione e crisi delle istituzioni repubblicane nella visione storica di Sallustio, vedi fra gli altri: C. PERL, Sallust und die Krise der römischen Republik, in Philologus 113, 1969, 201 ss.; E. KOESTERMANN, Das Problem der römischen Dekadenz bei Sallust und Tacitus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.3, Berlin-New York 1973, 786 ss.; K. BRINGMANN, Weltherrschaft und innere Krise Roms im Spiegel der Geschichtsschreibung des zweiten und ersten Jahrhunderts v.Chr., in Antike und Abendland 23, 1977, 28 ss.; C. VENTURINI, Luxus e avaritia nell’opera di Sallustio, in Athenaeum 57, 1979, 277 ss.; J.M. ALONSO-NUÑEZ, La crisi in Sallustio, in La rivoluzione romana, inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1982, 208 ss.; H. WOLFF, Bemerkungen zu Sallusts Deutung der Krise der Republik, in Klassisches Altertum, Spätantike und frühes Christentum. Adolf Lippold zum 65. Geburtstag gewidmet, Würzburg 1993, 163 ss.; K. HELDMANN, Sallust über die römische Weltherrschaft. Ein Geschichtsmodell im Catilina und seine Tradition in der hellenistischen Historiographie, Stuttgart 1993; E. SCHÜTRUMPF, Die Depravierung Roms nach den Erfolgen des Imperiums bei Sallust, Bellum Catilinae Kap. 10 - philosophische Reminiszenzen, in Imperium Romanum. Studien zu Geschichte und Rezeption. Festschrift für Karl Christ zum 75. Geburtstag, Stuttgart 1998, 674 ss.

 

Quanto agli aspetti biografici, vedi R. HELM, v. Valerius Maximus, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, coll. 90 ss.; R. Faranda, Introduzione, a Valerio Massimo, Detti e fatti memorabili, a cura di R. F., 1ª ed. 1971, rist. Torino 1976, 9 ss. (ivi anche la bibliografia precedente).

Edizioni recenti dell’opera di Valerio Massimo sono quelle curate da R. COMBÈS, Valère Maxime. Faits et Dits Mémorables, Voll. I-II (libri I-III, IV-VI), Paris 1995, 1997; e da J. BRISCOE, Valeri Maximi Facta et dicta memorabilia. 2 Voll., Stuttgart-Leipzig 1998.

Fra gli studi degli ultimi decenni (ma resta ancora utile il saggio di A. Klotz, Studien zu Valerius Maximus und den Exempla [Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-Historische Abteilung] München 1942) da vedere: F. Römer, Zum Aufbau der Exempelsammlung des Valerius Maximus, in Wiener Studien 103, 1990, 99 ss.; W.M. Bloomer, Valerius Maximus and the Rhetoric of the new Nobility, London 1992; C. SKIDMORE, Practical Ethics for Roman Gentlemen. The Work of Valerius Maximus, Exeter 1996; i contributi raccolti da J.-M. DAVID, in Valeurs et mémoire à Rome. Valère Maxime ou la vertu recomposée, Paris 1998 (saggi, oltre che dello stesso David, di Y. LEHMANN, C. LOUTSCH, M. COUDRY, M. CHASSIGNET, M. HUMM, A. JACQUEMIN, M.L. FREYBURGER); infine H.-F. MUELLER, Roman Religion in Valerius Maximus, London and New York 2002; consultabile in formato pdf ora anche on line nel sito internet: https://www.google.it/url?sa=t&rct=j&q=&esrc=s&source=web&cd=1&cad=rja&uact=8&ved=0ahUKEwiEw_LU-fPTAhVqBcAKHdQ-BMUQFggzMAA&url=http%3A%2F%2Fwww.e-reading.club%2Fbookreader.php%2F136035%2FRoman_Religion_in_Valerius_Maximus.pdf&usg=AFQjCNGyoZIDmubcoqkKt9a7UvIz0r9yVA (scaricato il 1 maggio 2012).

 

Fra la bibliografia su Tertulliano, basterà citare R. BRAUN, "Deus Christianorum". Recherches sur le vocabulaire doctrinal de Tertullien, Paris 1962; R. KLEIN, Tertullian und das römische Reich, Heidelberg 1968; J.-C. FREDOUILLE, Tertullien et la conversion de la culture antique, Paris 1972; C. RAMBAUX, Tertullien face aux morales des trois premiers siècles, Paris 1979; T.D. BARNES, Tertullian. A historical and literary study, 2ª ed., Oxford 1985.

Alla sua opera apologetica sono dedicati i lavori di C. BECKER, Tertullians Apologeticum. Werden und Leistung, München 1954; e di P. FRASSINETTI, Tertulliano e l'“Apologetico”, Genova 1974.

Per lo studio dei riferimenti a nozioni giuridiche romane e del vocabolario giuridico di Tertulliano, vedi P. VITTON, I concetti giuridici nelle opere di Tertulliano, Roma 1924; A. BECK, Römisches Recht bei Tertullian und Cyprian. Eine Studie zur frühen Kirchenrechtsgeschichte, (1930) rist. Aalen 1967, in part. 49 ss., 60 ss.; J.K. STIRNIMANN, Die praescriptio Tertullians im Lichte des römischen Rechts und der Theologie, Freiburg in der Schweiz 1949, in part. 39 ss.; R.D. SIDER, Ancient Rhetoric and the Art of Tertullian, Oxford 1971, 74 ss.; J. GAUDEMET, Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, [Ius Romanum Medii Aevi, pars I, 3, b], Mediolani 1978, 15 ss.

Quanto alla possibile identificazione del polemista cristiano con l’omonimo giurista, vedi W. KUNKEL, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, 236 ss.

 

 

§ 5.

 

Sulla figura del primo sovrano sabino di Roma, K. GLASER, v. Numa Pompilius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, XV.1, Stuttgart 1936, coll. 1242 ss.; J. GAGÉ, Apollon romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du ritus Graecus à Rome des origines à Auguste, Paris 1955, 297 ss.; S. ACCAME, I re di Roma nella leggenda e nella storia, Napoli s.d. (1965), 206 ss.; R.M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [Reprinted 1998], 90 ss.; J. POUCET, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, 138 ss.; A. STORCHI MARINO, C. Marcio Censorino, la lotta politica intorno al pontificato e la formazione della tradizione liviana su Numa, in Aion (Archeol.) 14, 1992, 105 ss.; V. BUCHHEIT, Numa-Pythagoras in der Deutung Ovids, in Hermes 121, 1993, 77 ss.

Fra gli studiosi che si sono occupati delle riforme religiose attribuite a Numa, da vedere: F. RIBEZZO, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, 553 ss.; E.M. HOOKER, The Significance of Numa's Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; F. DELLA CORTE, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; M.A. LEVI, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell'Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), 161 ss.; J. MARTINEZ PINNA, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, 97 ss.; J. POUCET, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. 194 ss., 219 ss.; infine L. FASCIONE, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, 128 ss.; G. CAPDEVILLE, Les institutions religieuses de la Rome primitive d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, 153 ss.

 

Riguardo a Tito Livio 1.20.5-7, alcuni studiosi hanno ritenuto determinante la tripartizione: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa (così, ad esempio, il grande storico francese A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome. Étude historique sur les institution religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], 60-61: «La meilleure analyse des livres liturgiques serait donc l’étude complète du culte romain. Mais notre plan est plus restreint. Oublions pour un moment la variété des divers actes religieux, consécrations, vœux, expiations… etc., dont nous aurons occasion de parler au chapitre suivant, et bornons-nous à remplir avec quelques rares débris de textes mutilés le cadre indiqué par Tite-Live: quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent»); altri, come lo storico della religione romana NICOLA TURCHI, La religione di Roma antica, cit., 41, propugnano una divisione della materia in cinque parti: controllo rituale, responsi sull'attività circa le cose sacre e pubbliche, controllo sul culto degli dèi patri e sull'accettazione dei culti stranieri, controllo sul diritto funerario, espiazione e neutralizzazione di fulmini e altri prodigi funesti; altri ancora – è il caso del linguista EMILIO PERUZZI, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, 165 s. – ritengono di poter individuare anche il contenuto, o almeno l’ordine di disposizione della materia, dei primitivi libri pontificum proprio sulla base del citato passo di Tito Livio, «da cui traspare che la copia consegnata al pontefice era divisa in sette capitoli»: la divisione delle materie prospettata dal Peruzzi è la seguente: A) caelestes caerimoniae, comprendente i sacra dei collegi sacerdotali maggiori e gli altri sacra pubblici e privati, divise in cinque capitoli: 1 quibus hostiis, 2 quibus diebus, 3 ad quae templa, 4 unde in eos sumptus pecunia, 5 cetera publica privataque sacra; B) 6 iusta funebria et ad placandos manes; C) 7 prodigia fulminibus aliove quo visu missa.

 

Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta ancora utile il vecchio lavoro di I.A. AMBROSCH, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; indispensabili, invece, sia il libro di A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., 24 ss.; sia il manuale di J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], 7 ss. [= ID., Le culte chez les Romains, I, trad. di M. Brissaud, Paris 1889, 10 ss.]. Adde: J. BAYET, Les feriae sementivae et les indigitations dans le culte de Cérès et de Tellus, in Revue d'Histoire des Religions 137, 1950, 172 ss. (ora in ID., Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, 175 ss.); G.B. PIGHI, La religione romana, Torino 1967, 45 ss.; A. PASTORINO, La religione romana, Milano 1973, 199 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, 50 ss. [= ID., La religione romana arcaica, trad. it. a cura di F. Jesi, Milano 1977, 46 ss.]; R. DEL PONTE, La religione dei Romani, Milano 1992, 78 ss.

 

Archivio dei pontefici: J.-V. LE CLERCQ, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. 127 ss.; I.A. AMBROSCH: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. 159 ss.; ID., Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; E. LUEBBERTUS, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., 19 ss.; P. PREIBISCH, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; ID., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, cit., 299 ss. [= ID., Le culte chez les Romains, II, cit., 358 ss.]; R. PETER, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, 67 ss.; ID., Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. ROWOLDT, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C.W. WESTRUP, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal WESTRUP nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, 14 ss.; R. BESNIER, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, 1 ss.; G.B. PIGHI, La religione romana, cit., 41 ss.; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, 1. Libri e commentarii, Sassari 1983, 17 ss.; J.A. NORTH, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Avant-propos de C. Moatti, Rome 1998, 45 ss.

 

Studi sul sacrificio nella religione politeista romana: E. LUEBBERTUS, Commentationes pontificales, cit., 99 ss.; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les pontifes de l'ancienne Rome, cit., 98 ss.; J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, cit., 170 ss. [= ID., Le culte chez les Romains, I, cit., 205 ss.]; C. KRAUSE, De Romanorum hostiis quaestiones selectae, Diss. Marpurgi 1894, 9 ss.; ID., v. Hostia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. V, Stuttgart 1931, coll. 236 ss.; C. BLECHER, De extispicio capita tria, in Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten 2, 1903-1905 [Gissae 1905], 171 ss.; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, 410 ss.

Fra la dottrina più recente sul sacrificio, sono da vedere: N. TURCHI, La religione di Roma antica, cit., 119 ss.; J. BAYET, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., 129 ss. [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., 142 s.]; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 209 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 549 ss. [= ID., La religione romana arcaica, cit., 477 ss.]; E. KADLETZ, Animal sacrifice in Greek and Roman religion, Diss. Washington 1976, Univ. Microfilms Inter., Ann Arbor, Mich. 1983; S.R.F. PRICE, Between Man and God: Sacrifice in the Roman Imperial Cult, in The Journal of Roman Studies 70, 1980, 28 ss.; AA.VV., Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981; C. GROTTANELLI e N.F. PARISE, a cura di, Sacrificio e società nel mondo antico, Roma-Bari 1988; R. TURCAN, Religion romaine. 2. Le culte, cit., 4 ss.; da ultima, A.V. SIEBERT, Instrumenta sacra. Untersuchungen zu römischen Opfer-, Kult- und Priestergeräten, Berlin-New York 1999, 11 ss.

 

Quanto alla figura e all’opera del giurista C. Trebazio Testa, vedi M. TALAMANCA, Trebazio Testa fra retorica e diritto, in G.G. ARCHI, a cura di, Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio 1983, Milano 1985, 29 ss.; R.A. BAUMAN, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting in the Late Republic and Triumvirate, München 1985, 123 ss.; M. D’ORTA, La giurisprudenza tra Repubblica e Principato. Primi studi su C. Trebazio Testa, Napoli 1990. Sul frammento di Trebazio, cfr. E. LUEBBERTUS, Commentationes pontificales, cit., 103; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964], 405 fr. 3; PH.E. HUSCHKE - E. SECKEL - B. KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I, Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], 44 fr. 3.

 

Veranio Flacco (o Q. Veranio), giurista di diritto sacro e antiquario dell’età augustea, scrisse anche un’opera sugli auspici, intitolata probabilmente Auspiciorum libri: così M. SCHANZ - C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist. an. 1966], 600. Più in generale, vedi E.A. GORDON, v. Veranius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII A 1, Stuttgart 1955, col. 937. I frammenti sono stati raccolti da F.P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, cit., 5 ss.; H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae Fragmenta, cit., 429 ss.; Ph.E. HUSCHKE - E. SECKEL - B. KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, I, cit., 50 ss.

 

 

§ 6.

 

Sguardo d’insieme: G. BOISSIER, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris 1884, 334 ss.; W. LIEBESCHÜTZ, La religione romana, in A. SCHIAVONE (direz.), Storia di Roma, 2. L’impero mediterraneo, III. La cultura e l’impero, Torino 1992, 237 ss.; J. SCHEID, Religione e società, in A. SCHIAVONE (direz.), Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Torino 1989, 631 ss.

 

Fra la più recente bibliografia sulle religioni orientali, vedi R. TURCAN, Sénèque et les religions orientales, Paris 1967; R. DU MESNIL DU BUISSON, Études sur les dieux phéniciens hérités par l'Empire Romain, Leiden 1970; M.J. GREEN, Provincial Cults, in J. WACHER (Ed.), The Roman World, London 1987, 785-795 [trad. it.: Il mondo di Roma imperiale, III. Economia, società e religione, Roma-Bari 1989, 285 ss.]; R. TURCAN, Les cultes orientaux dans le monde romain, Paris 1989; M. GAWLIKOWSKI, Les dieux de Palmyre, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, II.18.4, Berlin-New York 1990, 2605 ss.

Sul culto di Cibele: M.J. VERMASEREN, Cybele and Attis. The myth and the cult, London 1977; Ph. BORGEAUD, La Mère des dieux. De Cybèle à la Vierge Marie, Paris 1996; K. SUMMERS, Lucretius' Roman Cybele, in Cybele, Attis and related cults. Essays in memory of M.J. Vermaseren, Leiden-New York-Köln 1996, 337 ss.; S.A. TAKACS, Magna deum mater Idaea, Cybele, and Catullus' Attis, Ibidem, 367 ss.

Sui culti di Giove Dolicheno e Giove Eliopolitano: P. MERLAT, Jupiter Dolichenus. Essai d'interprétation et de synthèse, Paris 1960; M.P. SPEIDEL, The Religion of Iuppiter Dolichenus in the Roman Army, Leiden 1978; Y. HAJJAR, Divinités oraculaires et rites divinatoires en Syrie et en Phénicie à l’époque romaine, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.18.4, cit., 2242 ss.

Sul culto di Iside: R.E. WITT, Isis in the Graeco-Roman world, Ithaca, N.Y 1971; F. LE CORUS, Isis, mythe et mystère, Paris 1977; F. SOLMSEN, Isis among the Greeks and Romans, Cambridge, Mass. - London 1979; S.A. TAKÁCS, Isis and Sarapis in the Roman World, Leyde 1995; R. MERKELBACH, Isis Regina-Zeus Sarapis. Die griechisch-ägyptische Religion nach den Quellen dargestellt, Stuttgart-Leipzig 1995.

Infine per quanto riguarda il culto di Mitra: M. CLAUSS, Mithras. Kult und Mysterien, München 1990; R. TURCAN, Mithra et le mithriacisme, Paris 1993; D. FINGRUT, Mithraism. The Legacy of the Roman Empire's Final Pagan State Religion, Toronto 1993; A. MASTROCINQUE, Studi sul mitraismo (Il mitraismo e la magia), Roma 1998; R. BECK, The Mysteries of Mithras: A new Account of their Genesis, in The Journal of Roman Studies 88, 1998, 115 ss.

 

Per la nozione giuridica di “impero” risulta ormai indispensabile il saggio di P. CATALANO, Alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, cit., 649 ss.

 

Per una discussione sul problema de «La libertà nella Roma arcaica e repubblicana», vedi G. LOMBARDI, L'editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50, 1984, 10 ss., il quale si propone di «chiarire come la consapevolezza del fondamento dell'autonomia dell'uomo sia sostanzialmente mutata a séguito del diffondersi del cristianesimo» (11); ID., Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis humanae", Roma 1991.

 

Sulla “Isolierung”: F. SCHULZ, I principii del diritto romano, trad. it. di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, 16 ss. Cfr. A. VARSILONA, Il principio di isolamento nel diritto romano, in Archivio Giuridico "F. Serafini” 201, 1981, 37 ss. Impostazione alternativa alle tesi dello Schulz in R. ORESTANO, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939 (ma 1940), 194 ss.; ID., I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, 99 ss. Una decisa critica «contro l’ “isolamento” del diritto e contro l’evoluzionismo» è stata espressa da P. CATALANO, La religione romana «internamente»: il punto di vista giuridico, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 20, n.s., 1996, 148 ss.; nello stesso senso M. PIANTELLI, Una ricerca su ritus in epoca arcaica, in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 236 s. Aderiscono invece, nella sostanza, all’impostazione dello Schulz: M. KASER, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Catania 3, 1948-49, 77 ss. [ripubblicato in Ars boni et aequi. Festschrift für Wolfang Waldstein zum 65. Geburtstag, hrsg. von M.J. Schermaier und Z. Végh, Stuttgart 1993, 151 ss.]; ID., Religiöse Begriffe in frührömischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 67, 1950, 47 ss.; C. GIOFFREDI, Religione e diritto nella più antica esperienza romana, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 20, 1954, 261; G. PUGLIESE, L'autonomia del diritto rispetto agli altri fenomeni e valori sociali nella giurisprudenza romana, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del primo Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del diritto, Firenze 1966, 162; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, I, München 1988, 318 ss.

 

Sul concetto di “laicizzazione” vedi, brevemente, le puntuali riflessioni di P. CATALANO-P. SINISCALCO, Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario “Da Roma alla Terza Roma”, pubblicato in Index 23, 1995, 461 ss.; in part. paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e cosiddetta 'Isolierung' del diritto», 463: «Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l'isolamento del diritto rispetto alla morale o alla religione. Non vi è isolamento del diritto nell'età repubblicana (ius civile in penetralibus pontificum repositum erat, Livius 4.3.9), né nell'Impero cristiano (publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2). Quanto alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D. 1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina romanistica l'uso del termine "laico" per indicare i giuristi non sacerdoti (onde si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».

 

Sostanziale “tolleranza” religiosa della religione politeista romana: M. ADRIANI, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6, 1958, 507 ss.; R. BLOCH, La religione romana, in H.-Ch. PUECH, Storia delle religioni, I.2 L'Oriente e l'Europa nell'antichità, trad. it., Roma-Bari 1976, 554 s., il quale indica l'apertura e la tolleranza verso divinità straniere come «un'espressione singolare e affascinante della religione romana»; M. SORDI, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, cit., 150 s.

Sottolinea, invece, le ambiguità insite nell'atteggiamento "tollerante" dei Romani A. MOMIGLIANO, Appunti preliminari sull'«opposizione religiosa» all'impero romano, in ID., Saggi di storia della religione romana, Brescia 1988, 154; ma in altro senso, ID., The disadvantages of monotheism for a universal State, in Classical Philology 81, 1986, 285 ss.

 

Sull’introduzione a Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re, vedi P.M. MARTIN, L'idée de royauté à Rome. I. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand 1982, 110 ss.; quanto all’influenza greca e italica sulla religione romana: E. NORDEN, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, 246 ss.; J. GAGÉ, Apollon romain. Essai sur le culte d'Apollon et le développement du "ritus Graecus" à Rome des origines à Auguste, Paris 1955; K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., 148 ss.; G. RADKE, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung und der Gottesverehrung in Rom, Darmstadt 1987, 31 ss.; A. BERNARDI, La Roma dei re fra storia e leggenda, in Storia di Roma, I. Roma in Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, 191 s. (con breve cenno a «culti locali e influenze greco-asianiche»); M.A. LEVI, Appunti su Roma Arcaica, in La Parola del Passato 46, 1991, 121 ss.

 

 

§ 7.

 

Sul complesso fenomeno dei rapporti con gli dèi dei vicini e con gli dèi dei nemici, interpretato in termini di "estensioni" e "mutamenti" della religione tradizionale, vedi G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 409 ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 355 ss., 369 ss.].

 

In merito alla divisione dello spazio terrestre elaborata dal collegio degli auguri (agrorum genera: Varro, De ling. Lat. 5.33) e, più in generale, sul valore giuridico dell'ager, rinvio al saggio P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 492 ss.

 

A proposito del rapporto tra Cicero, De nat. deor. 1.84 e i libri dei pontefici: A.S. PEASE, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, I, Darmstadt 1968 [rist. della 1ª ed. 1955], 426; M. VAN DEN BRUWAENE, Ciceron, De natura deorum. Livre premier, Bruxelles 1970, 146; F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 94 e 96.

G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, cit., 18-19, formula invece l’ipotesi che Cicerone abbia attinto alle Antiquitates rerum divinarum di Varrone.

 

Sul passo di Servius, in Verg. Georg. 1.21: F. SINI, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, cit., 59 s.

 

Quanto alla fonte del testo verriano [Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268 L.], F. BONA, Contributo allo studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964, 16 n. 11, ipotizza che possa essere una “glossa catoniana”: una delle glosse, cioè, «il cui lemma è costituito da espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di Catone (nella quasi totalità dalle orazioni)»; nello stesso senso ID., Opusculum Festinum, Ticini 1982, 15.

 

Sui sacra peregrina vedi, per tutti, J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, cit., 42 ss., 74 ss. [= Le culte chez les Romains, I, cit., 44 ss., 81 ss.]; G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, cit., 348 ss.; M. VAN DOREN, Peregrina sacra. Offizielle Kultübertragungen im alten Rom, in Historia 3, 1955, 488 ss. Cfr. R. TURCAN, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat»”, in M.P. BACCARI (a cura di), Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, Roma 1994, 23 ss.

 

Per un esame della documentazione antica e della dottrina moderna sulla formula e sul rito dell’evocatio: vedi l'ampio studio di V. BASANOFF, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit.; ma anche K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, cit., 125; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 425 s. [= ID., La religione romana arcaica, cit., 369 s.]; P. BRUUN, Evocatio deorum: some notes on the Romanization of Etruria, in H. BIEZAIS (ed.), The Myth of the State: based on papers read at the Symposium on the Myth of the State hold at Abo, 6th-8th September 1971, Stockholm 1972, 109 ss. (consultabile anche on line nel sito: https://ojs.abo.fi/ojs/index.php/scripta/article/download/683/862/ ); J. ALVAR, La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos desacralizadores, in Archivo Español de Arqueología 57, 1984, 143 ss.; ID., Matériaux pour l’étude de la formule sive deus, sive dea, in Numen 32, 1985, 236 ss.; J. RÜPKE, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Kriges in Rom, Stuttgart 1990, 162 ss.; A. BLOMART, Die evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom, in H. CANCIK-J. RÜPKE (hrsg.), Römische Reichsreligion und Provinzialreligion, Tübingen 1997, 99 ss.

 

L'evocatio di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veio, in Studi Etruschi 24, 1955, 106 ss.; J. Hubaux, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, 154 ss.; R.E.A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, 21 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, cit., 426 s. [= Id., La religione romana arcaica, cit., 370 s.]; P. BRUUN, Evocatio deorum: some notes on the Romanization of Etruria, cit.; R. Bloch, Interpretatio, cit., 15 ss.

 

Il contesto storico dell’evocatio di Giunone di Cartagine, è ben ricostruito da V. BASANOFF, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., 37 ss. Vedi anche R. BLOCH, Interpretatio, cit., 17 s.; N. BERTI, Scipione Emiliano, Caio Gracco e l'evocatio di Giunone da Cartagine, in Aevum 64, 1990, 69 ss.

 

 

§ 8.

 

Sull’antitesi religio/superstitio: W.F. OTTO, ‘Religio’ und ‘Superstitio’, in Archiv für Religionswissenschaft 14, 1911, 406 ss.; M. SACHOT, ‘Religio/superstitio’. Historique d’une subversion et d’un retournement”, in Revue de l’Histoire des Religions 208, 1991, 355 ss.

Per superstitio invece: E. RIESS, v. Aberglaube, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 1, Stuttgart 1894, coll. 29 ss.; I. PFAFF, v. Surperstitio, ibid. 4, 1, Stuttgart 1931, coll. 938 ss.; R.C. ROSS, Superstitio, in The Classical Journal 64, 1968-69, 354 ss.; S. CALDERONE, Superstitio, in Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, 377 ss. (ivi anche indicazione delle fonti); D. GRODZYNSKI, Superstitio, in Revue des Études Anciennes 76, 1974, 36 ss.; L.F. JANSSEN, Die Bedeutungsentwicklung von superstitio/superstes, in Mnemosyne 28, 1975, 135 ss.; W. BELARDI, Superstitio, [Biblioteca di ricerche linguistiche e filologiche, 5] Roma 1976.

 

Approfondimenti sui libri Sibyllini: R. BLOCH: Les origines étrusques des Livres Sibyllins, in Mélanges offerts à A. Ernout, Paris 1940, 21 ss.; ID., La divination romaine et les livres sibyllins, in Revue des Études Latines 40, 1962, 118 ss.; ID., Les prodiges dans l'antiquité classique (Grèce, Étrurie et Rome), Paris 1963 (sui libri sibillini 86 ss.); ID., L'origine des livres Sibyllins à Rome: méthode de recherche et critique du récit des annalistes anciennes, in AA.VV., Neue Beiträge zur Geschichte der alten Welt, 2. Römisches Reich, Berlin 1965, 281 ss.; H.W. PARKE, Sibyls and sibylline prophecy in classical antiquity, London and New York 1988, 190 ss. (Appendix II: The Libri Sibyllini).

 

E. NORDEN, De Minucii Felicis aetate et genere dicendi, Greifswald 1897; J. SCHMIDT, Minucius Felix oder Tertullian? Philologisch-historische Untersuchung der Prioritätsfrage des Octavius und des Apologeticum unter “physiognomischer Universalperspektive” [Inaugural-Dissertation München], Borna-Leipzig 1932; H.A. GÄRTNER, Die Rolle und die Bewertung der skeptischen Methode im Dialog Octavius des Minucius Felix, in Panchaia. Festschrift für Klaus Thraede, [Jahrbuch für Antike und Christentum, Erg. 22] Münster Westfalen 1995, 141 ss. Quanto alla cultura classica dell’autore cristiano, vedi P. COURCELLE, Virgile et l’immanence divine chez Minucius Felix, in Mullus. Festschrift Theodor Klauser, [Jahrbuch für Antike und Christentum, Erg. 1] Münster Westfalen 1964, 34 ss.; E. HECK, Vestrum estpoeta noster. Von der Geringschätzung Vergils zu seiner Aneignung in der frühchristlichen lateinischen Apologetik, in Museum Helveticum 46, 1990, 102 ss. (in part. 109 ss.); V. BUCHHEIT, Vergil als Zeuge der natürlichen Gotteserkenntnis bei Minucius Felix und Laktanz, in Rheinisches Museum für Philologie 139, 1996, 254 ss.

 

Fine e suggestiva analisi del testo di Minucio Felice quella proposta da A. WLOSOK, Rom und die Christen. Zur Auseinandersetzung zwischen Christentum und römischem Staat, Stuttgart 1970, 68 ss.; testo che la studiosa tedesca ha considerato, a ragione, esempio significativo «der heidnischer Einwände gegen das Christentum». Vedi anche l’articolo di S. BODELÓN, El discurso anticristiano de Cecilio en el Octavio de Minucio Félix, in Memorias de Historia Antigua 13-14, 1992-1993, 247 ss.: si tratta di una traduzione in lingua castigliana con apparato critico essenziale.

Sulle opposte visioni dei cristiani (che si leggono in Minucius Felix, Octav. 25.1-7), con riferimenti ai probabili modelli storici e filosofici, appaiono condivisibili le ipotesi formulate da E. HECK, Minucius Felix und der römische Staat. Ein Hinweis zum 25. Kapitel des Octavius, in Vigiliae Christianae 38, 1984, 154 ss.; cfr. inoltre S. BODELÓN, El discurso antipagano de Octavio en la obra de Minucio Félix, in Memorias de Historia Antigua 15-16, 1994-1995, 51 ss.

 

 

 



 

* Questo articolo si basa essenzialmente sul testo della conferenza in tema di universalismo e tolleranza nella religione politeista romana (Montepulciano, palazzo Tarugi, 31 maggio 2003); promossa dalla Associazione “Domus Taurisia” per iniziativa della Professoressa Nicla Bellocci (Università di Siena) e dell’Avvocato Lucilio Secchi Tarugi, fondatore e presidente della Associazione.

Sono sempre stato molto grato ed onorato di quell’invito.

 

[1] C. 1.11.1 = CTh. 16.10.4: Imp. Constantius A. ad Taurum pp. Placuit omnibus locis atque urbibus universis claudi protinus templa et accessu vetito omnibus licentiam delinquendi perditis abnegari. [1] Volumus etiam cunctos sacrificiis abstinere. [2] Quod si quis aliquid forte huiusmodi perpetraverit, gladio ultore sternatur. Facultates etiam perempti fisco decernimus vindicari et similiter puniri rectores provinciarum, si facinora vindicare neglexerint. D. k. Dec. Constantio A. VII et Constante III conss. [a. 354]. C. 1.11.2 = CTh. 16.10.9: Imppp. Gratianus Valentinianus et Theodosius AAA. Cynegio pp. Ne quis mortalium ita faciendi sacrificii sumat audaciam, ut inspectione iecoris extorumque praesagio vanae spem promissionis accipiat vel, quod est deterius, futura sub exsecrabili consultatione cognoscat. Acerbioris etenim imminebit supplicii cruciatus eis, qui contra vetitum praesentium vel futurarum rerum explorare temptaverint veritatem. D. VIII k. Iun. Constantinopoli Arcadio A. et Bautone conss. [a. 385]. C. 1.11.3 = CTh. 16.10.15: Impp. Arcadius et Honorius AA. Macrobio et Procliano vicario. Sicut sacrificia prohibemus, ita volumus publicorum operum ornamenta servari. Ac ne sibi aliqua auctoritate blandiantur, qui ea conantur evertere, si quod rescriptum, si qua lex forte praetenditur: abreptae huiusmodi chartae ex eorum manibus ad nostram scientiam referantur. D. IIII k. Febr. Ravennae Theodoro cons. [a. 399]. C. 1.11.4 = CTh. 16.10.17: Impp. Arcadius et Honorius AA. Apollodoro Proconsuli Africae. Ut profanos ritus iam salubri lege submovimus, ita festos conventus civium et communem omnium laetitiam non patimur submoveri. Unde absque ullo sacrificio atque ulla superstitione damnabili exhiberi populo voluptates secundum veterem consuetudinem, iniri etiam festa convivia, si quando exigunt publica vota, decernimus. D. XIII k. Sept. Patavi Theodoro cons. [a. 399]. C. 1.11.7.1: Impp. Valentinianus et Marcianus AA. Palladio pp. Quisquis autem contra hanc serenitatis nostrae sanctionem et contra interdicta sacratissimarum veterum constitutionum sacrificia exercere temptaverit, apud publicum iudicem reus tanti facinoris legitime accusetur et convictus proscriptionem omnium bonorum suorum et ultimum supplicium subeat. D. prid. id. Nov. Marcianus A. cons. [a. 451]. C. 1.11.8 pr.: Impp. Leo et Anthemius AA. Dioscoro pp. Nemo ea, quae saepius paganae superstitionis hominibus interdicta sunt, audeat pertemptare, sciens, quod crimen publicum committit qui haec ausus fuerit perpetrare [a. 472 ?].

 

[2] CTh. 16.10.2: Imp<p>. Constantius <et Constans A>A. ad Madalianum agentem vicem p(raefectorum) p(raetori)o. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem, ausus fuerit sacrificia celebrare, competens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. Cfr. anche CTh. 9.16.1 = C. 9.18.3: Imp. Constantinus A. ad Maximum p. u. Nullus haruspex limen alterius accedat, nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice qui ad domum alienam accesserit, et illo qui eum suasionibus vel praemiis evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam detrudendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum proprium exercere. Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse sed dignum magis praemio arbitramur. Pp. Kal. Feb. Romae, Constantino A. V. et Licinio Caes. coss. (a. 319 d.C.). CTh. 9.16.2: Idem ad populum. Haruspices et sacerdotes et eos qui huic ritui adsolent ministrare ad privatam domum prohibemus accedere, vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas atque delubra et consuetudinis vestrae celebrate solemnia; nec enim prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari (a. 319).

 

[3] CTh. 16.1.2 = C. 1.1.1 pr.-1: Imppp. Gratianus Valentinianus et Theodosius AAA. Edictum ad populum urbis Constantinopolitanae. Cunctos populos, quos clementiae nostrae regit temperamentum, in tali volumus religione versari, quam divinum Petrum apostolum tradidisse Romanis religio usque ad nunc ab ipso insinuata declarat quamque pontificem Damasum sequi claret et Petrum Alexandriae episcopum virum apostolicae sanctitatis, hoc est ut secundum apostolicam disciplinam evangelicamque doctrinam patris et filii et spirictus sancti unam deitatem sub pari maiestate et sub pia trinitate credamus. [1] Hanc legem sequentes Christianorum catholicorum nomen iubemus amplecti, reliquos vero dementes vesanosque iudicantes haeretici dogmatis infamiam sustinere, nec conciliabula eorum ecclesiarum nomen accipere, divina primum vindicta, post etiam motus nostri, quem ex caelesti arbitrio sumpserimus, ultione plectendos. D. III k. Mart. Tessalonica Gratiano V et Theodosio AA. conss.

 

[4] CTh. 16.10.12: Imppp. Theodosius, Arcadius et Honorius AAA. Ad Rufinum p.p. Nullus omnino, ex quolibet genere, ordine hominum dignitatum, vel in potestate positus, vel honore perfunctus, sive potens sorte nascendi seu humilis genere, conditione, fortuna: in nullo penitus loco, in nulla urbe, sensu carentibus simulacris, vel insontem victimam caedat; vel, secretiore piaculo, Larem ignem ero Genium, Penates nidore veneratus, accendat lumina, imponat tura, serta suspendat. [1] Quod si quispiam immolare hostiam sacrificaturus audebit, aut spirantiam exta consulere, ad exemplum maiestatis, reus, licita cunctis accusatione, delatus, excipiat sententiam competentem, etiamsi nihil contra salutem principum, aut de salute quaesierit. Suffici, emin ad criminis molem, naturae ipsius leges velle rescindere, inlicita perscrutari, occulta recludere, interdicta temptare, finem, quaerere salutis alienae, spem alieni interitus polliceri. [2] Si quis vero mortali opere facta, et aevum passura simulacra imposito ture venerabitur, ac (ridiculo exemplo metuens subitoque ipse simulaverit) vel redimita vittis arbore, vel erecta effossis ara cespitibus vanas immagines, humiliore licet muneris praemio, tamen plena religionis iniuria, honorare temptaverit, is, utpote violatae religionis reus, ea domo seu possessione multabitur, in qua eum gentilicia constiterit superstitione famulatum. Namque omnia loca, quae turis constiterit vapore fumasse, (si tamen ea in iure fuisse thurificantium probabuntur) fisco nostro adsocianda censemus. [3] Sin vero in templis fanisve publicis, aut in aedibus agrisve alienis, tale quispiam sacrificandi genus exercere temptaverit, si ignorante domino usurpata constiterit, XXV. librarum auri multae nomine cogetur inferre; conniventem vero huic sceleri par ac sacrificantem poena retinebit. [4] Quod quidem ita per iudices, ac defensores et curiales singularum urbium, volumus custodiri, ut ilico per hos comperta in iudicium deferantur per illos delacta plectantur. Si quid autem ii tegendum gratia, aut incuria praetermittendum esse crediderint, commotione iudiciariae subiacebunt. Illi vero moniti si vindictam dissimulatione distulerint, XXX. librarum auri dispendio multabuntur; officiis quoque eorum damno parili subiugandis. Data VI id. Nov. Arcadio A. II et Rufino coss.

 

[5] J. BAYET, La religion romaine. Histoire politique et psychologique (1957), 2è éd. revue et corrigée, Paris 1973, 277 [= ID., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), 298].

 

[6] Livius 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius iurandum pro legum ac poenarum metu civitatem regerent. Et cum ipsi se homines in regis velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea castra non urbem positam in medio ad sollicitandam omnium pacem crediderant, in eam verecundiam adducti sunt, ut civitatem totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit, ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos verterent, multa prodigia nuntiabantur.

 

[7] Livius 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit.

 

[8] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 207; vedi anche la riflessione di C.M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er siècle, in “Condere Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), Luxembourg 1992, 18 s.

 

[9] R. ORESTANO, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, 114.

 

[10] Svetonius, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est; cfr. anche Livius 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium.

 

[11] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.

 

[12] Vergilius, Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi.

 

[13] M. HUMBERT, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, 195.

 

[14] J. SCHEID, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, direction de C. Nicolet, Paris 1984, 269 s.

 

[15] Cicero, Pro Rabir. per. 5: ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabus immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto; Ovidius, Amor. 1.2.21: veniam pacemque rogamus; Livius 39.10.5: pacem veniamque precata deorum dearumque. Cfr. Plautus, Merc. 678: Apollo, quaeso te ut des pacem propitius; Livius 1.16.3: pacem praecibus exposcunt; 3.7.8: veniam irarum caelestium finem pesti exposcunt; Seneca, Med. 595: Parcite, o divi, veniam precamur.

 

[16] Vergilius, Aen. 12.849-852: Hae Iovis ad solium saevique in limine regis / apparent acuuntque metum mortalibus aegris, / si quando letum horrificum morbosque deum rex / molitur, meritas aut bello territat urbes; per quanto nella religione tradizionale Iuppiter non era legato alla morte, come possiamo leggere nel commento a Virgilio del grammatico tardo antico Servio: Servius, in Verg. Aen. 12.851: letum horrificum volunt Iovem non esse mortis auctorem, sed posse mortis genere vel prodesse vel obesse mortalibus.

 

[17] Plautus, Poen. 253: sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse.

 

[18] Lucretius, De rer. nat. 5.1229: non divom pacis votis adit, ac prece quaesit.

 

[19] Vergilius, Aen. 3.369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico testo di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l'espressione pax deorum; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale, in quanto il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare, come del resto aveva già spiegato Servius, in Verg. Aen. 3.370: exorat pacem divum aut de sacrificantum more requirit, utrum tempus consulendi esset; nam et hoc vehementer quaeritur, ut in sexto cum virgo poscere fata tempus ait; aut certe, quod et melius est, de sacrificantum more ante nefas expiat ab harpyia praedictum, et sic venit ad vaticinationem. Ut autem hic expiatam famem intellegamus sequens efficit locus, ut aderitque vocatus Apollo, cum constet, nisi in hoc intellexeris loco, famis causa nusquam invocatum esse Apollinis numen. Dubitationem autem in hoc loco 'exorat' facit; nam 'orare' est petere, 'exorare' impetrare: ergo impetrat pacem aut ad inquirendum tempus, aut ad mitigandum famis periculum.

 

[20] Livius 3.5.14: His avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur; cfr. 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit; 42.2.3: prodigia expiari pacemque deum peti praecationibus, qui editi ex fatalibus libris essent, placuit.

 

[21] Cfr., Livius 2.36.1; 3.5.14; 3.10.6; 4.9.3; 4.12.6; 4.21.5; 4.30.7; 5.13.4; 6.20.16; 7.2.2; 7.3.3; 7.27.1; 7.28.7; 8.6.9; 8.9.6-12; 8.25.1; 10.47.6; 21.46.1-3; 21.63.13; 22.3.11; 22.9.7; 22.36.6; 23.31.15; 23.36.10; 23.39.5; 24.10.6; 24.44.8-9; 25.7.7-9; 25.16.1; 25.17.3; 26.23.3-6; 26.45.9; 27.4.11; 27.11.1; 28.27.16; 30.2.9-13; 30.38.8.

 

[22] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit.

 

[23] Cfr. anche Cicero, De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur); De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset); ed ancora De har. resp. 18 (Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).

Una diversa definizione di religio è data dal commentatore virgiliano Servius, in Verg. Aen. 8.349: religio id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio.

 

[24] Anche Virgilio si mostra sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter le parole dei versi Verg., Aen. 12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores; cfr. F. SINI, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, 192 n. 27.

 

[25] Cicero, De nat. deor. 3.5: Sed ante quam de re, pauca de me. Non enim mediocriter moveor auctoritate tua Balbe orationeque ea quae me in perorando cohortabatur ut meminissem me et Cottam esse et pontificem; quod eo credo valebat, ut opiniones, quas a maioribus accepimus de dis immortalibus, sacra caerimonias religionesque defenderem. Ego vero eas defendam semper semperque defendi, nec me ex ea opinione, quam a maioribus accepi de cultu deorum inmortalium, ullius umquam oratio aut docti aut indocti movebit. Sed cum de religione agitur, Ti. Coruncanium P. Scipionem P. Scaevolam pontifices maximos, non Zenonem aut Cleanthen aut Chrysippum sequor, habeoque C. Laelium augurem eundemque sapientem quem potius audiam dicentem de religione in illa oratione nobili quam quemquam principem Stoicorum. Cumque – potuisse.

 

[26] Cicero, De har. resp. 19: Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos non sentiat et ea quae tanta mente fiunt, ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit, casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.

 

[27] Sallustius, Cat. 12.1-5: Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malivolentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventum luxuria atque avaritia cum superbia invasere: rapere consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi neque moderati habere. Operae pretium est, cum domos atque villas cognoveris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissumi mortales, fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decorabant, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant. At hi contra, ignavissumi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae fortissumi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum esset imperio uti.

 

[28] Valerius Maximus, Fact. et dict. memor. 1.1.9: Qui praetor a patre suo collegii Saliorum magistro iussus sex lictoribus praecedentibus arma ancilia tulit, quamvis vacationem huius officii honoris beneficio haberet. Omnia namque post religionem ponenda semper nostra civitas duxit, etiam in quibus summae maiestatis conspici decus voluit. Quapropter non dubitaverunt sacris imperia servire, ita se humanarum rerum futura regimen existimantia, si divinae potentiae bene atque constanter fuissent famulata.

 

[29] Tertullianus, Apolog. 1.1: Si non licet vobis, Romani imperii antistites, in aperto et edito, in ipso fere vertice civitatis praesidentibus ad iudicandum, palam dispicere et coram examinare, quid sit liquido in causa Christianorum; si ad hanc solam speciem auctoritas vestra de iustitiae diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere; si denique, quod proxime accidit, domesticis indiciis nimis operata infestatio sectae huius os obstruit defensioni: liceat veritati vel occulta via tacitarum litterarum ad aures vestras pervenire.

 

[30] Tertullianus, Apolog. 25.1-2: Satis quidem mihi videor probasse de falsa et vera divinitate, cum demonstravi, quemadmodum probatio consistat, non modo disputationibus nec argumentationibus, sed ipsorum etiam testimoniis, quos deos creditis, ut nihil iam ad hanc causam sit retractandum. Quoniam tamen Romani nominis proprie intercedit auctoritas, non omitto congressionem, quam provocat illa praesumptio dicentium, Romanos pro merito religionis diligentissimae in tantum sublimitatis elatos et impositos, ut orbem occuparint, et adeo deos esse, ut praeter ceteros floreant, qui illis officium praeter ceteros faciant.

 

[31] E. PERUZZI, Origini di Roma, II. Le lettere, Bologna 1973, 162. Cfr. ID., Le origini di Roma, I. La famiglia, Firenze 1970, 142 ss.: «L’importanza di questo argomento e silentio è indubbia: la principale fonte scritta degli storici di Roma sono gli annales maximi, e, come è verosimile che dedicassero particolare attenzione a fatti di significato religioso, così è assolutamente certo che essi erano il documento più preciso e minuzioso della tradizione pontificale. Ora, il passo di Liu. 1.20.5 è una scarna notizia, espressa non meno ieiune di quelle degli annales, che reca un elemento davvero singolare. Trattando della più antica età regia, non di rado lo storico patavino indica la parentela dei personaggi, sia pure concisamente (per esempio 1.22.1 “Tullum Hostilium nepotem Hostili”, 1.34.1-2 “Lucumo … Demerati Corinthii filius erat”), però questo è l’unico caso in cui egli menziona un individuo con la sua formula onomastica, quale doveva apparire in registrazioni burocratiche: Numa Marcius Marci filius; formula, si noti, dell’età di Numa Pompilio, poiché questo sovrano, come diceva il sarcofago riportato alla luce nel 181 a.C., si chiamava ufficialmente Numa Pompilius Pomponi filius rex Romanorum. Ritengo probabile che la notizia di Livio risalga in ultima analisi agli annales» (144 s.).

 

[32] Fonti: Livius 1.19-20; Dionysius Halicarnassensis 2.64-73; Plutarchus, Numa 9-14.

 

[33] Plutarchus, Num. 14.6-7.

 

[34] Servius, in Verg. Buc. 5.66: Sane quaeritur, cur duo altaria Apollini se positurum dicat, cum constet supernos deos impari gaudere numero, infernos vero pari, ut numero deus impare gaudet, quod etiam pontificales indicant libri = P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878, 13 fr. 56. Cfr. anche Servius Dan., in Verg. Buc. 8.75; Macrobius, Sat. 1.13.5.

 

[35] Plinius, Nat. hist. 14.88: Romulum lacte, non vino libasse indicio sunt sacra ab eo instituta, quae hodie custodiunt morem. Numae regis proxumi lex est: "Vino rogum ne respargito". Quod sanxisse illum propter inopiam rei nemo dubitet. Eadem lege ex imputata vite libari vina diis nefas statuit, ratione excogitata ut putare cogerentur alias aratores et pigri circa, pericula arbusti. M. Varro auctor est Mezentium Etruriae regem auxilium Rutulis contra Latinos tulisse vini mercede quod tum in Latino agro fuisset.

 

[36] Plinius, Nat. hist. 18.7: Numa instituit deos fruge colere et mola salsa supplicare atque, ut auctor est Hemina, far torrere, quoniam tostum cibo salubrius esset, id uno modo consecutus, statuendo non esse purum ad rem divinam nisi tostum. Cfr. Servius Dan., in Verg. Buc. 8.82.

 

[37] Cfr. Livius 5.21.16: Convertentem se inter hanc venerationem traditur memoriae prolapsum cecidisse; idque omen pertinuisse postea eventu rem coniectantibus visum ad damnationem ipsius Camilli, captae deinde urbis Romanae, quod post paucos accidit annos, cladem; Svetonius, Vitell. 2: Idem miri in adulando genii, prius C. Caesarem adorare ut deum instituit, cum reversus ex Syria non aliter adire ausus esset quam capite velato circumvertensque se, deinde procumbens.

 

[38] Arnobius, Adv. Nat. 2.73.18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire?

 

[39] Servius, in Verg. Georg. 1.21: Quod autem dicit ‘studium quibus arva tueri’, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarratione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, 64 fr. 87; l'insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia in realtà un frammento varroniano, tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum [Op. cit. II. Kommentar, 184]. Vedi anche, brevemente, F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, 1. Libri e commentarii, Sassari 1983, 108 s.

 

[40] Cfr. Varro, in Festus, v. Opima spolia, p. 204 L.

 

[41] Servius Dan., in Verg. Aen. 2.156: HOSTIA vero victima et dicta quod dii per illam hostiantur, id est aequi et propitii reddantur, unde hostimentum aequationem.

 

[42] R. TURCAN, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, 4.

 

[43] P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., 19 fr. 120. Cfr. Varro, De ling. Lat. 5.112: Augmentum, quod ex immolata hostia desectum in iecore <imponitur> in por<ric>iendo a<u>gendi causa. Magmentum a magis, quod ad religionem magis pertinet: itaque propter hoc <mag>mentaria fana constituta locis certis quo id imponeretur.

 

[44] R. TURCAN, Le sacrifice mithriaque: innovations de sens et de modalités, in Aa.Vv., Le sacrifice dans l’Antiquité [Entretiens sur l’Antiquité classique, 27], Genève 1981, 361.

 

[45] Cicero, De leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur.

 

[46] Servius, in Verg. Georg. 2.380: Victimae numinibus aut per similitudinem aut per contrarietatem immolantur: per similitudinem, ut nigrum pecus Plutoni; per contrarietatem, ut porca, quae obest frugibus, Cereri, ut caper, qui obest vitibus, Libero, item capra Aesculapio, qui est deus salutis, cum capra numquam sine febre sit.

 

[47] Macrobius, Sat. 3.5.1: Cum enim Trebatius libro primo de Religionibus doceat hostiarum genera esse duo, unum in quo voluntas dei per exta disquiritur, alterum in quo sola anima deo sacratur, unde etiam haruspices animales has hostias vocant. Nello stesso senso, anche Servio Dan., in Verg. Aen. 4.56: duo enim genera hostiarum sunt: unum, in quo voluntas dei per exta exquiritur; alterum, in quo sola anima deo sacratu: unde etiam aruspices animales hostias appellant.

 

[48] Servius, in Verg. Aen. 8.641: Aut certe illud ostendit, quia in omnibus sacris feminini generis plus valent victimae. Denique si per marem litare non possent, succidanea dabatur femina; si autem per feminam non litassent, succidanea adhiberi non poterat.

 

[49] Servius, in Verg. Aen. 12.170: nam in rebus, quas volebant finiri celerius, senilibus et iam decrescentibus animalibus sacrificabant, in rebus vero, quas augeri et confirmari volebant, de minoribus et adhuc crescentibus inmolabant.

 

[50] P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., 19 fr. 113; F.P. BREMER, Iurisprudentiae Antehadrianae, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], 8 fr. 8; H. FUNAIOLI, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], 431 fr. 4; Ph.E. HUSCHKE - E. SECKEL - B. KÜBLER, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, editione sexta, I, Lipsiae 1908 [Reprint Leipzig 1988], 51 fr. 4.

 

[51] Macrobius, Sat. 3.5.8: Observatum est a sacrificantibus ut, si hostia quae ad aras duceretur fuisset vehementius reluctata ostendissetque se invitam altaribus admoveri, amoveretur quia invito deo offerri eam putabant. Quae autem stetisset oblata, hanc volenti numini dari aestimabant. Cfr. anche Servius, in Verg. Aen. 2.140: Sed hic dicendo ‘effugia’ verbo sacrorum et ad causam apto usus est. Nam hostia quae ad aras adducta est immolanda, si casu effugeret, ‘effugia’ vocari veteri more solet; in cuius locum quae supposita fuerat, succidanea; si gravida fuerat, forda dicitur; quae sterilis autem est, taurea appellatur: unde ludi Taurei dicti, qui ex libris fatalibus a rege Tarquinio Superbo instituti sunt propterea, quod omnis partus mulierum male cedebat. Alii ludos Taureos a Sabinis propter pestilentiam institutos dicunt, ut lues publica in has hostias verteretur.

 

[52] Cicero, Pro Flacco 28.69: Auri ratio constat, aurum in aerario est; furtum non reprehenditur, invidia quaeritur; a iudicibus oratio avertitur, vox in coronam turbamque effunditur. Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis. Stantibus Hierosolymis pacatisque Iudaeis tamen istorum religio sacrorum a splendore huius imperi, gravitate nominis nostri, maiorum institutis abhorrebat; nunc vero hoc magis, quod illa gens quid de nostro imperio sentiret ostendit armis; quam cara dis immortalibus esset docuit, quod est victa, quod elocata, quod serva facta.

 

[53] Arnobius, Adv. Nat. 2.73.18.

 

[54] G. BOISSIER, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris 1884, 228.

 

[55] Livius 1.20.6-7: Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Commento al passo in R.M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [reprinted 1998], 101.

 

[56] K. LATTE, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 148 ss.

 

[57] A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, 42, fr. XXVII.

 

[58] Cfr. Gellius, Noct. Att. 13.23.1: Comprecationes deum immortalium, quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in plerisque antiquis orationibus; Augustinus, De civ. Dei 4.8.

 

[59] M. ADRIANI, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6, 1958, 516.

 

[60] J.-L. GIRARD, Interpretatio Romana. Questions historiques et problèmes de méthode, in Revue d'Histoire et Philosophie Religieuses 60, 1980, 21 ss.

 

[61] J. BAYET, La religion romaine, cit., 58 [= ID., La religione romana, cit., 61 s.].

 

[62] R. TURCAN, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat», in Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, a cura di M.P. Baccari, Roma 1994, 31.

 

[63] S. FERRI, La Iuno Regina di Veii, in Studi Etruschi 24, 1955, 106 ss.; J. HUBAUX, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, 154 ss.; R.E.A. PALMER, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, 21 ss.; R. BLOCH, "Interpretatio", in ID., Recherches sur les religions de l’Italie antique, Genève 1976, 15 ss.

 

[64] Sul frammento e sul giurista sono da vedere P. PREIBISCH, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., 11 fr. 52; F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 29 fr. 1; C. THULIN, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906, 59 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias, I, cit., 15 fr. 1.

 

[65] Plinius, Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent; Servius, in Verg. Aen. 2.351: EXCESSERE quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. [Servius Dan.] Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possint; Macrobius, Sat. 3.9.2-5: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos; quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si posset, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur.

 

[66] V. BASANOFF, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, Paris 1947.

 

[67] D. 48.19.30 (Modestinus libro primo de poenis): Si quis aliquid fecerit, quo leves hominum animi superstitione numinis terrentur, divus Marcus huiusmodi homines in insulam relegari rescripsit.

 

[68] Cfr. Livius, 5.53.10-11: At etiam, tamquam veterum religionum memores, et peregrinos deos transtulimus Romam et instituimus novos. Iuno regina transuecta a Veiis nuper in Aventino quam insigni ob excellens matronarum studium celebrique dedicata est die! Aio Locutio templum propter caelestem vocem exauditam in Nova via iussimus fieri; Capitolinos ludos sollemnibus aliis addidimus collegiumque ad id novum auctore senatu condidimus.

 

[69] Le opposte visioni dei cristiani si leggono in Minucius Felix, Octav. 25.1-7: At tamen ista ipsa superstitio Romanis dedit auxit fundavit imperium, cum non tam virtute quam religione et pietate pollerent. Nimirum insignis et nobilis iustitia romana ab ipsis imperii nascentis incunabulis auspicata est! Nonne in ortu suo et scelere collecti et muniti immanitatis suae terrore creverunt? Nam Asylo prima plebs congregata est: confluxerant perditi, facinerosi, incesti, sicarii, proditores, et ut ipse Romulus imperator et rector populum suum facinore praecelleret, parricidium fecit. Haec prima sunt auspicia religiosae civitatis! Mox alienas virgines iam desponsatas, iam destinatas et nonnullas de matrimonio mulierculas sine more rapuit violavit inlusit, et cum earum parentibus, id est cum soceris suis, bellum miscuit, propinquum sanguinem fudit. Quid inreligiosius, quid audacius, quid ipsa sceleris confidentia tutius? Iam finitimos agro pellere, civitates proximas evertere cum templis et altaribus, captos cogere, damnis alienis et suis sceleribus adolescere cum Romulo regibus ceteris et posteris ducibus disciplina communis est. Ita quicquid Romani tenent colunt possident, audaciae praeda est: templa omnia de manubiis, id est de ruinis urbium, de spoliis deorum, de caedibus sacerdotum. Hoc insultare et inludere est, victis religionibus servire, captivas eas post victorias adorare. Nam adorare quae manu ceperis, sacrilegium est consecrare, non numina. Totiens ergo Romanis inpiatum est quotiens triumphatum, tot de diis spolia quot de gentibus et tropaea. Igitur Romani non ideo tanti, quod religiosi, sed quod inpune sacrilegi; neque enim potuerunt in ipsis bellis deos adiutores habere, adversus quos arma rapuerunt, et quos postulaverant detriumphatos colere coeperunt. Quid autem isti dii pro Romanis possunt, qui nihil pro suis adversus eorum arma valuerunt?