Tradizione romana

 

 

Foto-Di-Vincenzo-quadr MARKO DI VINCENZO

Sapienza Università di Roma

 

La sortitio: un ‘permesso’ del fas allo ius (tra collegialità e condominio)

 

 

SOMMARIO: 1. La coerenza giuridico-religiosa del sistema. – 2. Un esempio di ‘paralisi’ del sistema: lo ius prohibendi tra pubblico e privato. – 3. La sors come strumento giuridico-religioso. – 4. La sortitio tra fas e ius (publicum e privatum). – Abstract.

 

 

 

1. – La coerenza giuridico-religiosa del sistema

 

Il sistema giuridico romano è coerente – e, come si dirà, ‘compiuto’- grazie alla rispondenza dello ius al fas[1], potendosi così definire come giuridico-religioso[2].

La tenuta del sistema, dunque, va ricercata in un preciso rapporto tra ius e fas, ove il primo, dalle origini[3] in poi[4], trova infatti ‘chiusura’ nello ius divinum[5].

Da tale scelta ne derivano due conseguenze: l’inclusione dello ius nel fas e, soprattutto, la garanzia logico-giuridica che mai essi possono entrare tra loro in ‘conflitto’.

Ritengo utile, preliminarmente, illustrare questo rapporto adattandovi la teoria dei “circoli concentrici” di Giorgio La Pira. Egli, esponendo sistematicamente il “diritto obbiettivo romano” (“ius civile”, “ius gentium”, “ius praetorium”, “ius naturale”)[6], in cui «sembra capovolgere l’ordine del Titolo I (“De iustitia et iure”) del I libro dei Digesta Iustiniani, a cui il La Pira pur ricorre ripetutamente in queste pagine»[7], presenta tre ‘livelli’ di norme, in cui il successivo è parte del precedente. Dalla “lex aeterna” la “lex naturalis”, da questa la “lex humana[8].

Orbene, questa riflessione di La Pira che «parte dal giurista Ulpiano[9], risale a Cicerone[10] e trova la coincidenza nella dottrina cristiana[11]», viene dallo stesso così rappresentata: «Possiamo riprendere l’immagine comune dei circoli concentrici: la norma etica è nel circolo più ampio rispetto a quello più ristretto della norma giuridica»[12].

Mi sembra che questa semplice (ma efficace) immagine possa ben attagliarsi anche al rapporto tra fas e ius, in questo preciso ordine di “livello”.

Dato che il diritto deve ottenere il “permesso”[13] dal fas per entrare nel sistema, lo ius (e tutto ciò che lo compone) deve necessariamente essere fas: dunque possiamo immaginarli come due cerchi (o “circoli”) concentrici dove quello più piccolo è costituito dallo ius.

La logica dell’inclusione (dello ius nel fas) scongiura ogni tipo di incongruenza del sistema: questo rapporto non può mai entrare in ‘conflitto’, né entrano in ‘conflitto’ con il fas tutti gli altri elementi che costituiscono sottoinsieme dello ius (come esemplarmente la lex)[14]. Il ‘conflitto’ non emerge mai proprio perché ciò che è fas ben può essere ius, ma ciò che è ius è di certo fas.

A conferma della logica giuridica del sistema, si pone la necessaria distanza tra un circolo e l’altro. Infatti se i due in un solo momento venissero a toccarsi, ciò significherebbe che al porsi di una nuova esigenza giuridica non ancora disciplinata la soluzione non potrebbe aversi, perché andrebbe ricercata nel nefas. Dunque il sistema del fas avrebbe già esaurito (coincidendo con lo ius) le sue potenzialità: ciò comporterebbe un cortocircuito giuridicamente irresolubile.

Posto quindi che una coincidenza non si potrà mai avere, perché se vi fosse nascerebbe un ‘conflitto’ tra ius e fas dato che lo ius deborderebbe la volontà divina, la distanza tra i circoli deve tendere però a ridursi sempre più nell’ottica e nell’imperativo categorico della civitas augescens[15]: crescendo i traffici commerciali (e giuridici), crescendo i magistrati, dovendo crescere la città e il populus, servono continuamente nuove regole. Detta distanza costituisce quindi ‘garanzia’ non solo della crescita del sistema, ma del sistema (giuridico-religioso) stesso: non è patologico che vi siano lacune nel sistema giuridico, fintantoché, ogniqualvolta ve ne sia bisogno, possa fisiologicamente ricercarsi la soluzione nel fas, per poi essere soltanto esplicitata nello ius.

Al fine di dimostrare ‘sul campo’ detta coerenza (giuridico-religiosa) del sistema, può risultare utile esaminare alcune situazioni giuridiche ‘conflittuali’ create, e dunque volute, dal sistema stesso: infatti, la contitolarità del potere (ius publicum) o del diritto (ius privatum) tra più persone è potenzialmente capace di comportare una ‘paralisi’ del sistema, frenandone così la crescita.

La soluzione giuridico-religiosa appresso indagata, cioè la sortitio, dimostrando che la paralisi generata dallo ius sia a volte irresolubile senza l’ausilio della religio, conferma che proprio nel rapporto tra fas e ius il sistema fonda la sua coerenza, poiché si è certi di potersi avvalere del fas laddove lo ius abbia esaurito i suoi strumenti.

La soluzione, comune per situazioni analoghe afferenti ad entrambe le posizioni di studio[16], permetterà poi in chiusura di evidenziare un certo ‘controllo pubblico’ sul privato, recuperando (in un certo qual modo) “tre livelli”.

 

 

2. – Un esempio di ‘paralisi’ del sistema: lo ius prohibendi tra pubblico e privato

 

Per mettere in luce quanto sopra detto, si ritiene utile concentrarsi sullo ius prohibendi. Esso rappresenta un valido e coerente strumento giuridico decisionale, presente nella collegialità magistratuale e nella comproprietà[17], ma incapace di governare situazioni ‘conflittuali’ generate da un mancato accordo tra i contitolari del potere o della cosa.

La scelta è dettata dal pregio che questo strumento dimostra: è presente infatti sia nello ius publicum che nello ius privatum, proprio di due istituti che rappresentano, a detta di Bonfante, degli “schietti equivalenti”[18] tra le due diverse posizioni di studio.

La comproprietà romana[19] è «precisamente l’ordine della consovranità, o collegialità romana»[20]; all’indipendenza del condomino, dunque, fa riscontro una certa autonomia del magistrato, il quale, da solo, senza convocare o richiedere il parere del collega può ordinare e porre in essere qualsiasi atto in esercizio del suo potere, a meno che non vi sia opposizione dell’altro. Dunque «l’intercessio, il veto, è il preciso concetto del jus prohibendi, col quale un solo condomino paralizza l’azione di tutti gli altri»[21].

Dico subito che il veto si pone come strumento decisionale per una precisa esigenza, e cioè la (necessaria) unione di intenti, verso l’‘unanimità’. Di certo nella collegialità romana non si ravvisa nessun elemento collegiale inteso in senso moderno, così come non vi si poteva rintracciare nessun elemento corporativo o sociale nel condominio romano: tant’è che «il nome di collegium dato alla magistratura romana è, per il nostro spirito, per il significato odierno della parola, una contraddizione, non altrimenti che il nome di societas dato pure all’insieme dei condomini»[22].

E ciò perché risulta «fondamentalmente assente il criterio, a noi familiare, per cui certe decisioni vanno prese a maggioranza»[23]; lo ius prohibendi si pone dunque come criterio decisionale teso a ricercare l’unanimità dei consensi, dato «il conferimento di una identica potestà (di diritto pubblico o privato) ad una pluralità di titolari»[24].

Dunque, in ambedue le diverse posizioni di studio, la soluzione è diretta all’attribuzione a ciascun contitolare di un diritto: che venga esercitato o meno, lo ius prohibendi costituisce uno strumento giuridico volto a evitare (o raggiungere) l’unanimità.

La soluzione può dirsi senza dubbio concreta[25], in perfetta coerenza con il sistema giuridico-religioso romano: il ‘conflitto’, nel caso della comproprietà e della collegialità tra magistrati può definirsi come ‘potenziale’[26]. Lo ius prohibendi si pone infatti come potere attribuito al socio per impedire[27] il sorgere di un atto giuridico, così come per il collega magistrato[28]. Si atteggia come un potere declinato –e riconosciuto– nella veste di un diritto: l’esercizio del veto è piena manifestazione del potere, anche laddove vogliano distinguersi ‘conflitti tra poteri’ o ‘voleri’[29].

La piena identità del potere tra i contitolari richiede che lo ius prohibendi sia esercitato prima del compimento dell’atto[30], come manifestazione esplicita di una volontà contraria[31]: ne deriva che l’unanimità si raggiunge invece implicitamente, tramite il mancato esercizio del veto, a mo’ di “silenzio-assenso”[32].

Tanto premesso, se ne analizzino ora, brevemente, i piani di applicazione.

Circa quell’“antico consorzio fraterno”[33] che prende il nome di consortium ercto non cito, esso non deve intendersi solo come una semplice comunione di un patrimonio, ma anche come un rapporto associativo di natura familiare[34], stante il rapporto intercorrente tra i fratres sui, sulla base del quale ci si può permettere «di avvicinare, sul piano sistematico, il consortium alla societas consensuale entro un’unica e indefinita categoria di societas»[35], e che si evince appunto dal vincolo di fraternitas[36], su cui i giuristi classici insistevano ancora in materia di società consensuale[37].

Nella (e con la) fraternitas, il consortium[38] viene ad instaurarsi. Avendo radici antichissime, non può essere un caso che, verificandosi in gruppi ristretti all’interno della originaria civitas, ove la gens e la familia giocavano inevitabilmente un ruolo ‘politico’, il suo meccanismo di funzionamento decisionale (lo ius prohibendi) sia stato poi adottato nel governo della cosa pubblica, e, dal punto di vista privatistico, sia stato poi adattato al nuovo schema della communio; difatti «dal consorzio derivano la collegialità e la comunione: i derivati hanno conservato, almeno nell’apparenza esteriore, nella formola, il principio dello ‘ius prohibendi’ e della piena legalità dell’atto non impedito»[39].

Per il profilo privatistico il diritto di veto lo si ritrova sia nell’atto dispositivo dell’appartenenza plurima e integrale, sia per il (solo) atto innovativo nel successivo regime giuridico della communio[40], caratterizzata quest’ultima dal frazionamento della proprietà in quote, ove ciascun partecipante diviene titolare di una pars pro indiviso[41].

Sebbene vi siano teorie diverse circa i poteri dei consortes fra loro[42], per le quali non mi sembra in ogni caso che si possa prescindere da una volontà ‘comune’ fra tutti[43], lo strumento a tutela del singolo comproprietario è quello, come detto, del veto.

Lo ius prohibendi, che verrà poi mutuato nella collegialità per i rapporti di potere tra magistrati, e quindi nello ius publicum, è dunque la tecnica per la risoluzione del ‘conflitto’ generato da una contitolarità del diritto, non solo per gli heredia, ma quantomeno per le res mancipi (se non a tutto il complesso ereditario)[44], tra i fratelli.

La prima considerazione da farsi è che il diritto di proibire manifesta l’adozione del criterio dell’unanimità: non si possono compiere atti dispositivi se tutti i condomini non siano d’accordo; la seconda riguarda la necessaria tempestività del veto[45].

La distinzione tra atti di mera gestione della cosa, che comunque non costituisca innovazione, opus facere[46], si basa, a ben guardare, su necessità meramente fattuali, dalle quali sia chiaro non ne discende però un’eccezione allo ius prohibendi, ma la corretta esplicazione dello stesso concetto di comproprietà, che vuole che tutti i partecipanti abbiano il pieno potere sulla cosa. Gli atti di mera gestione materiale della cosa non pregiudicano il comproprietario, il quale non viene privato del suo diritto, né questo ne risulta modificato, ma anzi rappresentano il potere (e dovere) di collaborazione nel mantenimento naturale della cosa; di converso gli atti di disposizione comportano un inevitabile pregiudizio arrecato alla sfera del diritto del comproprietario. Ed ecco allora che è inevitabile che lo ius prohibendi debba essere esercitato prima del compimento dell’atto[47] perché «non dà diritto di porre nel nulla quanto già è stato fatto, quando il socio che al fatto poteva opporsi, non si è opposto»[48], residuando infatti, nel caso delle innovazioni ed in regime di communio, soltanto il diritto al ‘risarcimento’ nei confronti dell’altro comproprietario tramite l’actio communi dividundo[49].

Lo ius prohibendi deve quindi essere esercitato tempestivamente[50], dato che una volta compiuto l’atto il dominio viene a perdersi, e di conseguenza verranno a perdersi tutti i diritti e poteri connessi ad esso.

Questo sistema di applicazione unitaria del potere, che richiede dunque l’unanimità dei contitolari, garantisce nella res publica una certa utilità dell’atto da compiersi, tanto che Cicerone, dopo aver confermato l’applicazione dello strumento tra colleghi aventi pari potestà[51], arriva a qualificare salutaris civis[52] chi si oppone[53] alla decisione dell’altro[54].

Talvolta, però, è necessario che il potere sia esercitato singolarmente. Uno strumento per la gestione unitaria dell’imperium ha radici antichissime: il sistema del turnus[55] pone infatti le sue radici nell’istituto dell’interregnum[56]; tuttavia dove «il dissenso tra magistrati fosse assoluto interveniva l’intercessione del collega»[57].

E il sistema del turnus lo si trova anche in battaglia[58], prima della spartizione dell’imperium con il sistema delle provinciae. Esse prendono i contorni di sfere di ‘competenza’ e traggono origine proprio dall’applicazione del potere in campo militare[59].

Se ovviamente è di facile comprensione questo sistema di esercizio del potere in momenti che non tollerano incertezze e paralisi decisionali, poiché «sul campo di battaglia, infatti, è quanto mai pernicioso lo scontro (o anche solo la non collaborazione) tra poteri di uguale portata»[60], si ricordi, però, che laddove i consoli si ritrovino a combattere sul medesimo campo di battaglia, in assenza di accordo, non può che ricorrersi alla sortitio. Nell’episodio riportato da Livio, più avanti esaminato[61], si evidenzia come la sors sia utilizzata come mezzo di risoluzione del conflitto tra poteri in battaglia[62], secondo peraltro logiche giuridico-religiose non perfettamente adempiute, che dimostrano, secondo quanto rilevato dagli auguri, anche l’insuccesso nel caso di specie.

 

 

3. – La sors come strumento giuridico-religioso

 

Proprio la sors è lo strumento a cui si ricorre sia nella collegialità tra magistrati[63] che nel condominio.

Circa lo ius publicum, proprio in merito alla collegialità tra magistrati, vi sono infatti degli atti che necessariamente devono essere posti in essere singolarmente da uno solo dei due consoli, e laddove un accordo tra i due non si trovi, si ricorre alla sors. Ciò accade, ad esempio (per ragioni “emergenziali”[64]) per la dictio del dictator, o ancora per la presidenza dei comizi elettorali[65] o per quelli relativi alla creatio dei censori[66].

La sortitio, come si dirà, è infatti istituto altrettanto antico, tanto da essere utilizzata in cerimonie giuridico-religiose di primaria importanza, quale la dedicazione del tempio di Giove sul Campidoglio, per un esercizio ‘unipersonale’ del potere[67]. Lo stesso per la cerimonia lustrale diretta dai censori, ove addirittura si è arrivati ad ipotizzare, oltre alla sortitio diretta a stabilire chi tra i due dovesse lustrum condere ed habere contionem[68], anche una sortitio preliminare per l’auspicatio notturna, per la pronunzia sacrale dell’ordine al praeco di viros vocare e per procedere all’unzione con la mirra ed altre sostanze, «sicché è lecito ritenere che entrambi i censori partecipassero all’intero procedimento, assumendovi ciascuno un ruolo di volta in volta attivo o inattivo secondo l’esito dei sorteggi»[69].

La sors, essendo strettamente connessa al condominio, avvalora l’“elegante”[70] paragone che ha interessato la romanistica nel secolo scorso.

Ciò è abbastanza evidente secondo il dato etimologico. Consortium deriva da cum e sors[71]:

 

Fest., verb. sign., s.v. ‘sors’, p. 381 L.: Sors et patrimonium significat. Unde consortes dicimus; et dei responsum et quod cuique accidit in sortiendo.

 

Da un lato quindi la sua accezione patrimoniale, dall’altro il suo valore divino come responsum dei[72].

Ancorché si presenti un duplice significato del termine, analizzando l’etimologia di sors ne può derivare un’interpretazione per cui i fratelli risultano legati attraverso un dato giuridico-religioso.

Sors sembra infatti potersi associarsi al verbo serere (intrecciare, legare)[73]. Trasposta sul piano concettuale, questa assimilazione, porterebbe a un vincolo non disponibile, coercitivo, non negoziabile tra i destinatari del verdetto, ben rappresentato da Cicerone laddove egli utilizza il verbo cogere[74] o l’espressione necessitudinem sortis[75]. Un vincolo quindi, non solo giuridico, ma anche religioso (religio, come noto, può essere in connessione etimologica con ligare[76]), che portano lo stesso Cicerone a confermare detto carattere del sorteggio[77].

E allora si venga al dato applicativo della sors nel consortium ercto non cito. Quest’ultima espressione, sebbene di uso consolidato nelle trattazioni romanistiche[78], non è riscontrabile in alcuna fonte giuridica (né appare nei riscoperti frammenti di Gaio[79]), ma è tratta da Gellio[80].

Dal passo di Gellio emerge la natura di ‘societas inseparabilis’ dell’antico consorzio fraterno, confrontandosi la comunione pitagorica («che altro non è che una comunione quasi fraterna»[81]) con il consortium ercto non cito. Gellio sembrerebbe chiaro[82]: egli parla infatti di indivisibilità. Infatti, che ‘ciere e ‘citum si riferiscano alla divisione è comunque «confermato dalla stessa denominazione dell’azione di divisione ereditaria: ‘iudicium familiae erciscundae’»[83]. Di conseguenza non potrebbe non riconoscersi alla regola contenuta nella legge delle Dodici Tavole[84], un carattere di ‘novità’, inserendo nel sistema un meccanismo divisionale prima non conosciuto[85], poiché se ‘erciscere’ non è altro che la contrazione di ‘erctum ciere’, la «negativa anteposta al ‘cito’ esclude la divisibilità»[86].

Corollario di questa tesi è infatti che alla morte di uno tra i consortes la comunione non verrebbe a cessare[87], poiché in tale sistema non può seguirsi l’idea dell’acquisto da parte degli eredi della quota (che non esiste), difettandosi ancora del concetto di communio pro indiviso, che invece ben può portare alla possibilità di una divisione; ma «“inseparabilis”, può dunque essere inteso correttamente, nel brano di Gellio, nel senso di “non quotizzabile”»[88], dovendosi poi evidenziare anche che «Gellio sulla durata dell’inseparabilità non dice verbo» e che quindi la «durata della quale era fissata dai consorti»[89].

Anche laddove la divisibilità[90] possa solo rintracciarsi in un «primitivo familiam erciscere» ove l’assegnazione non riguardasse parti della titolarità del consorzio, ma si seguisse «l’empirico criterio del ‘tanto ad uomo’, su cui si basava l’antichissimo modello viritario che la tradizione fa addirittura risalire a Romolo»[91], la modalità di assegnazione più accreditata[92] è proprio quella del sorteggio.

Se sul significato di sors come patrimonium è già stato detto[93], un altro passo festino può avvalorare l’utilizzo di tale tecnica per addivenire alle disertiones:

 

Fest., verb. sign., s.v. ‘disertiones’, p. 63 L.: Disertiones divisiones patrimoniorum inter consortes.

 

Se esso «riguarda soltanto, espressamente e chiaramente, la divisibilità del consortium»[94], è emblematico che tra le (tre) ricostruzioni etimologiche di ‘disertiones’ quella più verosimile vede la derivazione da dis + sors[95].

La sors quindi potrebbe essere intesa non solo come patrimonium[96], ma anche come strumento utile ad assegnare parti dello stesso ai vari consortes: è stato detto che il tirare a sorte da parte dei fratelli risultava funzionale alla costituzione o al mantenimento del consortium al fine di stabilire preventivamente le parti da attribuirsi a ciascuno in caso di una futura divisione quale «misura precauzionale»[97].

Che addirittura si faccia risalire il sorteggio al momento costitutivo o che intervenisse come tecnica ‘preventiva’ ma al fine –beninteso– di individuare le porzioni, a poco rileva: si atteggia la sors come strumento giuridico-religioso nello stabilire le parti reali[98] tra i fratelli.

Una conferma della sors quale strumento giuridico-religioso è riscontrabile in Varrone:

 

Varro, ling. 6.64-65: sic augures dicunt: si mihi auctor es verbenam manu asserere, dicito [65] consortes. Hinc etiam, ab quo ipsi consortes, sors[99].

 

Sebbene detta fonte sia intesa e ricondotta perlopiù al momento costitutivo del consortium[100] e anche se detto rituale «non si può contrapporre al chiaro dettato di Gaio, il quale depone per la formazione automatica del consortium fratrum suorum»[101], risulta comunque chiara l’attestazione di un procedimento giuridico-religioso.

Si è in presenza di una formula augurale (sic augures dicunt) dove:

 

emerge una richiesta autorizzativa, proposta dall’interrogante all’augure (si mihi auctor es), entrambi sicuramente presenti sulla ‘scena’;

l’autorizzazione ha ad oggetto l’apprensione della verbena (verbenam manu asserere);

una volta concessa la possibilità (al privato) di prendere con la mano l’oggetto sacro, l’augure dirà chi, con l’interrogante, sarà suo consorte (dicito consortes).

 

Risulta evidente il ricorso alla religio per mezzo di un preciso formulario augurale attraverso il quale viene stabilito tra chi saranno divise le sorti: la presenza del sacerdote e della verbena, secondo quanto si dirà, rappresentano sicuramente elementi a favore per cui la pronuncia dell’augure sul consortium possa avere ad oggetto la sors (Hinc etiam, ab quo ipsi consortes, sors).

Circa la richiesta, essa, nel significato più antico del termine, deve intendersi nel senso di ‘apporto di forza’, o, come è stato dimostrato, “accrescimento di forza”[102].

La richiesta mossa dal privato all’augur ha ad oggetto il conferimento dell’auctoritas necessaria a prendere in mano la verbena. L’utilizzo infatti di auctor (augere) dimostra in che termini deve intendersi l’autorizzazione: di fronte a una carenza di potere, la radice *aug- (comune anche a chi conferisce il potere, l’augure[103]) dimostra la necessità di un accrescimento da parte dello ius augurium[104].

Nella formula emerge dunque una ‘delega’ dallo ius sacrum[105] allo ius privatum proprio nella veste dell’auctoritas: questa, secondo quanto ci dice Cicerone, ben rappresentava il grandissimo potere degli auguri, in congiunzione con il diritto[106].

Si realizza dunque più che un accrescimento, un’attribuzione, posto che, da quello che ci dice Varrone, senza l’autorizzazione dell’augure[107] il privato non ha la possibilità di afferrare la verbena: il potere concesso, come detto, si realizza per mezzo dell’auctoritas ‘delegata’. In questa direzione, potrebbe scorgersi dunque un profilo autorizzativo, come espressione di vis ac potestas che caratterizzano, esemplarmente, la tutela[108]: tuttavia, per mezzo della richiesta all’augure, emergerebbe addirittura un profilo volitivo dell’attribuzione, che invece manca per il tutore[109].

Se la richiesta concerne verbenam manu asserere, è attraverso però quest’ultimo atto che il privato, prendendola in mano, dirà con chi verrà divisa la sorte.

Infatti, quanto concesso rappresenta una (tipica) manifestazione materiale del potere, che si esplica nella imposizione fisica della mano sulla verbena; come è stato dimostrato, sulla base dei relativi passi festini[110], quindi, l’autorizzazione concerne il «movimento che l’agente compie verso l’oggetto»[111]: ciò è coerente con la mancata disponibilità dell’erba sacra[112] da parte del privato, che per compiere l’azione deve rivolgersi al sacerdote[113].

Proprio la verbena è però ciò che ‘accresce’: prendendola in mano si ha quell’«apporto di forza, espressione di queste herbae purae»[114]. Del resto anche Plinio[115], occupandosene, utilizza auctoritas per ‘attribuire la giusta importanza’ alla verbena:

 

Plin., nat. hist. 22.3.5: interim fortius agetur, auctoritasque, quanta debet, etiam surdis, hoc est ignobilibus, herbis perhibetur, siquidem auctores imperii Romani conditoresque immensum quiddam et hinc sumpsere, quoniam non aliunde sagmina in remediis publicis fuere et in sacris legationibusque verbenae. certe utroque nomine idem significatur, hoc est gramen ex arce cum sua terra evolsum, ac semper e legatis, cum ad hostes clarigatumque mitterentur, id est res captas clare repetitum, unus utique verbenarius vocabatur.

 

Emerge dunque un impiego dell’erba sacra, intesa anche come sagmina[116], in remediis publicis e in sacris legationibusque. Essa, infatti, sembra utilizzata da un lato per la lustratio e dall’altra per il conferimento di potere.

Circa il suo utilizzo purificatorio l’herba sacra è necessaria sia nei ‘rimedi pubblici’ (da intendersi come “espiazioni e lustrazioni”[117]) sia nelle cerimonie sacre. Esemplarmente risultava impiegata nel lectisternium[118], la cerimonia religiosa condotta dai decemviri sacris faciundis[119] per ripristinare la pax deorum[120], fungendo da capita deorum (o struppi)[121] per gli dèi stesi sui pulvinaria e in cui favore era offerto il banchetto. L’erba sacra, verosimilmente tratta da un arbor felix (verbenas felicis arboris)[122], in occasione delle cerimonie aveva un ampio impiego[123], ovviamente non solo ornamentale, con riguardo agli altari, le statue, i sacrifici e gli stessi sacerdoti[124]; si consideri poi che l’aqua lustralis veniva aspersa «an moyen d’un rameau d’arbre»[125]: non può che trattarsi di herba pura.

Per il suo utilizzo come ‘conferimento di potere’ la factio del pater patratus dimostra una certa «infusione di potenza»[126]; il verbenarius toccando caput e capilli[127] di un (altro) feziale gli attribuisce quell’auctoritas[128] necessaria a patrare il giuramento[129]: nel rito feziale la verbena «cosifica, ossia trasforma in cose le persone»[130]. L’erba, su permesso del re[131], era colta –cum sua terra[132]– dal verbenarius sull’auguraculum, luogo di massima espressione della forza augurale, ricoperto di verbenae[133]. Nelle ambascerie, quindi, la forza è estrema: si ‘strappava’ parte dell’auguraculum, per portarlo con sé, garantendosi il massimo della protezione divina ai legati.

La verbena, dunque, come strumento dell’augure: alcune monete sembrano confermare non solo questo dato, ma dimostrano anche una certa associazione dell’erba sacra alla sortitio.

 

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.64169.obv.width350.jpg

359

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.64169.rev.width350.jpg

359

https://numismatics.org/collectionimages/00001899/1893/1893.5.4.obv.width350.jpg

374/2

https://numismatics.org/collectionimages/00001899/1893/1893.5.4.rev.width350.jpg

374/2

https://rucore.libraries.rutgers.edu/api/iiif/image/2.0/rutgers-lib:47022;PTIF-1/full/600,/0/default.jpg

460/3

https://rucore.libraries.rutgers.edu/api/iiif/image/2.0/rutgers-lib:47022;PTIF-2/full/600,/0/default.jpg

460/3

https://numismatics.org/collectionimages/00001899/1896/1896.7.104.obv.width350.jpg

467/1

https://numismatics.org/collectionimages/00001899/1896/1896.7.104.rev.width350.jpg

467/1

https://gallica.bnf.fr/iiif/ark:/12148/btv1b10424769x/f1/full/600,/0/native.jpg

489/1

https://gallica.bnf.fr/iiif/ark:/12148/btv1b10424769x/f2/full/,120/0/native.jpg

489/1

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.6053.obv.width350.jpg

537/1

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.6053.rev.width350.jpg

537/1

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.6055.obv.width350.jpg

538/1

https://numismatics.org/collectionimages/19001949/1944/1944.100.6055.rev.width350.jpg

538/1

RIC II, 43

RIC II, 2a ed., 43

 

Nelle monete figura ciò che è stato (falsamente) definito aspergillum: «standard numismatic term, not actually attested, but a falsa lectio at CGL»[134]. Tra le otto catalogate da Crawford di (tarda) età repubblicana[135], ne sono state riportate solo quattro, a fini esemplificativi (RRC 467; 489/1; 537/1; 538/1)[136]. Si è ritenuto opportuno aggiungerne una di età imperiale, emessa da Vespasiano, a conferma della continuità della tradizione[137].

Circa le prime tre monete (RRC 359; 374/2; 460/3)[138] si è detto che vedono associato il lituus, simbolo preminente dell’augur[139], alla sitella, ossia l’urna che veniva utilizzata nei sorteggi[140]: «a pitcher that could be used to decide, with a smaller number of lots, the division of command for consuls and praetors»[141]. Posto che non sembra potersi ravvisare una evidente differenza tra quanto identificato come sitella e le brocche[142] raffigurate nelle altre monete, tale da ipotizzare che (tutte) queste potevano benissimo adattarsi al sorteggio[143], è sicuramente suggestivo notare come la verbena sembra figurare in tutte, rappresentata perlopiù come rametto lustrale[144]. Si noti poi che sul dritto della terza moneta (460/3), a destra del volto femminile, è rappresentato un caduceo: grazie a ciò che sappiamo da un frammento di Varrone esso è ben identificabile con la verbena[145].

A ciò deve aggiungersi quanto già dimostrato da Stewart con riferimento all’utilizzo nelle procedure di sorteggio di un preciso linguaggio tecnico augurale[146], avvalorato da precisi rituali, tipici dell’auspicazione, quali esemplarmente il silentium e l’alzarsi in piedi[147].

Ed è la presenza di un vitium che gli auguri rilevano nel 176 a.C. con riferimento alla morte del console Q. Petilio in battaglia: se l’altro console G. Valerio aveva correttamente espletato la procedura di sorteggio, Petilio aveva deposto la sorte nell’urna fuori dal tempio non rientrando nel luogo inaugurato nel momento in cui l’urna stessa venne portata dentro[148]. Trattasi di un vizio procedurale di chiara competenza augurale posto che la sortitio era avvenuta in templo[149], così come sulla scia di Valeton[150] ha evidenziato Catalano: «il vizio dell’atto, riguardo al luogo, doveva essere constatato dagli auguri»[151].

Nel ricorso alla sortitio la volontà degli dèi deve quindi essere accertata correttamente; tuttavia gli auguri, incaricati dal senato[152], si esprimono con responso[153] su un’attività già svoltasi, come controllo ex post: ne discende quindi la necessità di una certa ‘verbalizzazione’ della procedura. Dato il gran numero di sorteggi che interessavano la res publica non è da escludere la rimessione di tale compito agli scribae, che venivano assegnati ai magistrati mediante sortitio in templo[154], più che ai custodes, che invece sembrano assolvere perlopiù funzione ‘testimoniale’[155].

Una delle cause per cui la necessità del controllo va via via scemandosi nel tempo è forse dettata dalla (graduale) sostituzione della pila alla sors[156], intesa nella sua accezione di tavoletta di legno[157], con l’introduzione nell’ultima età repubblicana dell’urna versatilis[158] che rendeva i procedimenti di sorteggio ‘meccanizzati’, tali da complicare eventuali brogli o manipolazioni.

Sebbene per la sortitio a Roma si rifiuti quel carattere oracolare (e dunque “predittivo”[159]) proprio del tempio di Fortuna a Praeneste[160], ciò non significa che la stessa non abbia genere divinatorio[161], secondo anche quanto conferma Cicerone[162]. Ne discende che il controllo augurale è coerente: è necessario che il responsum dei[163] sia correttamente richiesto per far sì che lo ius humanum possa agire secondo il permesso dello ius divinum.

 

 

4. – La sortitio tra fas e ius (publicum e privatum)

 

Dunque proprio la logica del rapporto tra ius e fas, nel senso sopra ricordato di ‘permesso’, può aiutare a comprendere come il risultato generato della sortitio debba essere inteso: il responsum dei non costituisce obbligo.

Solo così possiamo comprendere quell’episodio narrato in Livio[164] in cui le lamentele dei Siracusani contro l’assegnazione della Sicilia a Marco Claudio Marcello per sorteggio portarono quest’ultimo alla permutatio provinciarum con l’altro console, Marco Valerio Levino, ottenendo così l’Italia (e la guerra contro Annibale). Nella logica del ‘permesso’ tutto è coerente con il sistema giuridico-religioso romano: il responsum dei aveva semplicemente ritenuto fas la Sicilia per Marcello, nulla in più.

Il risultato del sorteggio è dunque superato dalla volontà umana: d’altronde la spartizione delle provinciae consolari poteva avvenire, su ordine del senato, per comparatio oppure rimettendo ai consoli la scelta tra questa e la sortitio[165]. Non si atteggia dunque la sortitio come un ‘debito procedurale’ da adempiere ad ogni costo[166]: è infatti privilegiato l’accordo e, solo in difetto dello stesso, si ha ragione di ricorrere al responso divino.

Non stupisce l’evitarsi di un conflitto tra imperium e sacerdotium[167] con decisioni extra sortem: nel quattordicesimo anno della guerra punica, per la spartizione delle province tra il pontefice massimo P. Licinio Crasso e l’altro console P. Cornelio Scipione, la Sicilia venne infatti assegnata a quest’ultimo, quia sacrorum cura pontificem maximum in Italia retinebat[168].

La possibilità di non ricorrere al sorteggio è attestata anche per la dedicazione dei templi: la dedica del tempio di Apollo nel 431 a.C. avvenne ad opera di C. Iulius Mentus, absente conlega sine sorte[169]. Essendo stato votato il tempio due anni prima dal senato e non da un magistrato, e dunque in assenza di vincoli (se non quello tra la divinità e la res publica)[170], si doveva provvedere ad individuare un console per la dedica, in aderenza al mos maiorum[171]. L’assenza del collega consente, nel caso di specie, di procedere senza sorteggio[172].

Se la prima applicazione della sortitio risulta attestata nelle fonti proprio con la nascita della res publica, in occasione della dedica del tempio a Giove Ottimo Massimo, non può che considerarsi come strumento proprio dei mores[173] in assenza di leges che la disciplinano: si ricorda, altresì, che è stata ipotizzata la sua applicazione per la nomina del primo interrex[174].

Si diceva dunque di testare il sistema mediante la sortitio: quale mos[175] essa è lo strumento religioso che, fin dalle origini, assicura la possibilità di ottenere dal fas il permesso per l’attribuzione di un potere, nello ius, a uno dei contitolari.

Il controllo augurale è a garanzia del sistema[176]: ciò è evidente proprio con riferimento al consortium ercto non cito, genialmente elevato da Serrao ad «istituto tipicamente rappresentativo della reciproca osmosi fra ‘pubblico’ e ‘privato’»[177]. Infatti attraverso il condominio, i sui riuscivano ad assicurarsi l’iscrizione nella medesima classe del censo del pater[178], originario titolare del patrimonio: da un lato quindi uno strumento di ‘resistenza’ della grande famiglia, dall’altro un pericoloso mezzo mediante cui gli estranei potevano di fatto, unendo i loro patrimoni, raggiungere facilmente una posizione più elevata all’interno dei comizi centuriati[179]. Quindi che la formula augurale attestata in Varrone[180] valesse per lo scioglimento del consortium o per la sua costituzione qui poco rileva: in ambedue i casi, dati i riflessi costituzionali che ne sarebbero derivati, il controllo giuridico-religioso assicurava una certa tenuta del sistema[181].

Un controllo pubblico, per mezzo dei sacerdoti, sul privato: «il ‘privato’ che riesce ad imprimere un certo assetto al ‘pubblico’»[182] è colui che ne ha ottenuto correttamente il permesso dal fas.

Anche questo ‘filtro’ del pubblico sul privato rappresenta ulteriore riprova del rapporto tra le due diverse posizioni di studio[183]. Quindi, all’interno del fas, il “cerchio” dello ius publicum è sicuramente sovraordinato a quello dello ius privatum.

 

 

 

Abstract

 

On adapte la théorie des “circoli concentrici” de Giorgio La Pira au rapport entre fas et ius. Le système juridique-religieux se conclut dans le fas, qui en représente une solide garantie. Come exemple ‘applicatif’ on prend en considération le recours à la sortitio, un instrument religieux capable de régler des conflits non résolus –que ce soit dans le ius publicum que dans le ius privatum– avec l’utilisation d’instruments (humains) du droit. Il donne, en fait, la possibilité de résoudre des ‘décisions paralysées’ qui se présentent dans le collégialité parmi les magistrats et dans consortium ercto non cito, lá où le ius prohibendi ne peut pas être appliqué. La participation des augures à la procédure démontre comment la sortitio est un instrument qui permet d’obtenir une ‘autorisation’ divine, et dans le consortium la nécessité d’un contrôle public sur le privé. Ceci reflète parfaitement cette “osmosi” entre les deux positions d’études mises en évidence par Serrao.

 

Si adatta la teoria dei “circoli concentrici” di Giorgio La Pira al rapporto tra fas e ius. Il sistema giuridico-religioso trova infatti ‘chiusura’ nel fas, che ne rappresenta una solida garanzia. Come esempio ‘applicativo’ si analizza il ricorso alla sortitio, uno strumento religioso capace di dirimere conflitti irresolubili –sia nello ius publicum che nello ius privatum– attraverso gli strumenti (umani) del diritto. È capace infatti di risolvere ‘paralisi decisionali’ che si pongono nella collegialità magistratuale e nel consortium ercto non cito, laddove non risulti utile lo ius prohibendi. Un certo coinvolgimento degli auguri nel sorteggio, da intendersi come strumento volto a ottenere un ‘permesso’ divino, dimostra nel condominio la necessità di un controllo pubblico sul privato. Ciò ben riflette quella “osmosi” tra le due posizioni di studio dimostrata da Serrao.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

[1] Si vedano, in particolare: R. ORESTANO, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in BIDR 46, 1939, 198 ss.; Id., Elemento divino ed elemento umano nel diritto di Roma, in Rivista internazionale di filosofia del diritto XXI, 1941, 1-40; M. KASER, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Catania 3, 1948-49; P. NOAILLES, Fas et Jus. Études de droit romain, Paris 1948; ID., Du droit sacré au droit civil. Cours de droit romain approfondi 1941-42, Paris 1949, 24 ss.; F. SINI, “Fas et iura sinunt” (Virg., ‘Georg.’ 1, 269). Contributo allo studio della nozione romana di ‘fas’, I, Sassari 1984; L. CIFERRI, Conoscenza e concezione del diritto in Cicerone, in RIDA XLI, 1994, 139-178; F. Sini, Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 6, 2007 (https://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm ); F. CHINI, Idee vecchie e nuove intorno ai concetti di ius e fas in Atti del Seminario di studi su religione e diritto romano. La cogenza del rito, a cura di S. RANDAZZO, Roma 2015, 115-152; E. Quadrato, Urbem condere: la citta “nuova” tra fas e ius, in Atti del Seminario di studi su religione e diritto romano, cit., 357-371.

[2] Sul significato di “sistema giuridico-religioso”: P. CATALANO: Linee del sistema sovrannazionale romano I, Torino 1965, 30 ss., in part. 37, nt. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 445 ss.; ID., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57 ss.

[3] Cic., div. 1.3: Principio huius urbis parens Romulus non solum auspicato urbem condidisse, sed ipse etiam optumus augur fuisse traditur. Romolo compie da solo la sua inaugurazione, non verificandosi quindi un’approvazione, piuttosto una scelta divina; con altre parole «egli preesiste all'ordinamento e lo genera per volontà divina»: P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, Torino 1960, 585, tanto che «la tradizione non poneva tanto una spiegazione storica quanto cercava una suprema giustificazione divina all’ordinamento giuridico-religioso romano», ivi¸ 512.

[4] D. 1.1.10.2 Ulp. 1 reg.: Iuris prudentia est divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. Su questa definizione vd.: B. DONATI, La definizione di Ulpiano della iurisprudentia e l'interpretazione del Vico, in Archivio giuridico 98, 1927, 66 ss.; B. BIONDI, Crisi e sorti dello studio del diritto romano, in Conferenze Romanistiche Univ. Trieste, I, Trieste 1950, 25 ss.; criticato però da P. CATALANO, Per lo studio dello ius divinum, in SMSR 33, fasc. 1, 1962, che a 134, contesta la riflessione di Biondi poiché a suo avviso dimentica della «radice storica antichissima del pensiero di Ulpiano»; R. ORESTANO, Introduzione allo studio storico del diritto romano. Parte speciale: Su talune concezioni del diritto nell'esperienza giuridica romana, I ed., Torino 1953, 269 ss.

[5] Per tutti: P. CATALANO, Per lo studio dello ius divinum, cit.

[6] G. LA PIRA, Corso di Istituzioni di diritto romano. Gruppo universitario fascista, Firenze, anno accademico 1939-1940, XVIII (dispense poligrafate ad uso degli studenti), Firenze 1940, 27-44 e in ID., Istituzioni di diritto romano, Firenze 1948, 1-11.

[7] P. CATALANO, Alcuni concetti e principi giuridici romani secondo Giorgio La Pira, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana 5, 2006 (https://www.dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Catalano-Concetti-principi-giuridici-romani-La-Pira.htm ) già in L. GAROFALO (a cura di), Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese (Padova - Venezia - Treviso, 14-15-16 giugno 2001) I, Padova 2003, 61 ss.

[8] «Abbiamo quindi: a) lex aeterna, che è il principio fontale trascendente di ogni legge di verità e di giustizia, ed è Dio stesso, b) lex naturalis, attuazione della “lex aeterna” nella creatura razionale (l’uomo); c) lex humana – o diritto positivo – che è costituita dal complesso di norme poste dalla civiltà e derivate dalla “lex naturalis”». G. LA PIRA, Istituzioni di diritto romano, cit., 10.

[9] Così P. CATALANO, Alcuni concetti e principi giuridici romani secondo Giorgio La Pira, cit.; il riferimento è a D. 1.1.1.3 Ulp. 1 inst.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri.

[10] Cic., leg. 1.5.17: Natura enim iuris explicanda nobis est, eaque ab hominis repetenda natura, considerandae leges quibus civitates regi debeant; 18: lex est ratio summa, insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria; 19: Quod si ita recte dicitur, ut mihi quidem plerumque videri solet, a lege ducendum est iuris exordium. Ea est enim naturae vis, ea mens ratioque prudentis, ea iuris atque iniuriae regula . Constituendi vero iuris ab illa summa lege capiamus exsordium, quea seculis omnibus ante nata est quam scripta lex ulla aut quam omnino civitas constituta.

[11] «Questa dottrina di origine aristotelica, accolta e ampliata da Cicerone, ricevette nella Summa di S. Tommaso una sistemazione scientifica completa: S. Tommaso ci offre un’analisi delicata e totale dei rapporti fra questi tre tipi di “lex” (I II della Summa q. 90 e segg.»): G. LA PIRA, Istituzioni di diritto romano, cit., 10. Si ricordano: ID., Il concetto di legge secondo S. Tommaso (Rivista di filosofia neoscolastica 22, 1930, 208-217); ID., Il diritto naturale nella concezione di S. Tommaso d’Aquino (Indirizzi e conquiste della filosofia neoscolastica italiana, Milano 1934 = Rivista di filosofia neoscolastica, Supplem. speciale al vol. 26, 1934, 193-206).

[12] G. LA PIRA, Corso di Istituzioni di diritto romano, cit., 44; Id., Istituzioni di diritto romano, cit., 11.

[13] «E tutto si comprende, a mio avviso, solo tenendo presente la struttura della richiesta augurale (si est fas): dalla risposta positiva deriva un permesso, non un obbligo», così P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., 481, e soprattutto: ID., Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 24 ss., 252.

[14] A nulla rileva la ‘forma’ della regola con cui essa diviene ius: o perché approvata o adottata (se trattasi di lex, senatusconsultum, constitutio), o perché insita nella comunità cui si pone (mos) o perché riconosciuta e avvalorata dai fatti (consuetudo), dato che il contenuto deve essere conforme al fas.

[15] D. 1.2.2.7 Pomp. l. s. enchirid. M. BRETONE, Motivi ideologici dell'ʻEnchiridionʼ di Pomponio, in Labeo 11, 1965, 17 e nt. 28 scrive, con riferimento al “valore sostanziale ed ideologico” dello “schema eliano” utilizzato da Pomponio: «attraverso quello schema è la ʻcontinuitàʼ dell'ordinamento che cresce su se medesimo col crescere della civitas, che si trasforma ma non si nega o annulla mai, ad essere riconosciuta ed esaltata»; mentre A. WATSON, ʻIus Aelianumʼ and ʻtripertitaʼ, in Labeo 19, 1973, 26 ss.: «augescente civitate cannot refer simply to the development of institutions within the state» (30 nt. 1); L. LANTELLA, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia (Appunti per un seminario di storia del diritto romano), Torino 1979, 15: «l'aumento della civitas (che qui intenderei soprattutto nel senso di ʻaumento demograficoʼ) ha suggerito a Romolo di disporre come ha fatto»; questi Autori interpretano il sintagma in esame come posto in relazione rispetto a fatti interni od esterni alla civitas. P. CATALANO, Diritto e persone, cit., XIV ss., contrappone la romana civitas augescens, virtualmente universale, agli attuali «stati nazionali incapaci di crescere umanamente», e proprio secondo quello schema, nei suoi aspetti demografici oltre che spaziali e temporali, dobbiamo collocare il favor libertatis e l’eliminazione degli status di peregrinus e di Latinus, nonché il favor per i nascituri, lo ius migrandi, e tutto nella direzione della civitas augescens. Vd. M.P. BACCARI, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in SDHI LXI, 1995, 759 ss.; EAD., Cittadini, popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 60 ss. e la comunicazione di M.P. BACCARI, al XVI Seminario internazionale di studi storici da Roma alla Terza Roma su ʻCivitas augescensʼ: cittadinanza e sviluppo dei popoli da Roma a Costantinopoli a Mosca (Campidoglio 21-23 aprile 1996), in Index 30, 2002. V. sul tema della cittadinanza P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 26 ss., nonché ID., ʻIus Romanumʼ. Note sulla formazione del concetto, in La nozione di ʻRomanoʼ tra cittadinanza ed universalità, Napoli 1984, 554 ss. e, sullo ‘ius migrandi’: F. VALLOCCHIA, Ius migrandi”? Migrazioni latine e cittadinanza romana, in Index XLVI, 2018, 698 ss., 700, anche in Diritto@Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 16, 2018 (https://www.dirittoestoria.it/16/memorie/romaterzaroma/Vallocchia-Ius-migrandi-migrazioni-latine-cittadinanza-romana-[2016].htm ). Infine, mi preme sottolineare che sulla base dell'analisi di Gell., Noct. Att. 18.7: ʻsenatum’ dici et pro loco et pro hominibus, ‘civitatem’ et pro loco et oppido et pro iure quoque omnium et pro hominum multitudine, ʻtribusʼ quoque et ʻdecuriasʻ dici et pro loco et pro iure et pro hominibus nonché Cic., rep. 6.13.13: nihil est enim illi principi deo qui omnem mundum regit,…acceptius quam concilio coetusque hominum ire sociati quae civitates appellantur, si nota come da un lato tutti i membri della comunità partecipino direttamente alla vita politica, e dall’altro che questa partecipazione si ha tramite un’organizzazione giuridica: quindi la civitas va comunque intesa in un significato in cui prevalga la concretezza. In tal senso G. LOMBARDI, Appunti di diritto pubblico romano, Roma 1940-1941, 102 ss. (l’Autore esamina puntualmente i tre significati esposti da Gellio) e P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, 147 ss.

[16] Ulp. D. 1.1.1.2: Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. I. 1.1.4: Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem pertinet. dicendum est igitur de iure privato, quod tripertitum est; collectum est enim ex naturalibus praeceptis aut gentium aut civilibus. Sul tema, tra i più recenti, F. VALLOCCHIA, Qualche riflessione su publicum-privatum in diritto romano, in RISG 7, 2016, 415-428; P.P. Onida, L’emersione dello ius “publicum”: ‘istituto giuridico’ o ‘concetto politico’? Peculiarità della concezione romana e articolazioni storiche, in Legal Roots. The International Journal of Roman Law, Legal History and Comparative Law 11, 2022, 231-274.

[17] Per una minuziosa ‘ricostruzione’ della disputa romanistica del secolo scorso intorno allo ius prohibendi nella collegialità magistratuale e nel condominio: C. CASCIONE, Consenso, «mezzo consenso», dissenso. Una disputa romanistica di primo Novecento su collegialità e condominio, in Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato. Obbligazioni e diritti reali, Napoli 2003, 39-101

[18]        P. BONFANTE, La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato, in Rivista italiana di sociologia VI, Roma 1902, 3: «Non v’ha forse allora un solo istituto di diritto pubblico, che non ritrovi il suo schietto equivalente in un istituto di diritto privato: termini, concetti, elementi di struttura e di funzione, tutto si riscontra».

[19] Qualche anno prima F. EISELE, Zur Lehre vom Miteigenthum, in AcP LXIII, 1880, 27 ss.: in questo saggio egli si occupò della teoria della comproprietà, rintracciandone l’origine nella situazione di successione ereditaria di più soggetti ad uno solo: in chiusura del lavoro propone un raffronto tra il rapporto dei coeredi e dei contutori con l’imperium indivisibile dei consoli facendo leva sullo ius intercedendi.

[20] P. BONFANTE, La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato, cit., 3.

[21] P. BONFANTE, La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato, cit., 6.

[22] P. BONFANTE, La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato, cit., 6.

[23] M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, Palermo 1989, 477. Per un abbandono di tale principio, verso una “volontà della maggioranza” vd. S. RICCOBONO, Dalla ‘communio’ del diritto quiritario alla comproprietà moderna, in Essays in Legal History, Oxford 1913, 103: «L’autonomia dei singoli nella comunione e nella società fu certamente soppressa nella Compilazione di Giustiniano, in cui, come s’è visto, la considerazione dell’interesse collettivo prende il posto del vantaggio e del volere dei singoli compartecipi».

[24] P. FREZZA, L’istituzione della collegialità in diritto romano, in Studi in onore di Siro Solazzi: nel cinquantesimo anno del suo insegnamento universitario (1899-1948), Napoli 1948, 539. Frezza, se pur in maniera molto concisa, confronta la collegialità con il principio di maggioranza. Egli infatti, dopo aver chiarito quanto remota fosse nel tempo l’origine della collegialità romana, considera il principio di maggioranza (concentrandosi solo sul voto dell’assemblea popolare e senatoria) «almeno tanto antico quanto l’ordinamento repubblicano» (541). Il fatto che la potestà dei magistrati e dei sacerdoti e le potestà di diritto privato analizzate risultino disciplinate indipendentemente dal principio di maggioranza gli consente di concludere che «il regolamento della collegialità era già un ‘corpo giuridico’ (nel significato jheringhiano del termine) prima che il principio di maggioranza fosse praticato in Roma, ossia certamente prima dell'età repubblicana» (541). «Una caratteristica riprova della forza del principio di collegialità nel campo del diritto magistratuale può trovarsi, se non erro, nel rilievo fatto dal Mommsen che solamente di fatto si è affermata, nel funzionamento del tribunato della plebe, la forza del parere concorde della maggior parte dei tribuni» (550). L’osservazione sulla trasformazione funzionale del principio di collegialità in quello di maggioranza, nell'esercizio pratico dell'intercessio tribunicia è in: TH. MOMMSEN, Le droit public romain I, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1892, 326-327.

[25] Per tutti: «Dirò semplicemente che mi sembra che nell’esperienza giuridica romana si possa ravvisare un grado di concretezza maggiore rispetto a quello che si riscontra nella nostra esperienza giuridica attuale» F. GALLO, La concretezza nell'esperienza giuridica romana, in Index 5, 1974-1975, 3. «E vorrei ancora che lasciando da parte gli astrattismi, ci si sforzasse di penetrare sempre più addentro nella sostanza dell’ordinamento giuridico romano e di afferrare le intime e concrete ragioni sociali, economiche, politiche ed anche culturali che hanno provocato il dinamismo, in ogni sua fase creatore, di un diritto che, appunto per questa sua virtù, è divenuto e rimane uno degli elementi fondamentali della civiltà europea. Molti concetti astratti sono, in certo qual modo, miti dei moderni: e lo storico ha il dovere di trattarli alla stregua di quelli, spesso più seducenti e poetici, degli antichi»: così P. DE FRANCISCI, Note critiche intorno all'uso di categorie astratte nella storia del diritto romano, in Studi Volterra 1, Milano 1971, 48.

[26] Si ritiene, infatti, esistano anche conflitti ‘attuali’: si pensi esemplarmente alla intercessio, ove il tribuno, appurata la lesione, e ravvisata dunque la ‘conflittualità’ con gli interessi della pars populi che egli tutela, oppone la sacrosanctitas agli auspicia.

[27] P. BONFANTE, Il «ius prohibendi» nel diritto pubblico e nel diritto privato, in Scritti giuridici vari, Roma 1925, 141: «Il concetto e le parole stesse usate nel tema escludono che l’atto, il quale è oggetto dell'intercessio, sia compiuto, implicano logicamente che si giunga in tempo ad impedire che si compia: prohibere (da pro habere, tenere lontano), il termine tecnico così nel diritto privato come nel diritto pubblico, e quella che sembra la formula sacramentale, veto, significano comandare che non si faccia».

[28] Si è ritenuto che «il console può far tutto sinché l'altro console non intercede; invece il proprietario non può far nulla, se gli altri soci prima non consentano»: S. PEROZZI, Un paragone in materia di comproprietà, in Mélanges P.F. Girard, II, Paris 1912, 355, nonché in S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, Firenze 1906-1908, 475. Tuttavia «se, come il Perozzi sostiene, la regola fosse stata che nessuno dei condomini può fare alcunché se non ha precedentemente ottenuto il positivo espresso consenso di tutti gli altri, non vi sarebbe stato certo il bisogno di riconoscere ad ogni condomino un jus prohibendi. Se fosse stato sufficiente astenersi dal consentire, per togliere ogni valore al fatto del condomino, a nessun giurista avrebbe potuto passare per il capo di dire che ognuno può renderlo nullo proibendo»: G. PACCHIONI, Il jus prohibendi del condomino in due recenti pubblicazioni, in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni X, Padova 1912, 1037.

[29] S. PEROZZI, Un paragone in materia di comproprietà, cit., 373: Nel condominio i Romani crearono «non la ‘possibilità’ di un mero conflitto di ‘voleriʼ ugualmente legittimi scaturenti da poteri paralleli, che è la possibilità inerente alla collegialità, ma il ‘fatto’ di un conflitto di ʻpoteriʼ, tale per cui si verificava, a tenore di legge, una reciproca esclusione dei soci dalla cosa. Questo conflitto recava però in sé la sua possibile soluzione. I soci che come proprietari si escludevano reciprocamente dalla cosa, potevano anche come proprietari reciprocamente concedersi d'intervenire nella cosa. Il consenso di tutti gli altri all’atto dell’uno rendeva legittimo l'atto, che compiuto arbitrariamente sarebbe stato illegittimo. Così, mentre nella collegialità il conflitto nasce dal volere, sta nell’ambito di questo e non può essere tolto che cedendo l’un volere all'altro; nel condominio nasce dal potere ed è tolto dal volere. E dove il volere non lo dirima, non resta che sopprimere colla divisione la causa del conflitto, cioè il potere».

[30] Laddove non esercitato in tempo non si tratterebbe più di veto, ma di cassazione. L’influsso della teoria della “Kassation” di Mommsen (TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, I, 266 ss.), sembra viziare S. PEROZZI, Un paragone in materia di comproprietà, cit., 358: «nessuna necessità di un espresso o presunto consenso del collega perché l'atto del magistrato sia legittimo: questo è tale come voluto arbitrariamente da chi lo compì; il collega può soltanto annullarlo».

[31] P. BONFANTE, Il «ius prohibendi» nel diritto pubblico e nel diritto privato, cit., 136-150: Questo articolo lo si trova appunto nell'opera citata, ed è spogliato rigorosamente di tutte le frasi e le parti polemiche contro Silvio Perozzi, offerto così nella sua sola parte scientifica. Comunque è frutto di due “Postille” (vedi C. CASCIONE, Consenso, «mezzo consenso», dissenso. Una disputa romanistica di primo Novecento su collegialità e condominio, cit., 71, nt. 134) apparse nella Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni: una è nel vol. 10, 1912, I, 1040; l'altra è nel vol. 11, 1913, I, 564 ss. Comunque in questi contributi Bonfante, con l’ausilio di numerosi dati storici e giuridici, critica la tesi della “Kassation” di Mommsen: «Tanto la potestas impediendi, quanto la potestas intercedendi (formule e distinzioni ignote ai Romani), sono emanazioni del ius prohibendi; tanto per l'una, quanto per l'altra si adoperano i termini intercedere, vetare, fieri non pati, e soprattutto prohibere. Il Mommsen stesso riconosce a malincuore che il termine intercedere si usa per gli atti della prima categoria, che non sarebbero di vera intercessione, e viceversa non nega che il termine prohibere sia egualmente usato per quella che Mommsen chiama in senso più ristretto intercessio» (139). E la stessa regola vale per il diritto privato: «è sempre prima del compimento dell'atto che la prohibitio si deve opporre; s’intende, quando è visibile che l'atto si vuol compiere, quando è chiara l’intenzione, ché altrimenti sarebbe spesso vana iattanza e provocazione. Ma dopo il compimento dell’atto è troppo tardi» (143). Bonfante sostiene le sue argomentazioni adducendo ad esempio l'operis novi nuntiatio, l’interdetto quod vi aut clam, la contutela, la cura gerita da più curatori, il veto del proprietario all'usufruttuario.

[32] Così intendo il “mezzo consenso”. «Pacchioni recupera, per così dire, la figura del “mezzo consenso” (espressione che era stata utilizzata da Perozzi), per descrivere l’opzione di Fadda: la non opposizione come accettazione del fatto»: C. CASCIONE, Consenso, «mezzo consenso», dissenso. Una disputa romanistica di primo Novecento su collegialità e condominio, cit., 70-71. Vd. G. PACCHIONI, Il jus prohibendi del condomino in due recenti pubblicazioni, cit.

[33] Vd. ad es. nel titolo di G. ARICÒ ANSELMO, “Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, in AUPA 46, 2000.

[34] H. LÉVY-BRUHL, Nouvelles études sur le très ancien droit romain, Paris 1947, 51 ss.

[35] M. BRETONE, “Consortium” e “communio”, in Labeo 6, 1960, 78.

[36] Vd. recentemente A. SPINA, Ricerche sulla fraternitas: alle origini del contratto di società, Napoli 2022.

[37] D. 17.2.63.pr. Ulp. 31 ad ed.: Verum est quod Sabino videtur, etiamsi non universorum bonorum socii sunt, sed unius rei, attamen in id quod facere possunt quodve dolo malo fecerint quo minus possint, condemnari oportere. hoc enim summam rationem habet, cum societas ius quodammodo fraternitatis in se habeat.

[38] Come noto, la descrizione del consortium ercto non cito ci è offerta nei frammenti gaiani di Antinoe: Gai. 3.154: Item si cius ex sociis bona publice aut privatim venierint, solvitur societas. sed haec quidem societas, de qua loquimur, id est quae nudo consensu contrahitur, iuris gentium est; itaque inter omnes homines naturali ratione consistit. Item si cuius ex sociis bona publice aut privatim venierint, solvitur societas. sed haec quidem societas, de qua loquimur, id est quae nudo consensu contrahitur, iuris gentium est; itaque inter omnes homines naturali ratione consistit. 154a Est autem aliud genus societatis proprium civium Romanorum. olim enim mortuo patre familias, inter suos heredes quaedam erat legitima simul et naturalis societas, quae appellabatur ercto non cito, id est dominio non diviso: erctum enim dominium est, unde erus dominus dicitur: ciere autem dividere est: unde caedere et secare [et dividere] dicimus. 154b Alii quoque qui volebant eandem habere societatem, poterant id consequi apud praetorem certa legis actione. in hac autem societate fratrum suorum ceterorumve, qui ad exemplum fratrum suorum societatem coierint, illud proprium erat, [unus] quod vel unus ex sociis communem servum manumittendo liberum faciebat et omnibus libertum adquirebat: item unus rem communem mancipando eius facebat, qui mancipio accipiebat ... Il testo è trascritto sulla base di quanto ricostruito da E. SECKEL - B. KÜBLER, Gai Institutionum commentarii quattuor, 7ª ed., Lipsiae 1935; per i problemi ricostruttivi del testo si veda V. ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182. Frammenti di Gaio, in Papiri Greci e Latini (Pubblicazioni della Società Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto) XI, 1934, 1-42.

[39] C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, in Studi in onore di Biagio Brugi nel XXX anno del suo insegnamento, Palermo 1910, 148.

[40] E lo ius prohibendi non è l’unico ‘retaggio’ del consortium che appare nella communio, ma il principio della proprietà plurima integrale emerge anche nello ius adcrescendi, unica tecnica che riesce a garantire gli altri comproprietari, prevedendo infatti la vis expansiva della quota di ognuno di questi sulla quota - ‘abbandonata’ da un altro socius (secondo un rapporto di proporzionalità rispetto al diritto già posseduto)- nel caso di derelictio: D. 41.7.3 Mod. 6 diff.: An pars pro derelicto haberi possit, quaeri solet. et quidem si in re communi socius partem suam reliquerit, eius esse desinit, ut hoc sit in parte, quod in toto: atquin totius rei dominus efficere non potest, ut partem retineat, partem pro derelicto habeat. Vedasi: F. DE CILLIS, Del diritto di accrescere secondo la dottrina romana nel Codice Civile Italiano, in AG XXIII, 1879, 110 ss.; P. BONFANTE, Il regime positivo e le costruzioni teoriche del condominio, in Scritti giuridici varii, III, Torino 1921, 454-484; Id., Il ius adcrescendi nel condominio, ibidem, 382-453; G. SEGRÉ, La comproprietà e la comunione degli altri diritti reali, Torino 1931, 66 ss.; R. VACCARO DELOGU, L’accrescimento nel diritto ereditario romano, Milano 1941, 3 ss.; S. LOHSSE, Ius adcrescendi. Die Anwachsung im römische Vermächtnisrecht, Köln 2008, 237 ss. Tant’è che lo ius adcrescendi si pone come mezzo di risoluzione del ‘conflitto’ generato dalla manumissione, ad opera di uno solo dei comproprietari, del servo comune, in pieno accordo anche con il principio della indivisibilità dello status libertatis; nella communio, a differenza di quanto avveniva nel consortium - in cui, senza il concetto di pars pro indiviso la manumissio ad opera di uno solo dei contitolari rendeva di fatto libero lo schiavo - si perviene all’accrescimento delle quote degli altri comproprietari: Epit. Ulp. 1.18: Communem servum unus ex dominis manumittendo partem suam amittit, eaque adcrescit socio; maxime si eo modo manumiserit, quo, si proprium haberet, civem Romanum facturus esset. Nam si inter amicos eum manumiserit, plerisque placet eum nihil egisse. Vedasi M. BRETONE, ‘Servus Communis’. Contributo alla storia della comproprietà in età classica, Napoli 1958, 4 ss.; M. EVANGELISTI, Riflessioni in tema di ius adcrescendi, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze giuridiche e Tradizione romana 10, 2011-2012 (https://www.dirittoestoria.it/10/Tradizione-Romana/Evangelisti-Ius-adcrescendi-communio-coeredita.htm ).

[41] D. 50.16.25.1 Paul. 21 ad ed.: Quintus Mucius ait partis appellatione rem pro indiviso significari: nam quod pro diviso nostrum sit, id non partem, sed totum esse. Servius non ineleganter partis appellatione utrumque significari. Come tecnica di risoluzione del ‘conflitto’ che può sorgere in caso di volontà discordi sulle innovazioni effettuate sulla cosa comune: D. 10.3.28 Pap. 7 quaest.

[42] Secondo S. SolazZI, Glosse a Gaio II, in Studi per il XIV centenario della codificazione giustinianea, Pavia 1934, 448; Id., ‘Tutoris auctoritas e ‘consortium’, in SDHI 12,1946, 34 ss., uno dei fratelli avrebbe di fatto esercitato i poteri sulla cosa - senza distinzione tra atti di gestione della cosa ed atti dispositivi - su designazione concorde di tutti i fratelli; tesi ripercorsa peraltro anche da P. VOCI, Diritto ereditario romano 1. Introduzione, parte generale, II ed., Milano 1967, 64. Vedi sul punto G. ARICÒ ANSELMO, “Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., 159 nt. 26.

[43] La supposta designazione unanime conferma la necessità di un (preventivo) consenso da parte degli altri fratres, espresso secondo lo schema fiduciario. Infatti, commentando anche lo ius prohibendi, B. ALBANESE, La successione ereditaria in diritto romano antico, in AUPA XX, 1949, 60 ss., riconduce tali schemi, in ogni caso, alla impostazione tradizionale su base fiduciaria che permeava gli istituti più antichi, tra cui la coeredità; in tal senso anche V. ARANGIO-RUIZ, PSI. 1182. Frammenti di Gaio, cit., 40 nonché J. GAUDEMET, Les communautés familiales, Paris 1963, 72.

[44] Per le varie tesi sull’oggetto del consortium, rimando a C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 148.

[45] M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano, cit., 475: «era fatta salva a ciascun consorte la possibilità, se fosse intervenuto tempestivamente, di interporre veto». Questa è l’impostazione propria non solo di C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 145, ma anche - tra i numerosi - P. BONFANTE, Il «ius prohibendi» nel diritto pubblico e nel diritto privato, cit., 146 ss.

[46] Forse la distinzione operata da S. PEROZZI, Un paragone in materia di comproprietà, cit., 384, tra atti di «disposizione materiale della cosa e atti di disposizione giuridica di essa», può destare confusione, laddove egli sembra più che altro concentrarsi sugli atti ‘innovativi’ che se pur tengano fermo il dominio, lo modificano nel suo oggetto. Cfr. D. 8.2.27.1 Pomp. 33 ad Sab.: Si in area communi aedificare velis, socius prohibendi ius habet, quamvis tu aedificandi ius habeas a vicino concessum, quia invito socio in iure communi non habeas ius aedificandi. Ed infatti, C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 146, riferendosi al frammento di Papiniano in D. 10.3.28, precisa: «Come non si deve credere che la espressione ‘quicquam facere’ possa impedire l’azione del singolo qualunque essa sia, trattandosi invece delle sole innovazioni, ‘opus facere’, così è sicuro che coll’astensione del divieto non resta convalidato un atto qualunque del condomino».

[47] Mi limito qui a ricordare che proprio sulla base di questi ragionamenti sussiste una differenza nel diritto pubblico tra lo ius prohibendi tra i magistrati, e la tribunicia intercessio, che, basantesi su un potere diverso (la sacrosanctitas) rispetto agli auspicia, può ‘fermare’ un atto già prodotto. TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, I, cit., 266 ss.; e, per tutti: G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 87; Id., Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996, 342-343.

[48] C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 144, portando a suffragio della tesi proprio D. 10.3.28 Pap. 7 quaest.

[49] Vd. recentemente M. BEGHINI, La divisione giudiziale tra officium iudicis e volontà dei litiganti, Napoli 2022.

[50] Ma prima quando? Mi si consenta di trascrivere l’immagine, tanto divertente quanto emblematica, di P. BONFANTE, ult. op. cit., 146: «L’intenzione che abbia alcuno, ad esempio, di bastonare è forse chiara soltanto allorché costui ha cominciato la bastonatura? Ora è eccessivo, e può essere vilmente comico, proibire l’atto a chi è soltanto munito di bastone; sarà talora prudente farlo (dato per ipotesi che la proibizione basti) quando egli alzi il bastone, specialmente se altri indizi non lascino dubbi sull’intenzione: sarà opportuno che la prohibitio (e possibilmente la coercitio) intervenga dopo che il bastonatore ha dato il primo colpo, e sarà utile in qualunque momento successivo. A bastonatura compiuta, quando l’avversario è sul terreno, e il bastonatore, sazio, si allontana, si può ben protestare, ma è troppo tardi per proibire».

[51] Cic., leg. 3.3.10: Omnes magistratus auspicium iudiciumque habento, exque is senatus esto. Eius decreta rata sunto. At potestas par maiorve prohibessit, perscripta servanto.

[52] Cic., leg. 3.4.11: Vis in populo abesto. Par maiorve potestas plus valeto. Ast quid turbassitur in agendo, fraus actoris esto. Intercessor rei malae salutaris civis esto. Cicerone fa comprendere come lo ius prohibendi sia avvertito come uno strumento di garanzia per la res publica, e la sua assenza ne conferma, sotto una prospettiva rovesciata, l’importanza: Liv. 2.18.8: Creato dictatore primum Romae, postquam praeferri secures viderunt, magnus plebem metus incessit, ut intentiores essent ad dicto parendum; neque enim ut in consulibus qui pari potestate essent, alterius auxilium neque provocatio erat neque ullum usquam nisi in cura parendi auxilium.

[53] Nella fonte appare ‘intercessor’, tuttavia ci si riferisce ai magistrati. Per quanto attiene ai problemi terminologici tra intercessio e ius prohibendi, rimando ancora a G. LOBRANO, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 87.

[54] Vedasi F. SALERNO, ‘Tacita libertas’. L’introduzione del voto segreto nella Roma repubblicana, Napoli 1999, 9 ss.

[55] Vd. C. MASI DORIA, Spretum imperium: prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, Napoli 2000, 218 ss. per l’utilizzo del sistema del turno nell’imperium domi.

[56] Vd. W. KUNKEL - R. WITTMANN, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik II. Die Magistratur, hrsg. u. fortgef. von H. Galsterer, Ch. Meier, R. Wittmann, München 1995, 276 ss.

[57] C. MASI DORIA, Spretum imperium: prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, cit., 219-220. A dimostrazione adduce Liv. 3.34.8; 3.35.6.

[58] Liv. 4.46.3: contemnere in vicem et contemni, donec castigantibus legatis tandem ita comparatum est ut alternis diebus summam imperii haberent; 22.41.2: Ceterum victoribus effuse sequentibus metu insidiarum obstitit Paulus consul, cuius eo die, am alternis imperitabant, imperium erat, Varrone indignante ac vociferante emissum hostem e manibus debellarique ni cessatum foret potuisse. C. MASI DORIA, Spretum imperium: prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, cit., 220-221: «Se il comando militare poteva essere esercitato in comune dai due consoli quando gli eserciti erano due ed operavano in luoghi geograficamente distanti, nella prassi ciascuno dei magistrati supremi partecipava all’esercizio del potere secondo decisioni che mostrano accordi e convenienze politico-militari. Anche nell’ambito militare fu praticato il turnus, ma l’alternarsi del potere, invece che mensile, fu giornaliero». Liv. 3.70.1: In exercitu Romano cum duo consules essent potestate pari, quod saluberrimum in administratione magnarum rerum est, summa imperii concedente Agrippa penes collegam erat; et praelatus ille facilitati submittentis se comiter respondebat communicando consilia laudesque et aequando imparem sibi; Cic., Att. 8.15.3: quod videris non dubitare, si consules transeant, quid nos facere oporteat, certe transeunt vel, quo modo nunc est, transierunt. sed memento praeter Appium neminem esse fere qui non ius habeat transeundi. nam aut cum imperio sunt ut Pompeius, ut Scipio, Sufenas, Fannius, Voconius, Sestius, ipsi consules quibus more maiorum concessum est vel omnis adire provincias, aut legati sunt eorum.

[59] Si veda, esemplarmente: M. BERTRAND, À propos du mot provincia: Étude sur les modes d'élaboration du langage politique, in Journal des Savants 1989, 191 ss.; nonché P. FRACCARO, La storia dell’antichissimo esercito romano e l’età dell’ordinamento centuriato, in Atti del II Congresso Nazionale di Studi Romani III, Roma 1931, 91 ss.

[60] C. MASI DORIA, Spretum imperium: prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, cit., 222.

[61] Liv. 41.18.5-8.

[62] Chi abbia tratto gli auspicia oltre a prevalere concretamente sull’altro, viene poi considerato anche il solo fautore del successo, e ad egli spetta poi il trionfo: si veda A. PETRUCCI, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, 63 ss. Si ricordi poi (Liv. 2.48.5) come non sia ammessa l’intercessio in battaglia e la naturale possibilità per un console di correre in soccorso dell’altro: sul tema vedasi E. De Ruggiero, Il consolato e i poteri pubblici in Roma, Roma 1900, 695, 758.

[63] C. MASI DORIA, Spretum imperium: prassi costituzionale e momenti di crisi nei rapporti tra magistrati nella media e tarda repubblica, cit., 223: «Mezzo normale (domi e militiae) di divisione era la sors».

[64] Sul tema, vd. G. VALDITARA, Il dictator tra emergenza e libertà, Torino 2021. La mancanza dell’accordo tra i colleghi viene infatti risolta con il sorteggio (Liv. 4.26.11: Sors ut dictatorem diceret—nam ne id quidem inter collegas convenerat—T. Quinctio evenit).

[65] Liv. 35.6.1-4: Eodem fere tempore duorum consulum litterae allatae sunt, L. Corneli de proelio ad Mutinam cum Bois facto et Q. Minuci a Pisis: comitia suae sortis esse

[66] Liv. 24.10.1-2: Quo die magistratum inierunt consules, senatus in Capitolio est habitus decretumque omnium primum ut consules sortirentur compararentue inter se uter censoribus creandis comitia haberet priusquam ad exercitum proficisceretur.

[67] Liv. 2.8.6: Nondum dedicata erat in Capitolio Iovis aedes; Valerius Horatiusque consules sortiti uter dedicaret. Horatio sorte evenit: Publicola ad Veientium bellum profectus. Aegrius quam dignum erat tulere Valeri necessarii dedicationem tam incliti templi Horatio dari. Id omnibus modis impedire conati, postquam alia frustra temptata erant, postem iam tenenti consuli foedum inter precationem deum nuntium incutiunt, mortuum eius filium esse, funestaque familia dedicare eum templum non posse. Non crediderit factum an tantum animo roboris fuerit, nec traditur certum nec interpretatio est facilis. Nihil aliud ad eum nuntium a proposito aversus quam ut cadaver efferri iuberet, tenens postem precationem peragit et dedicat templum. Vd., anche per una recente bibliografia: F. CAVALLERO, Ius publicum dedicandi (e consecrandi): il diritto di dedica a Roma, in MEFRA 130.1, 2018, 219-249.

[68] Varro, ling. 6.86–87: Ubi noctu in templum censor auspicaverit atque de caelo nuntium erit, praeconi sic imperato ut viros vocet: Quod bonum fortunatum felix salutareque siet populo Romano Quiritibus reique publicae populi Romani Quiritium mihique collegaeque meo, fidei magistratuique nostro: omnes Quirites pedites armatos, privatosque, curatores omnium tribuum, si quis pro se sive pro altero rationem dari volet, voca inlicium huc ad me. 87 Praeco in templo primum vocat, postea de moeris item vocat. Ubi lucet, censor scribae magistratus murra unguentisque unguentur. Ubi praetores tribunique plebei quique inlicium vocati sunt venerunt, censores inter se sortiuntur, uter lustrum faciat. Ubi templum factum est, post tum conventionem habet qui lustrum conditurus est.

[69] G. ARICÒ ANSELMO, Antiche regole procedurali e nuove prospettive per la storia dei comitia, Torino 2012, 74 nt. 168. Nella complessa procedura descritta da Varrone, articolata peraltro in diversi momenti che addirittura richiedono una duplicità dei templa, ove nel primo il censore trae gli auspici di investitura e nel secondo quelli relativi all’assemblea (TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, I, cit., 81 nt. 2., 101), è evidente che si pone un problema per la prima auspicatio, nella misura in cui questa, essendo precedente alla sortitio successiva, non può avere come scopo l’attribuzione di imperium militiae, che deriva appunto dall’auspicazione successiva da parte del censore sorteggiato. E allora, se la prima auspicazione è funzionale all’ordine di vocare inlicium, ci si chiede a chi spetti tra i due censori questo compito, parlando Varrone al singolare, tranne per il momento del sorteggio, che appare l’unico momento in cui v’è la partecipazione di entrambi i censori. Si ricordi contra la ipotesi di H. BERVE, v. ‘Lustrum’, in Realencyclopädie der classichen Altertumswissenschaft, XIII.2, Stuttgart 1927, 2046, secondo la quale i censori si accordano sin dall’inizio per stabilire a chi spetti tra i due il compito di condurre la cerimonia. Vd. altresì B. ALBANESE, Brevi studi di diritto romano, II/3. Sui frammenti di censoriae tabulae in Varr., de l. Lat.6, 86–87, in AUPA 43, 1995 = Scritti giuridici, III, 2006, 313 ss.

[70] Così S. PEROZZI, Un paragone in materia di comproprietà, in Mélanges P.F. Girard, II, cit., 355; vd. anche C. CASCIONE, Consenso, «mezzo consenso», dissenso. Una disputa romanistica di primo Novecento su collegialità e condominio, cit., 47 nt. 38.

[71] S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentela, in BIDR XXXI, 1929, 119 nt. 4

[72] Sul carattere divinatorio della sortitio: A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, I, Paris 1879; I.M.J. VALETON, De templis Romanis, in Mnemosyne XXIII, 1895, 42 ss.; P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale. I, cit., 254, 278 ss.; L.R. TAYLOR, Roman voting assemblies: from the Hannibalic war to the dictatorship of Caesar, Michigan 1966, 70 ss.; J. LINDERSKI, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 16.3, Berlin - New York 1986, 2173 ss.; ID., The Auspices and the Struggle of the Orders, in ID., Roman Questions, Stuttgart 1995, 560 ss.; F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 97-101; contra: A. BRELICH, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma 1955, 15 ss.; N. ROSENSTEIN, Sorting Out the Lot in Republican Rome, in AIP 116, 1995, 43 ss.

[73] A. ERNOUT- A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, 4ª ed., Paris 1959, 1126, s.v. ‘sors’. Vd. F. BIVILLE, Sors, sortiri, sortitio. Pratiques et lexique du tirage au sort dans le monde romain, in L. LOPEZ-RABATEL - Y. SINTOMER (dir.), Tirage au sort et démocratie. Pratiques, instruments, démocratie, Participations, 2019/HS, 144.

[74] Cic., Verr. 2.4.142: Mos est Syracusis ut, si qua de re ad senatum referant, dicat sententiam qui velit; nominatim nemo rogatur, et tamen, ut quisque aetate et honore antecedit ita primus solet sua sponte dicere, itaque a ceteris ei conceditur; sin aliquando tacent omnes, tunc sortito coguntur dicere.

[75] Cic., Verr. 1.37: sortis necessitudinem religionemque violatam?

[76] Vd. G. LIEBERG, Considerazioni sull'etimologia e sul significato di "religio", in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica, 102, 1974, 34-57. Per l’interpretazione, anche laddove la connessione fosse con legere (Cic., nat. deor. 2.28, in un certo senso avvalorata da Masurio Sabino in Gell. 4.9 per ‘homo religiosus’), il verdetto deve comunque essere ‘ripercorso’, ‘osservato’. A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, cit., 569, s.v. ‘religio’, circa le due interpretazioni afferma «pas de certitude».

[77] Cic., Phi. 3.24: Praeclara tamen senatus consulta illo ipso die vespertina, provinciarum religiosa sortitio, divina vero oportunitas, ut, quae cuique apta esset, ea cuique obveniret!; Verr. 2.1.38: Etenim si haec perturbare omnia ac permiscere volumus, totam vitam periculosam, invidiosam, infestamque reddemus — si nullam religionem sors habebit, nullam societatem coniunctio secundae dubiaeque fortunae, nullam auctoritatem mores atque instituta maiorum.

[78] Vd. M. EVANGELISTI, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 6, 2008 (https://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Evangelisti-Consortium-erctum-citum-compropriet-arcaica.htm ) . Si vd., inoltre, Fest., s.v. ‘Erctum citumque’, p. 72 L.: Erctum citumque fit inter consortes, ut in libris legum Romanorum legitur. Erctum a coercendo dictum. Unde et erciscendae et ercisci. Citum autem est vocatum a ciendo.

[79] Vd. supra, nt. 37.

[80] Gell. 1.9.12: Sed id quoque nonpraetereundum est, quod omnes simul atque a Pythagora incohortem illam disciplinarum recepti erant, quod quisque familiaepecuniae habebat, in medium dabat, et coibatur societas inseparabilis, tamquam illud fuit anticum consortium quod iureatque verbo Romano appellabatur ercto non cito.

[81] A. BISCARDI, La genesi della nozione di comproprietà, in Labeo I, 1955, 163.

[82] G. ARICÒ ANSELMO, “Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., 158: «Il testo ha dato, comprensibilmente, parecchio filo da torcere ai sostenitori della congenita ‘separabilità’ dell’antichissima comunione fraterna»; dinanzi a questo richiamo da parte di Gellio all’inseparabilitas i sostenitori della tesi avversa hanno tentato di oscurare questo scomodissimo ostacolo «anche a costo di negare l’evidenza». Queste ultime parole sono proprie di uno stesso sostenitore della divisibilità del consorzio, che infatti non lesina critiche al passo gelliano: S. TONDO, Il consorzio domestico nella Roma antica, in Atti e Memorie della Accademia La Colombaria 40, 1975, 207. Anche S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentela, cit., a 119, si esprime così: «Ci impaccia un po’ un unico testo di Gellio».

[83] C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 149.

[84] D. 10.2.1.pr. Gai. 7 ad ed. provinc.: Haec actio proficiscitur e lege duodecim tabularum: namque coheredibus volentibus a communione discedere necessarium videbatur aliquam actionem constitui, qua inter eos res hereditariae distribuerentur.

[85] Sulla disputa circa l’introduzione dell’actio familiae erciscundae e la sola introduzione di un modus agendi per l’esercizio di tale azione, rimando, anche per ricostruzioni bibliografiche, a G. ARICÒ ANSELMO, Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., 156 ss.

[86] C. FADDA, Consortium, collegia, magistratuum, communio, cit., 149.

[87] G. ARICÒ ANSELMO, Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., 168, la quale a 172 si concentra anche sulla possibilità, data l’appartenenza plurima ed integrale a ciascuno dei fratres, di una ‘rottura’ del consortium per testamento di uno solo dei fratelli: «La sua insuperabile indissolubilità ne faceva una sorta di gabbia da cui i consortes uscivano solo o per morte o per dispotica estromissione da parte del frater più forte, il quale signore al pari degli altri dell’intero patrimonio, ne avesse, sopraffacendo gli altri, disposto integralmente con il proprio testamento».

[88] A. BISCARDI, La genesi della nozione di comproprietà, cit., 163.

[89] S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentela, cit., 121.

[90] Per una bibliografia circa i sostenitori della divisibilità del consortium ercto non cito rimando a G. ARICÒ ANSELMO, Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., 154 nt. 8.

[91] G. ARICÒ ANSELMO, Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., la prima citazione è a 176, la seconda nella 175.

[92] S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentela, cit., 119, nt. 4: «sors accenna alla estrazione a sorte delle parti reali, quando si veniva alla divisione». Vd. G. ARICÒ ANSELMO, Societas inseparabilis” o dell’indissolubilità dell’antico consorzio fraterno, cit., la prima citazione è a 176, nt. 82.

[93] Si consideri, sempre in questo senso, Liv. 1.34: Nomina his Lucumo atque Arruns fuerunt. Lucumo superfuit patri bonorum omnium heres: Arruns prior quam pater moritur uxore gravida relicta. Nec diu manet superstes filio pater; qui cum, ignorans nurum ventrem ferre, immemor in testando nepotis decessisset, puero post avi mortem in nullam sortem bonorum nato ab inopia Egerio inditum nomen.

[94] C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità nel consortium nel diritto romano antico, Milano 1935, 33.

[95] C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità nel consortium nel diritto romano antico, cit., 36. «Riguardo a disertiones tre teorie fondamentali esistono: a) disertiones ~ * dis-artus; b) disertiones ~* dis-(h)erctum; c) disertiones ~ *dis-sortio»; a 38: «è più probabile l’etimologia da *dis-sertio (sors) se si ammette la glossa dissertiones. Invece che a una semplificazione fonetica di -ss- si potrebbe pensare a un dis‹s›ertiones originale che si sia mutato in disertiones per errore del copista». L’ipotesi della derivazione etimologica accolta è stata ipotizzata da E.W. FAY, άίμων and imago, in Indogermanische Forschungen 26, 1909, 39 nt. 1: «It is precisely the isolated word that yields the safest results for phonetics, as e.g. disertus; also notes disertiones divisiones…(Festus, p. 51),which I derive from dis-sortio».

[96] M. EVANGELISTI, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, cit.: «In sintesi, sors come ‘bene’, o ‘cespite’, o ‘patrimonio’, che, come è il caso dell’eredità’, può giungere per attribuzione del fato. In tal senso, anche il termine ‘consortium’ potrebbe connotarsi di un’accezione non lontana da ‘patrimonio comune toccato in sorte’».

[97] C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità nel consortium nel diritto romano antico, cit., 46.

[98] S. PEROZZI, Parentela e gruppo parentela, cit., 119: «Le parti reali, che si estraevano a sorte, presupponevano le parti ideali. Perciò l’antichissima actio familiae erciscundae serve sempre a convertire in reali le parti ideali e non serve mai a stabilire le parti ideali. Queste preesistono ad essa».

[99] Per il passo, ritenuto corrotto, mi affido all’edizione accolta in Varron, La langue latine. Livre VI. Texte établi, traduit et commenté par P. FLOBERT, Paris, Les Belles Lettres, 1985, 32. Vd. a tal proposito C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità nel consortium nel diritto romano antico, cit., 27, nt. 4.

[100] P. COLLINET, Les nouveaux fragments des Institutes de Gaius (PSI 1182), in RH 4, 1934, 102 ss.; C.A. MASCHI, Disertiones. Ricerche intorno alla divisibilità nel consortium nel diritto romano antico, cit., 27; D. D’OTTAVIO, Riflessioni a margine di plaut., rud. 973: nec manu adseruntur neque illinc partem quisquam postulat, in Iura and legal system 6 (4), 2019, 73.

[101] M. EVANGELISTI, Consortium, erctum citum: etimi antichi e riflessioni sulla comproprietà arcaica, cit., ove si ricorda la critica mossa a Collinet (vd. nota precedente) da V. ARANGIO-RUIZ, Il nuovo Gaio. Discussioni e revisioni, in BIDR 42, 1934 [1935], 598 ss. Potrebbe però riguardare la costituzione del consortium tra estranei, mediante certa legis actio di cui ci parla Gaio nel frammento restituito e sopra riportato. A tal proposito vd. R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, in AUPA XXX, 1967, 289-290, nt. 6.

[102] Vd. R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, cit., 324-327.

[103] Vd. V. SPINAZZOLA, Dell’etimologia di augur e degli Auguri nei Municipii, in Atti della R. Accademia di archeologia, lettere e belle arti di Napoli 16, II, 1891-1893; A. ERNOUT, Augur, augustus, in MSL 22, 1921, 234-238; P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 22 ss.

[104] Per la connessione di augurium ad augere: Ovid., Fast. I.609-610: sancta vocant augusta patres, augusta vocantur / templa sacerdotum rite dicata manu: / huius et augurium dependet origine verbi / et quodcumque sua Iuppiter auget ope; Svet., Aug. 7: quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam incluta condita Roma est. Vd., su tale rapporto: R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, cit., 227-228, in particolare nt. 4.

[105] Anche il Thesaurus linguae Latinae, II, s.v. ‘auctor’, 1196, allude proprio a un utilizzo ‘tecnico’ di auctor nella fonte di Varrone: «in usu sacerdotum? […] ex verbis augurum?».

[106] Cic., leg. 2.12.31: Maximum autem et praestantissimum in re publica ius est augurum cum auctoritate coniunctum, neque vero hoc quia sum ipse augur ita sentio, sed quia sic existimari nos est necesse.

[107] A. MAGDELAIN, Essai sur les origines de la sponsio, Paris 1943, 19 ss. chiarisce infatti che auctor è colui che autorizza e non chi agisce.

[108] D. 26.1.1 pr. Paul. 38 ad ed.: Tutela est, ut Servius definit, vis ac potestas in capite libero ad tuendum eum, qui propter aetatem sua sponte se defendere nequit, iure civili data ac permissa.

[109] G. LOBRANO – P.P. ONIDA, Rappresentanza o/e partecipazione. Formazione della volontà «per» o/e «per mezzo di» altri. Nei rapporti individuali e collettivi, di diritto privato e pubblico, romano e positivo, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 14, 2016 (https://www.dirittoestoria.it/14/contributi/Lobrano-Onida-Rappresentanza-o-e-partecipazione.htm ): «La tutela-curatela non può, invece, assolutamente trovare collocazione nella logica antica dell’‘iter volitivo mediante intermediari’, la quale ha il proprio protagonista in quell’attore puntualmente definito dominus e, comunque, caratterizzato dalla titolarità del potere. Nel rapporto di tutela, infatti, il potere è in capo al tutore».

[110] R. SANTORO, Manu(m) conserere, in AUPA 32, 1971, 526 ss.

[111] R. SANTORO, Manu(m) conserere, cit., 528.

[112] Serv., Aen 12.120: VERBENA TEMPORA VINCTI verbena proprie est herba sacra, [Schol. Dan.] ros marinus, ut multi volunt, id est λιβανωτς †sicutagonis, [Serv.] sumpta de loco sacro Capitolii, qua coronabantur fetiales et pater patratus, foedera facturi vel bella indicturi. abusive tamen iam verbenas vocamus omnes frondes sacratas, ut est laurus, oliva vel myrtus… D. 1.8.8.pr.-1 Marcian. 4 reg.: Sanctum est, quod ab iniuria hominum defensum atque munitum est. 1. Sanctum autem dictum est a sagminibus: sunt autem sagmina quaedam herbae, quas legati populi Romani ferre solent, ne quis eos violaret, sicut legati Graecorum ferunt ea quae vocantur Cerycia. Vd. altresì Fest., s.v. ‘Sagmina’, pp. 424, 426 L., infra riportato in nt. 114.

[113] Si ricordi quanto pronunciato da Cicerone circa i rituali di consacrazione rivolgendosi ai pontefici, in cui viene evidenziata la necessità, oltre alle formule da pronunciare o suggerire, anche di oggetti da toccare e stringere. Cic., dom. 139: Quae sunt adhuc a me de iure dedicandi disputata, non sunt quaesita ex occulto aliquo genere litterarum, sed sumpta de medio, ex rebus palam per magistratus actis ad conlegiumque delatis, ex senatus consulto, ex lege. Illa interiora iam vestra sunt, quid dici, quid praeiri, quid tangi, quid teneri ius fuerit. Vd. F. Sini, Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una palingenesi, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 4, 2005 (https://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm ). Circa l’espletamento dei procedimenti rituali sulla base di testi scritti custoditi negli archivi sacerdotali: G. APPEL, De Romanorum precationibus, in Giessen 1909 [rist. an. New York 1975], 206; G. ROHDE, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, 64 ss.

[114] R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, cit., 497.

[115] La relazione tra auctoritas ed erbe proposta da Santoro (vd. nt. precedente), troverebbe sostegno nell’apertura del passo di Plinio: così G. TURELLI, "Audi Iuppiter": il collegio dei feziali nell'esperienza giuridica romana, Milano 2011, 72 nt. 131. R. SANTORO, Potere e azione nell'antico diritto romano, cit., 495-496.

[116] Fest., s.v. ‘Sagmina’, pp. 424, 426 L.: Sagmina vocantur verbena, id est, herba puræ, quia ex loco sacro arcebantur a consule, prætoreve, legatis proficiscentibus ad fœdus faciendum, bellumque indicendum; vel a saciendo, id est confirmando.

[117] Æ. FORCELLINUS, Lexicon totius latinitatis, IV, 1965 (ed. an.), s.v. ‘sagmen’, 13: «Quod ait in remediis publicis; intellige in expiationibus, & lufrationibus». Nel Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, V, s.v. ‘remedium’, 78, viene inteso anche in senso traslato come «remedium iuris = auxilium, beneficium: remedium praetoris». Vd. D. 25.4.1.3 Ulp. 24 ad ed.; D. 29.2.69 Ulp. 60 ad ed.

[118] Si ricordi il primo attestato da Liv. 5.3.6: Duumviri sacris faciundis, lectisternio tunc primum in urbe Romana facto, per dies octo Apollinem Latonamque et Dianam, Herculem, Mercurium atque Neptunum tribus quam amplissime tum apparari poterat stratis lectis placavere.

[119] Vd. C. SANTI, Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, Roma 2008, 27, 50-51. Liv. 22.10.9: Tum lectisternium per triduum habitum decemviris sacrorum curantibus

[120] Liv. 7.2.2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit. Vd. F. SINI, Diritto e ‘pax deorum’ in Roma antica, in Diritto@Storia 5, 2006; Id., ‘Pax deorum’ e sistema giuridico-religioso romano, in ‘Fides Humanitas Ius’. Studii in onore di L. Labruna VII, Napoli 2007.

[121] Fest., s.v. ‘capita deorum’, p. 56 L.: Capita deorum appellabantur fasciculi facti ex verbenis; s.v. ‘struppi’, p. 473 L.: Struppi vocantur in pulvinaribus <fasciculi de verbenis facti qui pro de>orum capitibus ponuntur.

[122] Symmach., Epist. 10.35 = Relat. 15.1: Ab exortu paene Urbis Martiae strenarum usus adolevit auctore Tatio rege qui, verbenas felicis arboris ex luco Streniae anni novi auspices primus accepit; ciò, in connessione con il lectisternium, troverebbe altra conferma in Serv. Dan., in Aen. 2.225: Masurius Sabinus: delubrum, efigies, a delibratione corticis: nam antiqui felicium arborum ramos cortice detractos in efigies deorum formabant. Si ricordi l’elenco di Veranio, non tassativo, in Macr., Sat. 3.20.2: Sciendum quod ficus alba ex felicibus sit arboribus, contra nigra ex infelicibus. Docent nos utrumque pontifices. Ait enim Veranius de verbis pontificalibus: “Felices arbores putantur esse quercus, aesculus, ilex, suberies, fagus, corylus, sorbus, ficus alba, pirus, malus, vitis, prunus, cornus, lotus. In tal proposito, vd. R. DEL PONTE, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio Flacco: problemi lessicografici, Comunicazione presentata nel XXV Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca. Persona. Città. Impero universale» (Campidoglio, 21-23 aprile 2005) [pubblicata con lo stesso titolo in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 4, 2005 (https://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Del-Ponte-Documenti-sacerdotali-Veranio-Granio-Flacco.htm ).

[123] A. PIGANIOL, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, IX, 736.

[124] Cic., Verr. 2.4.5: Venit enim mihi fani, loci, religionis illius in mentem; versantur ante oculos omnia, dies ille quo, cum ego Hennam venissem, praesto mihi sacerdotes Cereris cum infulis ac verbenis fuerunt, contio conventusque civium, in quo ego cum loquerer tanti gemitus fletusque fiebant ut acerbissimus tota urbe luctus versari videretu.

[125] A. BOUCHÉ-LECLERCQ, s.v. ‘lustratio’, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, III/2, 1407.

[126] P. DE FRANCISCI, Primordia civitas, Roma 1959, 235.

[127] Liv. 1.24.6: Fetialis erat M. Valerius; is patrem patratum Sp. Fusium fecit, verbena caput capillosque tangens.

[128] Vd. A. MAGDELAIN, Essai sur les origines de la sponsio, cit., 20 ss.

[129] Vd. L. DAL RI, Ius fetiale: as origens do direito internacional no universalismo romano, Ijuí 2011, 215 ss.; G. TURELLI, "Audi Iuppiter": il collegio dei feziali nell'esperienza giuridica romana, cit., 70 ss.

[130] D. SABBATUCCI, Lo Stato come conquista culturale, Roma 1975, 141: «Dove, invece, la funzione rituale “cosifica”, ossia trasforma in cose le persone, come avviene nel rito feziale, il ritorno alla normalità quotidiana restituisce alla “cosa” la sua capacità di volere e di agire, e dunque il rito non lascia conseguenze…Il pater patratus non sarà più tale, quando avrà portato a termine il suo compito, ma da “cosa” tornerà ad essere persona. Importante è che resti “cosa” fino alla fine della sua ambasceria, la quale, perciò, perdurando nel suo corso la finzione rituale che fa dell’uomo una “cosa”, deve essere considerata il prolungamento del rito che comincia con le richieste del verbenarius e con il toccamento mediante verbena».

[131] Liv. 1.24.4: Fetialis regem Tullum ita rogavit: "Iubesne me, rex, cum patre patrato populi Albani foedus ferire?" Iubente rege, "Sagmina" inquit "te, rex, posco." Rex ait: "Pura tollito.". Si ricordi però che in Fest., s.v. ‘Sagmina’, pp. 424, 426 L., sopra riportato, sembrerebbe colta (anche) da magistrati, per poi essere consegnata ai sacerdoti. Vd. G. TURELLI, "Audi Iuppiter": il collegio dei feziali nell'esperienza giuridica romana, cit., 73 nt. 75.

[132] P. DE FRANCISCI, Primordia civitas, cit., 227: «Questo ricordo della terra non si collega semplicemente ad una rappresentazione simbolica della terra natìa, ma alla convinzione che il contatto con la terra, e specialmente con quella più sacra della città, dà energia e potenza». Per le altre interpretazioni, vd. anche D. SABBATUCCI, Lo Stato come conquista culturale, cit., 131.

[133] Liv. 1.24.5: Fetialis ex arce graminis herbam puram attulit; 30.43.9: herbae id genus ex arce sumptum fetialibus dari solet; Serv., Aen. 12.120.: verbena proprie est herba sacra sumpta de loco sacro Capitolii. A. PIGANIOL, in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, IX, 736. Sull’arx era posto infatti l’auguraculum (Fest., s.v. ‘auguraculum’, p. 17 L.: appellabant antiqui, quam nos arcem dicimus, quod ibi augures publice auspicarentur): vd. H. JORDAN, Topographie der Stadt Rom im Alterthum, I, 2ª ed., (ed. an.) Roma 1970, 104-105: «Das auguraculum nun ist als ein freier Platz zu denken, auf welchem nach sonst bezeugtem Brauch die Beamten und ihre sachverständigen Helfer, die augures, oder diese allein in einem Zelt oder einer Hütte Platz nahmen, um ihre Beobachtungen anzustellen. Nichts anderes als eben dieses Beobachtungshäuschen ist die ‘mit den Opfergräsern gedeckte Hütte auf der Burg’ gewesen, welche, stetig erhalten, in dieser ihre an di Hütte des Hirten erinnerden Austattung, späteren Geschlechtern für ein Denkmal aus der Urzeit Roma galt. Der freie Platz, auf dem die Hütte stand, scheint ein Grassplatz gewesen zu sein: eben jene ‘Opfergräser’ (verbenae) bildeten ihn».

[134] M.H. CRAWFORD, Roman Republican Coinage, II, Cambridge 1974, Indices, 860. G. GOETZ, Corpus glossariorum Latinorum, II, Lipsiae 1888, 404 n. 22: “Περιρανυτηρ: **spargine”; Thesaurus linguae Latinae, II, s.v. ‘aspergo vel aspargo vel aspargen’, a r. 31, 817: “Gloss. II, 404, 22 περιρανυτηρ<ί> : <a>spargine (quod olim legebatur περιρανυτήριον) aspergillum”. Anche nelle enciclopedie è attestata questa riconduzione: P. HABEL, s.v. ‘aspergillum’, in PWRE, II/2, 1725. Nel Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, per “aspergillum, aspersio” (I, 473) si rimanda ad A. BOUCHÉ-LECLERCQ, s.v. ‘lustratio’, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines, cit., 1408, proprio in connessione con quel “rameau d’arbre” sopra citato per le operazioni di lustrazione.

[135] RRC 372; 443; 467; 489; 492; 532; 537; 538.

[136] Come datazione questi denari sono tutti ricompresi tra il 46 e il 37 a.C.; sono emessi i primi due, in ordine, da Giulio Cesare e Marco Antonio, mentre i restanti due da Ottaviano.

[137] I.A. CARRADICE – T.V. BUTTREY, The Roman Imperial Coinage. Volume II, part 1., II ed., From AD 69 – 96. Vespasian to Domitian, London 2007.

[138] La prima è un aureo emesso da Silla tra l’84 e l’83 a.C.; gli altri due denari, sono datati all’81 a.C. e al 47-46 a.C.

[139] Cic., div. 1.130: Quid? Lituus iste vester, quod clarissumum est insigne auguratus, unde vobis est traditus?

[140] Questo il termine utilizzato in Liv. 41.18.7-8. Vd. F. BIVILLE, Sors, sortiri, sortitio. Pratiques et lexique du tirage au sort dans le monde romain, cit., 148: «Dans cet inventaire des mots du tirage au sort dérivés du terme de base sors, on note un grand absent, celui de l’urne, alors que le grec associe κληρωτήριον [klêrôtêrion] à κλρος [klêros] … Sinon, tout type de récipient un peu profond peut faire l’affaire: “le vase (uas) dans lequel se trouvaient les sorts (sortes)” (Cicéron, De la divination, 1, 34), et les différents noms de l’urne attestés en latin appartiennent au paradigme des récipients à eau. Outre urna, on trouve sitella, “seau” : “apporte le seau (sitellam) avec l’eau et les sorts (sortis)” (Plaute, Casina, v. 296)». Vd. anche J. BOTHOREL, Le tirage au sort civique dans la Rome républicaine et impériale: matériels et techniques, in L. LOPEZ-RABATEL - Y. SINTOMER (dir.), Tirage au sort et démocratie. Pratiques, instruments, démocratie, Participations, 2019/HS, 160-162.

[141] L.R. TAYLOR, Roman voting assemblies: from the Hannibalic war to the dictatorship of Caesar, Ann Arbor 1966, 74; vd. a commento: B.W. FRIER, Augural symbolism in Sulla's invasion of 83, in ANSMN 13, 1967, 117 nt. 26; J. LINDERSKI, The Augural Law, cit., 2194 nt. 173; N. ROSENSTEIN, Sorting Out the Lot in Republican Rome, cit., 56.

[142] Da Crawford sono semplicemente identificate come “jug”.

[143] Poiché sappiamo che le sortes erano forse mescolate nell’acqua (vd. F. BIVILLE, Sors, sortiri, sortitio. Pratiques et lexique du- tirage au sort dans le monde romain, cit., 148-149 e anche J. BOTHOREL, Le tirage au sort civique dans la Rome républicaine et impériale: matériels et techniques, cit., 161-162), non è peregrino ipotizzare una certa funzionalità, a tal fine, del simpulum, anch’esso presente nelle monete.

[144] Appare infatti in chiara funzione di aspersorio nel dritto della moneta 460/3 e in tutti i rovesci delle successive. Nella prima una pianta è recata in mano da Cupido, identificata da Crawford in una palma («Cupid holding palm-branch»), mentre nella seconda (alloro secondo Crawford: «laurel-wreath») ‘cinge’ gli altri strumenti sacrificali.

[145] Varro, frg. Non., p. 848 = p. 528 L.: Varro pronuntiat de Vita Populi Romani lib. II: ‘verbenatus ferebat verbenam; id erat caduceus, pacis signum; quam Mercuri virgam possumus aestimare’.

[146] R. STEWART, Public Office in Early Rome, Ann Arbor 1998, 38 ss. Si utilizzano infatti verbi come addico, evenio, obvenio, obtineo, suscipio. «Augural language described the results of the allotment» (38); «Augural terminology was therefore used for the receipt and acceptance of an allotted task, implying an auspice, specifically an omen. Augural terminology was also applied to the procedure of the allotment» (39).

[147] Nel sorteggio inscenato nella Casina di Plauto più volte si richiama al silenzio (361; 364; 388; 389; 393; 413), per assicurarsi l’assenza di vitium. Fest., De verb. signif., s.v. ‘sinistrum’, p. 476 L.: Sinistrum in auspicando significare ait Ateius Capito laetum et prosperum auspicium, a[u]t silentium, [d]ubi duntaxat vacat vitio. Sembra poi messa in relazione l’azione di alzarsi in piedi per ottenere correttamente gli auspicia con riferimento al sorteggio: Cic., Verr. 2.1, 174: Nam ut praetor factus est, qui auspicato a Chelidone surrexisset, sortem nactus est urbanae provinciae magis ex sua Chelidonisque quam ex populi Romani voluntate. Fest., De verb. signif., s.v. ‘silentio surgere’, p. 474 L.: <Silentio surgere>..t dici, ubi qui post mediam <noctem>......tandi causa ex lectulo suo si<lens surr>exit et liberatus a lecto, in solido ......<se>detque, ne quid eo tempore deiciat, <cavens, donec s>e in lectum reposuit: hoc enim est <proprie sil>entium, omnis vitii in auspiciis vacuitas. Veranius ait, non utique ex lecto, sed ex cubili, ne<c> rursus se in lectum reponere necesse esse. Ciò, però, potrebbe essere connesso perlopiù agli auspicia relativi all’assunzione della carica. Ps. Ascon., Verr. p. 188 (= p. 247 Stangl): Qui auspicato a Chelidone. Auspicare dicuntur ineuntes magistratus, et quia chelidon, id est hirundo, urbem frequentat, facete urbanam provinciam Chelidonis auspicio meretricis dicit esse suceptam. Sul ‘silentium’, vd. F. VALLOCCHIA, ‘Silentium’ nei documenti sacerdotali. Le interpretazioni di Veranio e di Ateio Capitone, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 6, 2007 (https://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Vallocchia-Silentium-documenti-sacerdotali-Veranio-Capitone.htm ).

[148] Liv. 41.18.5-8: Q. Petilius consul, ne absente se debellaretur, litteras ad C. Claudium misit, ut cum exercitu ad se in Galliam veniret: campis Macris se eum expectaturum. litteris acceptis Claudius ex Liguribus castra movit exercitumque ad campos Macros consuli tradidit. eodem [tempore] paucis post diebus C. Valerius consul alter venit. ibi divisis copiis, <prius> quam digrederentur, communiter ambo exercitus lustraverunt. tum sortiti, quia non ab eadem utrumque parte adgredi hostem placebat, regiones quas peterent. Valerium auspicato sortitum constabat, quod in templo fuisset; in Petilio id vitii factum postea augures responderunt, quod extra templum sortem in sitellam ***in templum latam foris ipse*** oporteret. profecti inde in diversas regiones.

[149] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 278-279: «Prescindiamo qui dal senso in cui può essere usato il termine templum, trattandosi di una operazione compiuta nell’accampamento; il Valeton nega, giustamente, che il termine abbia senso tecnico: possiamo con lui trarre, però, l’illustrazione che le pubbliche sortitiones dovevano avvenire in un templum se compiute domi». Vd. I.M.J. VALETON, De templis Romanis, cit., 61 ss.

[150] I.M.J. VALETON, De templis Romanis, cit., 42 ss.

[151] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 279. Sull’episodio narrato da Livio, anche F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 93 ss.

[152] J. LINDERSKI, The Augural Law, cit., 2174: «The senate ordered an investigation, and, as there were rumors about Petilius’ improprieties with respect to the auspices, the augurs were called in (that they did not act on their own initiative is clearly indicated by the verb responderunt)».

[153] P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale I, cit., 279: «È evidente che doveva esservi un’attività nomofilattica degli àuguri; essa qui è adombrata in un semplice responso». Sulla espressione dell’auctoritas augurum con decreta, vd. ivi, nt. 130.

[154] Cic., Cat. 4.15: Pari studio defendundae rei publicae convenisse video tribunos aerarios, fortissimos viros; scribas item universos, quos cum casu hic dies ad aerarium frequentasset, video ab expectatione sortis ad salutem communem esse conversos. Gli scribi il 5 dicembre partecipavano infatti al sorteggio, nel tempio di Saturno, delle provinciae da assegnarsi ai questori, per poi essere assegnati a ciascuno di questi. Non è peregrino ipotizzare che Cicerone, nominandoli, volesse far risaltare un loro mancato adempimento ai doveri pubblici, anziché evidenziare una loro rinuncia ad interessi personali (come l’attendere l’esito di un sorteggio che li riguardasse), considerata anche la sua ‘avversione’ nei confronti degli scribae: Cic.. Verr. 2.3.184: Ad eos me scribas revoca, si placet, noli hos colligere, qui nummulis corrogatis de nepotum donis ac de scaenicorum corollariis, cum decuriam emerunt, ex primo ordine explosorum in secundum ordinem civitatis se venisse dicunt. Eos scribas tecum disceptatores huius criminis habebo qui istos scribas esse moleste ferunt. Si ricorda che i tre scribae pontificis divennero, in un certo tempo, pontifices minores, con la funzione di assistere ad alcune deliberazioni e azioni del collegio. Vd. G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, Paris 1966, 561.

[155] È nota l’accusa mossa da Cicerone contro la proposta di legge agraria di Rullo nel 63 a.C. per l’estrazione a sorte delle diciassette tribù per l’elezione dei decemviri: Cic., leg. agr. 2.22: Quis comitiis praefuit, quis tribus quas voluit vocavit nullo custode sortitus, quis xviros quos voluit creavit? Idem Rullus. Allo stesso scopo debbono intendersi quei custodi a ‘protezione’ degli interessi dei candidati nei comizi per l’estrazione della centuria praerogativa: vd. L.R. TAYLOR, Roman voting assemblies : from the Hannibalic war to the dictatorship of Caesar, cit., 95-96.

[156] Sicuramente può rappresentare indice del (graduale) distacco dalla matrice religiosa della sortitio nel corso del principato, come evidenziato da A. MAFFI, Nomina per sorteggio degli ambasciatori nel mondo romano, in F. CORDANO e C. GROTTANELLI (a cura di), Sorteggio pubblico e cleromanzia dall'Antichità all'Età moderna. Atti della Tavola Rotonda. Università degli Studi di Milano 26-27 gennaio 2000, Milano 2001, 137-138. L’utilizzo delle sortes appare infatti combinato con le pilae nel primo editto di Augusto ai Cirenei (FIRA, I, 2ª ed., n. 68, 404 ss.: tunc aequatis pilis et inscriptis in ipsis nominibus, ex altera urna Romanorum nomina, ex altera Graecorum sortitor), mentre nella Tabula Hebana sono soppiantate dalle pilae dato che è prevista solo l’urna versatilis (Crawford, 23: pilas quam maxime aequatas in urnam versatilem coici et[ sortitio-]). Vd. F. BIVILLE, Sors, sortiri, sortitio. Pratiques et lexique du- tirage au sort dans le monde romain, cit., 149 ss. e J. BOTHOREL, Le tirage au sort civique dans la Rome républicaine et impériale: matériels et techniques, cit., 163 ss.

[157] Anche dette sorticulae. Vd., ad es. la lex Acilia repetundarum, [CIL I, 2ª ed., 583; FIRA I, 2ª ed., n. 7, 84 ss.]; Svet., Nero 21.1. Vd. F. BIVILLE, Sors, sortiri, sortitio. Pratiques et lexique du tirage au sort dans le monde romain, cit., 147: «Le suffixe -culus (-a, -um), traditionnellement qualifié de “diminutif”, n’a pas nécessairement pour fonction de désigner un objet de taille plus petite; il peut aussi servir à spécialiser le terme en lui donnant un sens technique plus spécifique que celui du terme de base sors auquel il se substitue».

[158] Vd. J. BOTHOREL, Le tirage au sort civique dans la Rome républicaine et impériale: matériels et techniques, cit., 162 ss.

[159] C. SANTI, Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, cit., 55.

[160] G. DUMÉZIL, Déesses latines et mythes védiques. Fortuna Primigenia, Bruxelles 1956, 78 ss.; J. CHAMPEAUX, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Rome et dans le monde romain des origines à la mort de César, I, Roma 1982, 94 ss.; E. MONTANARI, Identità culturale e conflitti religiosi nella Roma repubblicana, Roma 1988, 36 ss. Per un confronto tra la divinazione a Praeneste e Roma, con riferimento alla consultazione dei libri Sibyllini, vd. C. SANTI, Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, cit., 46 ss.

[161] Vd. C. SANTI, Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, cit., in particolare 42.

[162] Cic., div. 2.85-87: quid enim sors est? idem prope modum, quod micare, quod talos iacere, quod tesseras, quibus in rebus temeritas et casus, non ratio nec consilium valet. Tota res est inventa fallaciis aut ad quaestum aut ad superstitionem aut ad errorem. ... Sed hoc quidem genus divinationis vita iam communis explosit. ... Quis enim magistratus aut quis vir inlustrior utitur sortibus? ceteris vero in locis sortes piane refrixerunt. Si ricordi che nel 241 a.C. il senato vietò al console Q. Lutazio Cercone di consultare le sorti del tempio della Fortuna Primigenia, vietando così di affidarsi ad auspici stranieri. Val. Max. 1.3.2: Lutatius Cerco, qui primum Punicum bellum confecit, a senatu prohibitus est sortes Fortunae Praenestinae adire; auspiciis enim patriis, non alienigenis rem publicam administrari iudicabant oportere.

[163] Vd. supra Fest., verb. sign., s.v. ‘sors’, p. 381 L.

[164] Liv. 26.29: His senatus consultis perfectis sortiti provincias consules. Sicilia et classis Marcello, Italia cum bello adversus Hannibalem Laevino evenit. quae sors, velut iterum captis Syracusis, ita exanimavit Siculos, exspectatione sortis in consulum conspectu stantes, ut comploratio eorum flebilesque voces et extemplo oculos hominum converterint et postmodo sermones praebuerint. circumibant enim senatorum <domos> cum veste sordida, adfirmantes se non modo suam quosque patriam, sed totam Siciliam relicturos si eo Marcellus iterum cum imperio redisset. nullo suo merito eum ante implacabilem in se fuisse: quid iratum quod Romam de se questum venisse Siculos sciat facturum? obrui Aetnae ignibus aut mergi freto satius illi insulae esse quam velut dedi noxae inimico. hae Siculorum querellae domos primum nobilium circumlatae celebrataeque sermonibus, quos partim misericordia Siculorum, partim invidia Marcelli excitabat, in senatum etiam pervenerunt. postulatum a consulibus est ut de permutandis provinciis senatum consulerent. Marcellus si iam auditi ab senatu Siculi essent aliam forsitan futuram fuisse sententiam suam dicere: nunc ne quis timore frenari eos dicere posset quo minus de eo libere querantur in cuius potestate mox futuri sint, si collegae nihil intersit mutare se provinciam paratum esse, deprecari senatus praeiudicium; nam cum extra sortem collegae optionem dari provinciae iniquum fuerit, quanto maiorem iniuriam, immo contumeliam esse, sortem suam ad eum transferri? ita senatus cum quid placeret magis ostendisset quam decrevisset, dimittitur. inter ipsos consules permutatio provinciarum rapiente fato Marcellum ad Hannibalem facta est, ut ex quo primus post <adversissimas haud> adversae pugnae gloriam ceperat, in eius laudem postremus Romanorum imperatorum prosperis tum maxime bellicis rebus caderet.

[165] R. BUNSE, Entstehung und Funktion der Losung ("sortitio") unter den "magistratus maiores" der römischen Republik, in Hermes 130, 2002, 416-432. Vengono, a 426, riportati tutti i casi riportati in Livio di comparatio provinciarum anche in concorrenza con la possibilità, rimessa alla decisione dei consoli, della sortitio provinciarum.

[166] È possibile anche che si rimetta la decisione al senato, evitando così il sorteggio, Liv. 37.1.7: Tum de consulum provinciis coeptum agi est. ambo Graeciam cupiebant. multum Laelius in senatu poterat. is, cum senatus aut sortiri aut comparare inter se provincias consules iussisset, elegantius facturos dixit, si iudicio patrum quam si sorti eam rem permisissent. In Liv. 10.24 è invece attestato il ricorso al popolo in occasione dello ‘scontro’ tra Q. Fabio e P. Decio.

[167] In questo ‘conflitto’ a vincere è la religione. Per concretezza, si ricordino due episodi storici che ben possono riflettere lo scontro tra sacerdotium e imperium. ‘Conflitti’ possono emergere non solo tra sacerdoti diversi per ragioni squisitamente attinenti al campo delle ‘competenze’ religiose, ma anche in capo ad una singola e stessa persona che si trovi investita e dell’imperium e del sacerdotium (Cic., dom. 1.1). Per il primo aspetto si può richiamare, tra i diversi, il conflitto (Tacito, ann. 1.76.1) tra Tiberio (vir sacris faciundis e pontifex maximus) e Gallo (vir sacris faciundis), ampiamente esaminato da F. VALLOCCHIA, Acque e poteri, divini e umani, a Roma dalla repubblica all’impero, in Città&Storia 10.1, 2015, 7-21, circa la necessità di un intervento ‘umano’ per far fronte ad una esondazione del Tevere nell’anno 15, e quindi la necessità o meno di consultare i libri Sybillini a seconda della qualificazione del fatto come prodigium. Per la seconda è emblematico l’episodio narrato da Livio (Liv. 37.51), tra il pontefice massimo Licinio Crasso e il flamine Fabio Pittore circa l’assegnazione della Sardegna a quest’ultimo, che infatti era anche pretore, scatenandosi un duplice ‘conflitto’: il primo tra l’imperium e il sacerdotium, dato che si contrapponeva la volontà di raggiungere la provincia al dovere del flamen dedito ad sacra in urbe (conflitto che viene risolto a favore della religio, come testimonia Liv. 37.51: religio ad postremum vicit), nonché un conflitto tra ius pontificium e ius augurium, dato che la sortitio de provinciis rifletteva un permesso comunque contrario rispetto a quanto sancito da tempo mediante lo ius pontificium, che continua a prevalere. Così F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 98: «Il rapporto tra l’obbligo del flamen di rimanere a Roma e l’esito della sortitio de provinciis è analogo a quello che intercorre tra la predeterminazione pontificale dei dies fasti per la riunione di comitia calata (sicuramente per i testamenti) e le auspicazioni prima della convocazione dei comizi…Nessun conflitto, quindi, tra ius pontificium e ius augurium, semmai una sovrapposizione del primo al secondo». Su quest’ultimo episodio anche: E. MONTANARI, Aspetti religiosi dell’imperium in età repubblicana, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 8, 2009 (https://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/Roma_Terza_Roma/Montanari-Aspetti-religiosi-imperium.htm ). A guardar bene emergerebbe un terzo tipo di conflitto, gerarchico, perché a decidere sulla questione è dapprima proprio il pontefice massimo, che inibisce un atto di un sacerdote a lui subordinato: qui dobbiamo considerare ‘atecnico’ l’utilizzo da parte di Livio del termine imperia (imperia inhibita ultra citroque) -che ha portato addirittura Mommsen (TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1874-75, II/1, rist. Graz 1969, 18 ss., 28; ciò è negato, tra gli altri, in quegli anni, da A. BOUCHÉ-LECLERCQ, Les Pontifes de l’ancienne Rome, Paris 1871, 307 ss.) a riconoscere al pontefice massimo l’imperium- considerandolo solo come un “dictum coercitivo” (espressione propria di E. MONTANARI, ult. op. cit.).

[168] Liv. 28.12: Quarto decimo anno Punici belli P. Cornelius Scipio et P. Licinius Crassus ut consulatum inierunt, nominatae consulibus provinciae sunt, Sicilia Scipioni extra sortem, concedente collega quia cura sacrorum pontificem maximum in Italia retinebat, Bruttii Crasso.

[169] Liv. 4.29.7: Cn. Iulius consul aedem Apollinis absente collega sine sorte dedicavit. Aegre id passus Quinctius cum dimisso exercitus in urbem redisset, nequiquam in senatu est conquestus.

[170] Sul rapporto tra votum e dedicanti, vd. O. KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, II.1. Privatrecht, Leipzig 1901, 583; J. TURLAN, L’obligation ‘ex voto’, in RHD 33, 1955, 502 ss.; K. Visky, Il votum in diritto romano privato, in Index 2, 1971, 317-318; G. FIRPO, s.v. ‘votum’, in NNDI, 20, Torino 1975, 1060; O. DILIBERTO, La struttura del “votum” alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di A. Biscardi 4, Milano 1982-1991, 297 ss.; N. BELLOCCI, Ius sacrum e sollemnes nuncupationes in Roma antica, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di scienze giuridiche e tradizione romana 1, 2002 (https://www.dirittoestoria.it/tradizione/Bellocci-%20Ius%20sacrum%20e%20sollemnes%20nuncupationes.htm ).

[171] Liv. 9.46.6-7: Aedem Concordiae in area Volcani summa invidia nobilium dedicavit; coactusque consensu populi Cornelius Barbatus pontifex maximus verba praeire, cum more maiorum negaret nisi consulem aut imperatorem posse templum dedicare. Itaque ex auctoritate senatus latum ad populum est ne quis templum aramve iniussu senatus aut tribunorum plebei partis maioris dedicaret. Sulla legge che regolò lo ius publicum dedicandi, sulla riconduzione di questa alla lex Papiria citata da Cicerone (Att. 4.2.3; dom. 127, 128, 130, 136), nonché per la dedica del tempio di Apollo in Circo e l’osservanza del mos maiorum per la dedica dei templi: F. CAVALLERO, Ius publicum dedicandi (e consecrandi): il diritto di dedica a Roma, cit.

[172] A tal proposito risulta interessante notare come il senato, contrariamente a quanto avvenne ad esempio per il tempio di Giove sul Campidoglio, in occasione della dedica del tempio di Mercurio preferì rimettere la decisione al popolo. Liv. 2.27.5-6: Certamen consulibus inciderat, uter dedicaret Mercuri aedem. Senatus a se rem ad populum reiecit: utri eorum dedicatio iussu populi data esset, eum praeesse annonae, mercatorum collegium instituere, sollemnia pro pontifice iussit suscipere. Populus dedicationem aedis dat M. Laetorio, primi pili centurioni, quod facile appareret non tam ad honorem eius cui curatio altior fastigio suo data esset factum quam ad consulum ignominiam. Al di là dell’esito della successiva deliberazione del popolo – che infatti nominò non un console ma il centurione primipilo Marco Letorio– ciò dimostra come il senato, anche in occasione di questioni giuridico-religiose di primaria importanza, non sia vincolato nel decidere il ricorso alla sortitio fintantoché una volontà (umana) sia comunque riscontrabile. Il ricorso al popolo è attestato anche per la permutatio provinciarum, in età repubblicana avanzata: tra i provvedimenti adottati in tal senso, si ricordi, esemplarmente, la lex Antonia de permutatione provinciarum, vd. G. ROTONDI, Leges publicae populi Romani, Milano 1912, 432.

[173] Cicerone ne dà conferma: Cic., Verr. 2.1.37-38: Quaestor cum L. Scipioni consuli obtigisset, non attigit pecuniam, non ad exercitum profectus est; quod de re publica sensit, ita sensit ut nec fidem suam nec morem maiorum nec necessitudinem sortis laederet. [38] Etenim si haec perturbare omnia ac permiscere volumus, totam vitam periculosam, invidiosam, infestamque reddemus — si nullam religionem sors habebit, nullam societatem coniunctio secundae dubiaeque fortunae, nullam auctoritatem mores atque instituta maiorum.

[174] J. LINDERSKI, The Auspices and the Struggle of the Orders, cit., 564: «It is possible that the first interrex was selected by lot, and as the drawing of lots depended upon divine will it was akin to the auspicatio». A. KOPTEV, The five-day interregnum in the Roman Republic, in The Classical Quarterly 66.1, 2016, 212: «On the basis of the fact that the auspices could only be consulted by individual persons, Jerzy Linderski has suggested that the first interrex was actually selected by lot. The suggestion, if there were any evidence for the lots, would explain why it was only the second interrex who has appointed auspicato, or why his successors were qualified to convene the electoral assembly».

[175] Fest., verb. sign., s.v. ‘mos’, p. 46 L.: mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.

[176] Quindi il rispetto di precise logiche augurali non solo non permetterebbe una differenziazione tra sortitiones religiose e politiche (propria di V. EHRENBERG, s.v. ‘losung’, in PWRE, XIII, 1927, 1465 ss.) come già evidenziato da L.R. TAYLOR, Roman voting assemblies : from the Hannibalic war to the dictatorship of Caesar, cit., 70 ss., ma avvalora la considerazione che non possono che essere effettuate in templo. Vd. F. VALLOCCHIA, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 99.

[177] F. SERRAO, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell'economia schiavistica, Napoli 2006, 262.

[178] In vita del pater familias questa esigenza era soddisfatta mediante il duicensus. Fest., verb. sign., s.v. ‘duicensus’, p. 58 L.: Duicensus dicebatur cum altero, id est cum filio census. Vd. E. LO CASCIO, Il census a Roma e la sua evoluzione dall’età serviana alla prima età imperiale, in MEFRA 113, 2001, 567 ss.

[179] F. SERRAO, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell'economia schiavistica, cit., 262: «Esso, sorto per mantenere l’unità del patrimonio e dei poteri fra i sui rimasti assieme nella grande famiglia dopo la morte del pater comune, ebbe poi anche la funzione politica di conservare ai figli, nel comizio centuriato, la posizione che essi avevo avuta durante la vita del pater; in un terzo momento, costituito fra estranei mediante una certa legis actio, fu un valido strumento giuridico per creare ai cittadini economicamente meno agiati una base patrimoniale fittizia, che valesse a far mantenere o a far conquistare una posizione più elevata nella gerarchia delle classi del comizio centuriato». Vd. anche A. FRANCIOSI, Legitima simul et naturalis societas. Sull’antico legame tra heredium e consortium, in Teoria e Storia del Diritto Privato 12, 2019, 23: «Quindi, con tutta probabilità, risultava spontaneo (naturalis) tenere unito il patrimonio, ai fini dell'iscrizione in una classe di censo più alta di quella che si sarebbe potuto raggiungere con il solo patrimonio individuale, attraverso l’unificazione delle sortes (bina iugera in antico, estensioni anche maggiori in seguito), assegnate ai singoli maschi adulti del gruppo, atti alle armi, sotto la potestas paterna».

[180] Varro, ling. 6.64-65, sopra esaminata.

[181] Similmente a quanto avviene per l’adrogatio, con un controllo in questo caso pontificale (e popolare).

[182] F. SERRAO, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell'economia schiavistica, cit., 263.

[183] Mi limito a ricordare una notissima regola, che ben riflette una certa ‘gerarchia’ tra le due diverse posizioni di studio. D. 2.14.38 Pap. 2 quaest.: Ius publicum privatorum pactis mutari non potest. Rimando a F. VALLOCCHIA, Qualche riflessione su publicum-privatum in diritto romano, cit., 415 nt. 1 per una recente bibliografia sui “concetti’ di pubblico e privato”.