Tradizione-Romana-2019

 

 

Rinolfi-foto-2019CRISTIANA M.A. RINOLFI

Università di Sassari

Professore aggregato di Diritto romano

 

«Rex, quia potentissimus».

Il re romano tra diritto e religione

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SOMMARIO: 1. Ordo sacerdotum (Festus, De verb. sign., p. 198 L.). – 2. Reges, leges e potere. – 3. Il rex, gli dèi, i sacra. – 4. Il rex e il tempo. – 5. Le richieste rituali dei sacerdotes. – 6. Tarquinio Prisco e Atto Navio: lo ‘scontro’. – 7. Riflessioni conclusive. – Abstract.

 

 

1. – Ordo sacerdotum (Festus, De verb. sign., p. 198 L.)

 

In materia di esercizio del potere regio in seno all’organizzazione religiosa, si deve necessariamente richiamare la glossa Ordo sacerdotum del De verborum significatione di Sesto Pompeo Festo, in cui il rex è posto all’apice della gerarchia sacerdotale:

 

De verb. sign., p. 198 L.: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine, ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem; Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem. Rex, quia potentissimus: Dialis, quia universi mundi sacerdos, qui appellatur Dium; Martialis, quod Mars conditoris urbis parens; Quirinalis, socio imperii Romani Curibus ascito Quirino; pontifex maximus, quod iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque.

 

Questa preziosa testimonianza, da ascriversi a Verrio Flacco[1] menzionato dalle fonti quale iuris pontificii peritissimus[2], restituisce una realtà molto antica[3], quando il rex, come detto, deteneva una posizione apicale. La collocazione all’ultimo posto del pontefice massimo[4], unico componente di un collegio sacerdotale citato nella lista, dopo il rex, il flamine di Giove (il quale, secondo la tradizione, fu adornato da Numa dei simboli dell’autorità regia[5]), di Marte, di Quirino[6], è condizione differente rispetto al quadro che si delineò con l’avvento della Repubblica[7]. Come noto, infatti, secondo Livio, il rex sacrorum[8] fu sottoposto al pontifex maximus affinché la sua carica unitamente al nomen non rappresentasse un pericolo per la libertas repubblicana[9]. L’esistenza di tale rapporto di subordinazione durante la Res publica è suffragata, ad esempio, dall’episodio di Lucio Cornelio Dolabella che nel 180 a.C. fu scelto come rex sacrorum, e per questo gli fu ingiunto dal pontefice massimo, Caio Servilio Gemino, di abdicare dalla carica di duumviro navale. Dopo esser stato multato dal pontifex poiché si rifiutava di ottemperare all’intimazione, Dolabella si appellò al popolo; fu soltanto un vitium de caelo che turbò i comizi a indurre i pontefici a desistere dal loro proposito e scegliere il secondo nome espresso dal conlegium[10]. Confermano l’alta antichità dell’ordo sacerdotum in esame, inoltre, altre testimonianze, riferite sempre all’età repubblicana, intorno all’esercizio da parte del pontefice massimo di poteri coercitivi verso i flamini maggiori[11].

Secondo le fonti, colui che, durante la Repubblica, diveniva rex sacrorum non poteva assumere honores[12]. “Quem tu regem sacrificiorum crees? Amplexus regni nomen, ut qui optimo iure rex Romae creatus sit, creatum se dicet[13], così si rivolgeva il tribuno della plebe Publio Sempronio ad Appio Claudio, il quale non voleva abdicare dalla censura dopo 18 mesi dall’assunzione degli auspici sostenendo la irretroattività della lex Aemilia: il re dei sacrifici non era quindi inteso come rex Romae optimo iure[14]. Lo stesso Plutarco ricorda come il sacerdote in esame non potesse né esercitare poteri civili né δημαγωγεν[15], ovvero era privo di ius agendi cum populo[16]. Queste limitazioni comunque non impedirono al rex sacrorum sia di perpetuare le cerimonie dinnanzi al popolo[17] spettanti precedentemente durante il Regnum[18], sia di conservare la preminenza, almeno nominale, in seno all’ordo sacerdotum[19].

La gerarchia sacerdotale risalente all’età regia descritta da Verrio-Festo dovette perdurare nel tempo, almeno formalmente, poiché la posizione assunta dai sacerdoti nei convivi[20], dove il re … supra omnis accumbat licet, è confermata da Aulo Gellio e da Servio Danielino[21], anche se sussistono testimonianze antitetiche. L’ordine gerarchico illustrato dalla glossa in esame, infatti, non è seguito nel resoconto originale della vetustissima cena, svolta in occasione della inauguratio del flamine di Marte, Lucio Cornelio Lentulo Nigro[22], composto dal pontefice massimo Quinto Cecilio Metello Pio in indice quarto. Nell’elenco dei sacerdoti che presero posto nelle diverse sale da pranzo allestite il re dei sacrifici è nominato dopo i pontefici[23]: seppure di parte, questa fonte mostra l’acquisizione da parte dei pontifices di un ruolo sempre più ampio nel sistema sacerdotale repubblicano.

La sequenza proposta da Verrio-Festo, re-flamini maggiori-pontefici, si intravvede in un brano del De domo sua[24] e, in parte, anche nella tradizione illustrata da Livio per cui Numa, nell’ambito della sua riforma religiosa, creavit il flamen Dialis, Martialis, Quirinalis, e legit le vergini vestali, i salii e il pontefice massimo[25]. Lo stesso Cicerone, però, sempre in occasione del suo discorso inerente alla intricata vicenda intorno alla sua casa[26], conferma almeno nella prassi, una diminuzione di importanza del rex sacrorum[27], poiché, nel ricordare chi si era pronunciato sull’assenza di interdizioni religiose, colloca questo sacerdozio al terzo posto dei personaggi di cui riferisce i titoli (menzionando per primi P. Lentulo, console-pontefice, e L. Lentulo, flamine di Marte). L’oratore, inoltre, in De dom. 38, nel criticare le adozioni di convenienza di patrizi da parte di plebei[28], cita nell’ordine re dei sacrifici, flamini e salii. Questa e altre testimonianze antiche[29] attesterebbero l’esistenza di ulteriori, e probabilmente più articolate, classificazioni dei sacerdoti rispetto all’ordo più antico prospettato da Verrio-Festo[30].

L’incipit della glossa nella edizione qui accolta è integrato da W.M. Lindsay con l’inciso <ordine, ut deus> per cui l’ordo dei sacerdotes deorum seguiva quello delle stesse divinità[31], disposte in base a un raffronto dell’essere o meno superiori. La classificazione delle magistrature repubblicane incentrata sugli auspicia e sulle potestates, tramandata dal De auspiciis dell’augure Messalla[32], conferma che questo tipo di ripartizione, maximus/minor[33], caratterizzava l’interpretatio dei sacerdotes romani.

Nella glossa risultano lampanti due eccezioni per cui non si richiama esplicitamente la divinità di riferimento, il re[34] e il pontefice massimo[35]. Il sacerdote posto al quinto posto dell’ordo è qualificato iudex atque arbiter habetur rerum divinarum humanarumque[36], una descrizione che rimanda alle competenze onnicomprensive dell’intero collegio, ricordate specialmente da Cicerone[37], concernenti il controllo dell’esatta celebrazione del culto di tutti gli dèi.

Il rex, nella glossa in esame, dapprima è definito come maximus, mentre più avanti la sua posizione in seno all’ordo è giustificata in modo conciso: quia potentissimus[38]. In tale contesto, potentissimus non pare avere la medesima valenza negativa ascritta da Cicerone all’ultimo Tarquinio, quale re esercitante un potere arbitrario (perpetus dominatus)[39]. In altre fonti il superlativo di potens è riferito a re stranieri prevalentemente per indicare la loro potenza politica e militare[40], oppure è rivolto anche agli uomini dalla considerevole influenza in seno alla società civile[41].

In Festo, la civitas che possiede specifici oggetti in seguito all’interpretazione di un prodigio è dichiarata potentissima[42]. Questa concezione si collega sia alla tradizione intorno ai pignora che imperium Romanum tenent[43], sia all’idea secondo cui il rispetto della religio comportava l’espansione spazio-temporale della città e del suo potere[44]. I Romani si ritenevano così superiori nell’osservanza dei culti tanto da distinguersi dagli altri popoli[45], e da essere sorretti dalle divinità fin dalla fondazione dell’Urbs[46]. Significativa la supplica rivolta da Cicerone ai Romani:

 

In Cat. II.29: Quos vos, Quirites, precari, venerari, implorare debetis, ut, quam urbem pulcherrimam, florentissimam potentissimamque esse voluerunt, hanc omnibus hostium copiis terra marique superatis a perditissimorum civium nefario scelere defendant.

 

L’ideologia sottesa in questo passaggio mostra come la potenza del populus Romanus fosse indissolubilmente legata alla volontà divina.

Appare evidente che la potentia regia ascritta dalla glossa in esame si accordava a queste antiche concezioni. L’agire del re nella compagine religiosa e giuridica si associava alla potenza divina[47] richiamata da alcune fonti, come ad esempio la proposta etimologica pontifex-potens[48] ricordata da Plutarco[49].

Il rapporto tra le divinità e i reges emerge con particolare incisività nell’elogio funebre pronunciato da Cesare appena divenuto questore in memoria della zia, sorella del padre, Giulia[50]. Nel discorso con cui celebrava le origini della propria gens, in quanto la donna per via materna annoverava tra i suoi avi Anco Marcio, mentre in seno al suo ramo paterno vantava la discendenza da Venere, Cesare diede la sua definizione di reges: coloro che plurimum inter homines pollent. Egli, inoltre, attribuì ai re la sanctitas, ovvero, secondo la definizione ciceroniana, la scientia colendorum deorum[51] presente nel rapporto homines-dei, che, unitamente alla pietas[52], rendeva propizie le divinità[53]. Nel testo della laudatio emerge l’idea per cui sussisteva un sistema al cui vertice si trovavano gli dèi e alla base era collocato il genere umano dove i re, sottoposti alla potestas divina, si distinguevano per il loro potere.

La potentia regia derivava pertanto da quella degli dèi; tuttavia, la carica di rex non rappresentava una proiezione simmetrica di quella della divinità massima. L’antico carmen di provenienza augurale[54], restituito da Livio[55], della inauguratio regis[56] dimostra che in origine Iuppiter non era denominato rex[57], ma talvolta era qualificato quale pater[58], epiteto riconosciuto anche ad altre divinità[59].

In seno alla sfera religiosa, la posizione del rex quale potentissimus escludeva irrimediabilmente il primato magistratuale. Secondo la definizione del giurista Paolo, il quale ricorda la derivazione di magistratus da magistri[60], i magistrati repubblicani erano coloro su cui gravava praecipua cura rerum e che dovevano ricorrere, magis quam ceteri, a zelo e sollecitudine per le cose a cui erano preposti[61]: la giurisprudenza severiana non si riferiva in tal caso alla potentia religiosa propria dei re qui plurimum inter homines pollent[62].

Non si può, tuttavia, negare la onnicomprensiva presenza del sacro anche nelle età successive al Regnum. In merito si deve rilevare un nesso concettuale tra la distinzione sacerdotale, basata sull’essere maximus o minor, la gerarchia dei magistratus elaborata dagli auguri, e la qualificazione di Giove all’atto dell’istituzione del sistema repubblicano.

Nel 509 a.C., Giove, la massima divinità romana[63] che aveva acconsentito alla nascita di Roma[64] e ne permetteva la crescita attraverso gli auspicia[65], fregiato dell’appellativo Optimus Maximus fu destinatario della dedicatio del tempio sul Campidoglio[66] compiuta dal console, e pontefice massimo, Orazio Pulvillo[67]. L’epiteto Optimus Maximus significava libero da tutte le servitù[68], e dunque era espressione della libertas repubblicana. La stessa triade capitolina, Iuppiter-Iuno-Minerva, sostituiva quella più antica testimoniata dalla glossa festina Ordo sacerdotum, Iuppiter-Mars-Quirinus[69]: in tal modo, la nuova forma di governo trovava la sua giustificazione ideologica nella sfera religiosa. Giove Ottimo Massimo, … cuius nutu et arbitrio caelum, terra mariaque reguntur ...[70], che … propter beneficia populus Romanus Optimum, propter vim Maximum nominavit …[71], era inteso quale fonte di benefici e forza per Roma. Questa divinità espresse la sua valenza politica[72] in età repubblicana e fu considerata partecipe delle vicende della vita[73] del popolo Romano[74]. Non a caso, Livio riferisce che nel 448 a.C. una delegazione di Latini e di Ernici fece dono al dio di una corona d’oro per felicitarsi della trovata concordia tra gli ordini sociali[75], e che nel 445 a.C. i consoli M. Genucio Augurino e G. Curzio Filone, opponendosi alla proposta tribunizia ut populo potestas esset, seu de plebe seu de patribus vellet, consules faciendi[76], evocarono Giove Ottimo Massimo quale garante della magistratura superiore[77].

La centralità del tempio Capitolino[78] e le sue connessioni con le magistrature maggiori emerge con forza dalla notizia secondo cui nella parte della cella dedicata a Minerva era stata affissa una antica legge che stabiliva qui praetor maximus sit doveva clavum pangere alle idi di settembre[79]. Secondo Livio, questa cerimonia fu dapprima celebrata dai consoli e, in seguito, dai dittatori, in quanto in questi ultimi maius imperium erat[80]. Si rinviene ancora l’idea di una ripartizione articolata in massimo e minore; in tal caso un magistrato maximus, definito genericamente con il titolo di praetor, era investito del compito di celebrare un rito finalizzato alla sopravvivenza del popolo Romano[81]. Questa notizia si collega con quanto illustrato da una glossa festina intorno a una disputa su quali criteri ricorrere per l’individuazione del praetor maximus, se in base all’ampiezza dell’imperium o all’età[82]. Un decreto del collegio degli auguri fu dirimente nello stabilire che nel rito augurium salutis[83], collegato alla consultazione augurale[84], la distinzione tra pretori maggiori e minori[85] non si basava sull’età, ma ad vim imperii. Si deve rilevare che il praetor maximus era quindi scelto sulla base dell’imperium[86] e non degli auspici, al fine di porre in essere l’augurium salutis che si celebrava soltanto quando non si combatteva contro il nemico e nessun esercito era impiegato in campagne militari[87]. La partecipazione ai riti del magistrato munito di imperium maximus doveva risiedere in antichissime concezioni che si possono intravvedere in Varrone:

 

De ling. lat. 7.85: Numen dicunt esse imperium, dictum ab nutu, <quod cuius nutu> omnia sunt, eius imperium maximum esse videatur: itaque in Iove hoc et Homerus et † alius † aliquotiens.

 

Qui l’espressione massima di comando, rinvenibile in Giove, è collegata etimologicamente dal grammatico al termine numen, designante frequentemente nelle fonti la volontà divina[88].

 

 

2. – Reges, leges e potere

 

Nel lungo frammento dell’Enchiridion[89] conservato nel titolo II, De origine iuris et omnium magistratuum et successione prudentium, del I libro del Digesto, Pomponio dichiara l’esigenza di illustrare l’origo e il processus del diritto[90]. L’importanza riconosciuta dal giurista alla conoscenza del ius nel suo divenire storico a partire dall’initium civitatis nostrae è concettualmente collegato dai commissari giustinianei alla apologia del principium ostentata da Gaio nel frammento precedente[91] tratto dal primo libro dell’opera di commento alle XII Tavole, oggetto di ampie riflessioni in letteratura[92]. Il giureconsulto antoniniano, al pari di Pomponio[93], rileva, infatti, come fosse necessario … prius ab urbis initiis repetendum …[94].

Seguendo questa prospettiva storica[95], nell’Enchiridion si tratteggia lo sviluppo del ius fin dagli albori di Roma, rilevandone l’assenza di certezza del diritto:

 

D. 1.2.2.1 (Pomponius libro singulari enchiridii): Et quidem initio civitatis nostrae populus sine lege certa, sine iure certo primum agere instituit omniaque manu a regibus gubernabantur.

 

Le origini della civitas sono qui caratterizzate dalla circostanza per cui tutto era nelle “mani” dei reges[96]. In materia sono degne di nota le riflessioni di Riccardo Orestano[97], il quale, sottolineando il potenziale simbolico del termine manus[98], ne illustra l’ampio ricorso in seno alla antica esperienza giuridica romana[99]. Secondo lo studioso, nell’espressione pomponiana “omnia manu a regibus gubernabantur il riferimento alla manus è «indicazione e qualificazione del concreto esercizio del potere regio»[100].

Pomponio, tuttavia, non ricorre al vocabolo manus con valenza tecnica per indicare lo specifico potere dei reges, poiché nel proseguo del frammento, nella parte destinata ut de magistratuum nominibus et origine cognoscamus, egli, avvalendosi in merito del concetto di potestas, sottolinea come i re ebbero ogni potestà[101]. Il giurista, inoltre, nel rappresentare l’istituzione del consolato exactis regibus, allude al potere regio omnicomprensivo, maggiore rispetto a quello della magistratura repubblicana, in quanto si promulgò la lex sulla provocatio ad populum affinché qui … ne per omnia regiam potestatem sibi vindicarent[102]. L’atecnicità del termine manus trova conferma anche nelle fonti letterarie, come, ad esempio, in Cicerone, il quale ricorda la soddisfazione del governatore Verre per l’arrivo a Siracusa di uno dei giovani figli di Antioco, re della Siria: Hic Verres hereditatem sibi venisse arbitratus est, quod in eius regnum ac manus venerat is quem iste et audierat multa se cum praeclara habere et suspicabatur[103]. L’oratore accosta la pretura di Verre a un regnum, ma non utilizza il vocabolo manus in riferimento a una specifica potestà appartenuta ai reges; così pure nella narrazione liviana della resa incondizionata di Gabi, la locuzione in manum presenta una generica accezione di potere[104].

Nel paragrafo successivo, Pomponio ricorda come postea - avverbio che separa temporalmente dalla situazione descritta precedentemente -, verificatosi un aumento demografico[105], Romolo divise il popolo in curie, e a queste lui e i suoi successori proposero alcune leges curiatae[106]. Quanto illustrato nei §§ 1-2 parrebbe alludere alla sussistenza di reges precedenti a Romolo, come affermato da una parte della letteratura[107]. In realtà, per il suo andamento, il discorso pomponiano vuole esclusivamente evidenziare l’iniziale incertezza del diritto, che lasciava spazio a un potere illimitato, e la successiva introduzione romulea di un sistema atto alla produzione di leges. L’asserzione sull’esistenza di re anteriori al fondatore non pare risiedere negli intendimenti di Pomponio, ma frutto del confluire nel frammento di tradizioni differenti a cui egli fa ricorso al fine di rispondere a necessità espositive, per descrivere compiutamente l’esperienza giuridico-religiosa degli initia Urbis (Et quidem initio civitatis nostrae …)[108].

Le origini dell’Urbs sono evocate anche da Tacito, il quale così esordisce negli Annali: Urbem Romam a principio reges habuere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit[109]. In questo incipit non vi è un diretto riferimento al potere regio, ma si ascrive ai reges l’atto di habere la città di Roma, verbo che esprime l’azione di governare[110], oppure dominare[111]. Nel brano, l’operato dei re romani è posto in contrapposizione all’impresa di Bruto, inteso come l’artefice delle magistrature e della libertà repubblicana[112].

Questo motivo ricorre anche in altre fonti, in particolare, secondo Cicerone, Bruto qui potentissimum regem clarissumi regis filium expulerit civitatemque perpetuo dominatu liberatam magistratibus annuis legibus iudiciisque devinxerit[113]. In questa attestazione la contrapposizione tra Regno/re/arbitrio/dominio e Repubblica/magistrati/leggi/libertà emerge soltanto in relazione a Tarquinio il Superbo designato come “potentissimo”, laddove del padre si parla in termini di “chiarissimo”.

Tito Livio ricorre ugualmente a quello che si conferma un topos letterario. Nell’incipit del II libro, lo storico accenna a ciò che caratterizzava il popolo Romano durante la res publica, ovvero la libertas e l’istituzione di magistrati, ma ricorda anche la presenza di leggi dalla autorità superiore a quella degli uomini, ovvero all’arbitrio individuale[114]. In un altro luogo, egli sublima l’efficacia erga omnes della lex quando narra che alcuni giovani, cresciuti more regio poiché coetanei e sodali degli adulescentes Tarquiniorum, dopo l’istituzione della Repubblica, quando tutti godevano gli stessi diritti (aequato iure omnium), rimpiangevano la licenziosità goduta un tempo e sostenevano che la libertà altrui era divenuta la loro schiavitù. L’affermazione di parte dei rampolli romani denuncia una evidente discrezionalità a cui faceva ricorso Tarquinio il Superbo durante il suo regnum: il re è un uomo da cui si può ottenere un favore, ubi ius, ubi iniuria opus sit, che sa discernere tra un amico e un nemico, mentre la legge è sorda e inesorabile per tutti[115]. Livio, però, non generalizza: sempre nella praefatio del secondo libro della sua opera, asserisce per i primi sei re di Roma il corretto esercizio di un potere che attribuiva la qualità di fondatore e che si contrapponeva alla superbia dell’ultimo Tarquinio[116]. Lo storico, inoltre, collegando il potere regio all’espansione spaziale della città e all’aumento demografico voluto dagli stessi re, richiama la tradizione per cui, fin dalle origini[117], i reges miravano all’incremento del popolo di Roma. Questa finalità è evocata anche da Sallustio per cui il regium imperium in origine era sorto inizialmente per conservare la libertà e per ampliare la res publica[118].

Il potere, quindi, del “potentissimo” Tarquinio era inteso dal racconto tradizionale più accreditato come l’esercizio di un governo basato sul mero arbitrio, che si differenziava dalla politica intrapresa dai predecessori.

Per tornare a Tacito, egli, nel rievocare la fine del periodo in cui vetustissimi mortalium vivevano in eguaglianza e la successiva instaurazione di dominationes, afferma che in seguito, alcuni popoli nutrirono disgusto verso i re, preferendo l’istituzione delle leggi: è così percepibile la sottesa idea di fondo per cui i regna erano posti in antitesi alle leges[119]. Dopo aver ricordato celebri legislazioni antiche[120], Tacito passa in rassegna quelle di alcuni re romani[121]:

 

Ann. 3.26.4: Nobis Romulus, ut libitum, imperitaverat; dein Numa religionibus et divino iure populum devinxit, repertaque quaedam a Tullo et Anco. Sed praecipuus Servius Tullius sanctor legum fuit, quis etiam reges obtemperarent.

 

Contrariamente a Pomponio, il quale presenta anche Romolo e gli altri reges come legislatori per il tramite di una procedura popolare[122], lo storico procede a una cesura tra Servio Tullio e i suoi predecessori. Secondo quanto si legge negli Annales, dunque, il fondatore governò sulla base del mero arbitrio; in tal modo nel brano si sottintende l’assenza di legislazione durante il regnum romuleo, prendendo le distanze anche dalla tradizione accolta da Livio per cui il primo re era colui che iura dedit trasformando la multitudo[123] in popolo[124].

Tacito afferma, inoltre, che Numa populum devinxit[125] attraverso la religione e il diritto divino, alludendo alla diffusa tradizione per cui il secondo re cercò di imprimere un nuovo spirito nei Romani divenuti ormai avvezzi alle guerre intraprese dal suo predecessore[126]. In questo contesto, tuttavia, lo storico manifesta una nota critica, distinguendo la normativa numana, e anche quelle di Tullo Ostilio e Anco Marcio a cui accenna vagamente, da un sistema legislativo valido erga omnes[127].

Nel brano in esame, Servio Tullio è qualificato come sanctor legum, e le sue norme sono presentate come vincolanti non soltanto il popolo ma anche i re, sottintendendo in tal modo l’assenza di qualunque sottoposizione alle leggi da parte dei predecessori.

L’importanza di Servio Tullio è sottolineata anche da altre fonti, ad esempio, Aulo Gellio lo definisce prudentissimus[128], laddove Agostino d’Ippona lo indica come optimus populi rex[129]. Nel De re publica egli è qualificato come iustissimus, ma questo attributo lo si estende anche ai re che lo avevano preceduto[130]. Nella stessa opera ciceroniana, dopo aver richiamato il pensiero di Catone, per cui il sistema della Res publica si è formato attraverso l’azione sinergica di più persone nel corso del tempo, si afferma come in ogni singolo re rerum bonarum et utilium fiat accessio[131], e si sostiene che Servio Tullio sia stato quello tra i reges romani che, a parere di Lelio, abbia meglio interpretato le esigenze della civitas (in re publica vidisse plurimum)[132]. Il rimando al fondamentale concetto di utilitas[133] si rinviene anche alle ll. 23-24 della Tavola bronzea di Lione, contenente il testo della orazione pronunciata da Claudio nel 48 d.C., dove si legge che Servio Tullio conseguì il regno summa cum rei p(ublicae) utilitate[134]. Nulla quindi par confermare quanto emerge da Tacito per cui la legislazione serviana si sarebbe distinta dalle precedenti legislazioni per la sua efficacia generale.

Come è stato rilevato da R. Cardilli, il passo degli Annales qui esaminato presenta argomenti rinvenibili anche in altre fonti – è questo il caso di un passo del De re publica dove si ricordano gli antichi legislatori[135] –, ma al contempo, quando eleva Servio Tullio a sanctor legum, diverge significativamente dalla tradizione riportata da Livio, per cui se Numa Pompilio fu ricordato in qualità di divini auctor iuris, egli doveva la sua fama presso i posteri per essere stato conditor omnis in civitate discriminis ordinumque[136]: «Le conclusioni che potrebbero trarsi, però, più che a un discredito nei confronti di Tacito, devono orientarsi verso la valorizzazione di una tradizione diversa (che echeggia ancora in Dion. 4, 13, 1), che ricorda Servio Tullio come il re che fece approvare alle curiae un corpo di nómoi che poi daranno vita ad una serie di leges regiae»[137].

Per tornare alle fonti analizzate, si può affermare la sussistenza di numerose tradizioni, in alcuni casi stratificate nella medesima testimonianza. Sostanzialmente si rinvengono tre scenari: talvolta si celebra una “utile” azione di tutti i re finalizzata alla prosperità del popolo Romano, talaltra si procede a una cesura tra l’ultimo Tarquinio e i suoi predecessori, per contro si afferma un esteso potere regio esercitato (da tutti o da alcuni reges) in forma arbitraria, in antitesi con l’impianto normativo invalso in età repubblicana. Le ultime due rappresentazioni storiche sono motivo ideologico collegato all’ampio ricorso negli autori antichi alla retorica della superbia. Il concetto era considerato uno dei mali dell’animo[138], inteso come esercizio di un potere crudele e sprezzante[139], generalmente attribuito come caratteristica esecrabile all’ultimo re dei Romani[140]; secondo le fonti, fu proprio la superbia di Tarquinio a porre fine al regium imperium[141].

Con l’avvento della libertas repubblicana[142] i Romani, oltre a ricorrere a strumenti normativi per impedire la restaurazione del Regnum[143], si proposero di sopprimere ogni governo straniero connotato da superbia. La repulsione dei Romani verso la cifra che segnò la condotta dell’ultimo Tarquinio, così, fu riprodotta nell’archetipo dell’ideologia di espansione, come emerge nel celeberrimo verso virgiliano per cui è Iuppiter a conferire la missione di parcere subiectis et debellare superbos[144]. Agostino d’Ippona sintetizza questa concezione, collegando la volontà di affrancarsi dalla dominatio dei reges al desiderio di governare gli altri popoli; il vescovo, in merito, rileva come i veteres ... primique Romani intesero il fastus regius non come disciplina regentis, oppure come benevolentia consulentis, ma superbia dominantis[145]: si arrivò così a esecrare non solo tutte le espressioni politiche di superbia, interna alla Repubblica o estera, ma a intendere in tal senso anche il passato, individuando nei re Romani i detentori di un potere assoluto[146].

Si percepisce quindi una forte valenza ideologica, basata sull’idea della libertas e sulla vincolatività e centralità delle leges rogatae, intorno alla esecrazione del comportamento dell’ultimo Tarquinio contraddistinto dall’esercizio di un potere arbitrario; questa rappresentazione in alcuni casi condizionò anche la raffigurazione dei predecessori.

Nelle fonti emerge come la superbia era connessa a un esercizio distorto del potere e non a una differente tipologia dello stesso. Cicerone sostiene, infatti, che Tarquinio portò alla caduta del Regnum in quanto utilizzò in modo “ingiusto”[147] la potestas di cui era munito[148]. Lo stesso oratore afferma che il re non fu crudelisimpius, ma soltanto superbus, connotato regio mal sopportato dai senatori[149]. Il dato fa sorgere la questione se la potestas del rex fosse per sua stessa natura amplissima, a fronte della possibilità di una sua modalità alterata che non ne mutava la natura.

Sebbene in letteratura l’argomento relativo al potere regio sia stato largamente discusso tra gli studiosi che sostengono l’assolutezza di tale potere[150], seppur con qualche restrizione prevista dal sistema costituzionale[151], e coloro che rinvengono invece delle limitazioni[152], non si è sottolineata sufficientemente l’affermazione ciceroniana per cui l’ultimo re non era impius[153] e, al pari dei suoi predecessori, osservava gli auspici[154], ovvero la manifestazione del potere umano nella sfera religiosa[155], e dunque ossequiava il ius sacrum e al contempo esercitava il suo potere umano rispettando le indicazioni divine.

Il sistema del Regnum era incentrato su antiche concezioni per cui il fas e il ius possedevano la medesima origine genetica[156] e rimasero sempre interconnessi nonostante la loro successiva separazione[157]. Questa prospettiva può essere apprezzata ancora nel Digesto che conserva la celebre tripartizione ulpianea del diritto pubblico che in sacris in sacerdotibus, in magistratibus consistit[158].

La religio Romana era prettamente civica, come si evince dalla asserzione ciceroniana “Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis[159], ed era imperniata sui riti. In riferimento a questa peculiarità, l’oratore accosta l’aggettivo pius al termine cultus affermando che la religione deorum cultu pio continetur[160]. In tale contesto, dunque, si deve svolgere lo studio intorno al potere regio.

 

 

3. – Il rex, gli dèi, i sacra

 

Tito Livio narra che, dopo la loro cacciata, i Tarquini si rivolsero a Porsenna, presso cui si erano rifugiati, pregandolo di intervenire in loro aiuto. Tra le varie richieste menzionate dallo storico si rinviene una pregnante asserzione: adesse finem regnis, rei inter deos hominesque pulcherrimae[161]. Benché di parte, questa dichiarazione converge con l’idea risultante dalle fonti che riconosceva al rex del populus Romanus il ruolo di “magnifique intermédiaire”[162] tra uomini e dèi.

Nella descrizione della costituzione romulea, Dionigi di Alicarnasso[163] illustra le prerogative del potere regio, iniziando volutamente dalla sfera del sacro. Come prima cosa, l’autore delle Antichità romane fa riferimento alla preminenza del re nel compimento non solo delle cerimonie religiose, ma anche di tutto ciò che concerne il culto degli dèi[164].

I re romani appaiono centrali nell’organizzazione religiosa, specialmente per l’istituzione di sacerdozi, cerimonie, culti, e la dedica di luoghi sacri, spesso in seguito all’adempimento di vota[165]. In merito, non mancano, testimonianze relative anche a Tarquinio il Superbo[166], il quale, nonostante sia stato connotato negativamente, è rappresentato dal racconto tradizionale come interprete, seppur improvvido, della volontà degli dèi[167], degno di ricevere importanti testi liturgici, quali i libri sibillini[168] alla cui lettura si ricorreva in casi di particolare gravità[169], e come lungimirante personaggio che, con la vendita del bottino ottenuto dalla conquista militare di Suessa Pomezia, concepì la costruzione di un tempio in onore di Giove al fine di affermare la potenza di Roma[170].

Nella memoria romana i reges si confrontavano costantemente con il mondo del sacro, e vi è traccia di contatti diretti con l’elemento divino, di tipo stabile, od occasionale. A tal fine si devono ricordare il legame intrecciato da Numa con la ninfa Egeria[171], e quello tra Servio Tullio e Fortuna[172], anche se l’abbandono di questa divinità comportò per il re una drammatica fine[173].

Come esempio di incontri tra re e divinità dettati da motivi contingenti, si deve qui richiamare il famoso dialogo tra Numa Pompilio e Iuppiter. Secondo la descrizione dettagliata offerta dai versi di Ovidio[174], a causa di una spropositata caduta di fulmini, il rex per provvedere al presagio, su consiglio di Egeria, pose in atto uno stratagemma a discapito di Fauno[175] e Pico[176], i quali furono costretti ad attirare Giove Elicio sulla terra[177]. Le fonti[178], descrivendo il dialogo che ne scaturì tra il re dei Romani e il dio[179], caratterizzano Numa munito di cautela e di timore, ma al tempo stesso dotato di intraprendenza nel rapportarsi con il divino, tale da proporre a Giove la sostituzione di vittime sacrificali umane con cose e animali[180]. Il secondo re dei Romani riuscì, dunque, a preservare la comunità cittadina dalla collera della massima divinità romana, e ottenere il rito della procuratio[181].

La tradizione conserva un altro caso in cui Numa, ponendo in essere il rito della incubazione, entrò in contatto con Fauno, allo scopo di conoscere il modo di superare una carestia causata dalla sterilità che aveva colpito animali e campi[182]. In tal modo, il re durante il sonno ottenne un’oscura profezia dal dio, la cui interpretazione portò all’istituzione del culto dei fordicidia[183].

In questi episodi esemplari emerge la rappresentazione di Numa nell’immaginario romano non solo quale riformatore delle istituzioni religiose[184], ma anche come esatto e cauto interprete delle parole divine, al fine di evitare l’infausta rottura della pax deorum[185], e tramite per superare situazioni critiche del sistema civico[186]. È del tutto evidente che la potenza del re evocata nella v. Ordo sacerdotum di Festo si collegava alla possibilità di confrontarsi con gli dèi allo scopo di proteggere gli interessi vitali dell’Urbe.

Sebbene sussistessero, per conferire sacri natali all’Urbe, delle tradizioni intorno all’origine divina di alcuni reges[187], questi mentre erano ancora in vita non furono mai ritenuti delle divinità dai Romani[188]. Per tale ragione il re era comunque considerato fallibile; la sua potentia, quindi, non concerneva tanto una caratteristica personale, quanto la sanctitas richiamata da Giulio Cesare[189]. L’esercizio della scientia di onorare le divinità permetteva al rex romano di sovraintendere a quei sacra che richiedevano grande accortezza in quanto tenuti distanti dalla generalità degli uomini[190]. In tal senso è degna di nota la tragica fine di Tullo Ostilio, il quale fu fulminato insieme alla sua domus da Giove Elicio. Il re fu, infatti, sconsiderato nel porre in essere il rito necessario per attrarre i fulmini sulla terra[191], tratto dagli occulta sollemnia sacrificia Iovi Elicio facta conservati nei commentarii di Numa Pompilio[192]. Secondo la mentalità romana, quindi, l’assenza di cautela in ambito religioso poteva produrre gravi ripercussioni anche nella persona del re, come detto, considerato pur sempre un uomo fallibile. Alla morte di Tullo Ostilio, Anco Marcio ritenne che il regno del suo predecessore avesse come punto debole l’indifferenza, o la pratica irregolare delle cerimonie religiose, per questo decise di ristabilire i sacra publica istituiti dal nonno materno, ordinando al pontefice massimo di esporre al pubblico il contenuto dei commentarii regii[193].

L’intervento di Anco Marcio lascia trapelare la conferma che l’operato del re potentissimus in ambito del sacrum fosse mirato alla salvaguardia della pace stabilita tra il popolo Romano e gli dèi a partire dalla fondazione della città.

Le fonti attestano un rapporto costante tra i cittadini e il re, non solo per la celebrazione di riti, ma anche per la condivisione di importanti comunicazioni[194]. Non è un caso che secondo i Fasti di Ovidio[195], Numa Pompilio, subito dopo l’incontro con Giove Elicio, raccontò l’accaduto ai concittadini, svelando che Iuppiter imperii pignora certa dabi. Il giorno dopo, ovvero il 1° marzo giorno di calende, tutti assistettero all’importante prodigio dell’ancile[196].

La prospettiva per cui l’operato regio mirava all’ampliamento e al potenziamento della civitas Romana, finalità ben riassunte da Sallustio[197], può spiegare il motivo per cui nel testo di alcuni atti ufficiali non si menzionasse il rex. Un esempio in tal senso è rappresentato dal più antico trattato di cui si aveva memoria[198], stretto tra Romani e Albani[199] durante il regnum di Tullo Ostilio[200]. Si tratta di una formula originale rivolta direttamente a Giove, al pater patratus populi Albani e allo stesso popolo di Alba Longa, con cui il populus Romanus, e non il re, accettava le clausole dell’accordo.

La stessa evidenza emerge anche negli altri carmina feziali[201] tramandati da Livio, da ritenersi nel loro complesso attendibili e derivati dagli archivi sacerdotali[202]: la rerum repetitio dove il sacerdote si dichiara publicus nuntius[203], la testatio, nel caso il popolo straniero non avesse ottemperato alle richieste romane[204], e la indictio belli[205].

Il coinvolgimento in prima persona del re risulta, invece, nella deditio di Collatia. Secondo la formula recitata da Tarquinio Prisco, egli chiese che i legati oratoresque inviati dalla città, il populus Conlatinus e tutte le res fossero in dicionem sua e del popolo Romano[206]. La locuzione in dicionem, propria della deditio[207], esprime una condizione di supremazia e dominio[208] e rappresenta una definizione generica di potere, infatti, stando a Livio, nel carmen per la deditio di Capua nel 343 a.C. il populus Campanus urbsque Capua si poneva in dicione non solo del popolo Romano ma anche dei patres[209]. In alcune fonti il termine dicio è accostato, anche in forma endiadica, a potestas[210] e a imperium[211], e ciò mostra vicinanza di senso ma al contempo alterità. La definizione del termine dicio si rinviene presso i commentatori di Virgilio i quali accentuano questa contiguità semantica: per Mauro Servio Onorato l’espressione omni dicione significa ‘omni potestate’, id est pace legibus bello[212], rimandando a materie quali pace, leggi e guerra, di competenza del popolo Romano; mentre secondo Servio Danielino[213], dicione potestas dictis constat, id est imperio.

Riassumendo, negli antichi carmina l’unico soggetto di Roma dei rapporti inter populos è il Popolo, mentre nella formula della deditio la supremazia regia è accostata a quella del populus Romanus: il potere del rex appare quindi sempre funzionale alla vita costituzionale di quest’ultimo.

 

 

4. – Il rex e il tempo

 

Secondo la felice definizione di M. Le Glay, i Romani giunsero ben presto a una «conception temporaliste de leur religion», così la vita costituzionale romana ruotò intorno a un calendario «organisé dans le temps, codifié par des prêtes pour rendre à des dieux de plus en plus nombreux et personnalisés les honneurs correspondant aux préoccupations saisonnières des hommes»[214]. Il sistema di “qualificazione del tempo”[215] era quindi teso a preservare il pacifico rapporto intercorrente tra i Romani e gli dèi, per questo, la tradizione attribuisce ai reges l’istituzione calendariale[216]. Romolo fissò un anno di 10 mesi[217], basato sul periodo di gestazione, in quanto, come afferma Ovidio, egli era più avvezzo alle guerre piuttosto che agli astri[218], mentre Numa Pompilio introdusse un calendario di 12 mesi, imperniato sulle fasi lunari[219]. In merito è significativo che Livio raffiguri il provvedimento del secondo re di Roma quale premessa al suo ampio progetto di riforma religiosa, attribuendogli inoltre la distinzione sacrale dei giorni fasti dai nefasti[220]. La compositio anni che interessava il rapporto tempo / attività umana / sacrifici fu svolta perite direttamente da questo re, quale prerogativa sacerdotale, per poi essere trasferita al collegio pontificale[221] che vi procedette fino alla riforma di Giulio Cesare[222].

Sotto il profilo religioso, lo scandire del tempo era talmente vitale per la comunità che le liturgie connesse alla conoscenza da parte del popolo della composizione calendariale erano svolte ancora dal rex sacrorum in età repubblicana. Alle calende di ogni mese il re effettuava proclamava il numero di giorni che restavano per arrivare fino alla nonae[223]. Alle none, infatti, il populus si muoveva dalla campagna verso l’Urbe per riunirsi di fronte al re, il quale procedeva alla edictio feriarum. Varrone sottolinea l’arcaicità di tale riunione di cui si trova traccia nei sacra Nonalia, cerimonie a lui contemporanee, durante le quali il re annunciava, presso la sommità del Capitolium le prime feste mensili[224].

 

 

5. – Le richieste rituali dei sacerdotes

 

L’azione dei sacerdoti del popolo Romano[225], al pari di quella regia, era diretta alla salvaguardia dei cittadini, come emerge in particolare dalla antica formula della captio della virgo Vestalis, per cui la sacerdotessa doveva compiere i sacrifici pro populo Romano Quiritibus[226].

Circa i rapporti tra questa pars costituzionale e il re, alcune fonti testimoniano antichi riti pubblici caratterizzati dallo schema domanda-risposta. In particolare, nel rituale svolto per la conclusione del trattato con gli Albani il feziale si rivolse al rex tre volte[227]. Innanzitutto il sacerdote chiese a Tullo Ostilio di ordinargli (il verbo qui utilizzato è iubeo[228]) di foedus ferire con il pater patratus del popolo Albano. Nella procedura si può apprezzare il ruolo apicale del re, tuttavia, risulta alquanto oscura la circostanza per cui il comando regio fosse provocato da impulso sacerdotale. Dopo il iussum, il feziale rivolse la richiesta di sagmina, erba legata ad antiche concezioni sul carattere sacrale di alcuni vegetali[229]. Queste piante erbacee, i sagmina (termine apparentato con sacer, sanciō[230], collegato dal giurista Marciano all’aggettivo sanctum[231]), sono identificate genericamente dalle fonti come verbenae[232]. Il re era quindi colui che decideva sull’utilizzo degli oggetti nelle cerimonie sacre, e che dispensava disposizioni in merito alla qualità di tali res, come mostra la sua risposta circa la purezza dell’herba. Questo episodio non è l’unico esempio in merito: in un’altra antica cerimonia ricordata dai Fasti ovidiani[233], i pontefici chiedevano (petunt) lane rituali (februa), da utilizzare come strumenti di purificazione, al re e al flamen Dialis[234], sacerdote a cui passarono col tempo molti riti di competenza regia[235].

Durante la procedura per la conclusione del foedus, dopo aver raccolto l’erba nell’arx[236], il feziale verbenarius sollecitò il re di “farlo” regius nuntius populi Romani Quiritium, unitamente agli strumenti necessari per il rito (vasa[237]) e ai suoi comites.

La replica “facio” alla invocazione del feziale mostra il re munito della funzione di facere, verbo che, in seno alle numerose accezioni[238], spesso quando è accostato a sacer o a sacrificium, presenta quella di celebrare riti religiosi, sacrificare, agire nell’ambito del diritto sacro[239]. A lui, dunque, spettava il compito di costituire, secondo la prevista cerimonia giuridico-religiosa, il nunzio regio, i vasa e i comites, connotati da carattere sacrale; mentre era sempre il popolo Romano, ancora in età repubblicana, a dare il iussum di concludere un foedus solenne[240]. La risposta regia era condizionata dalla necessità di non ledere sia lui, sia il populus Romanus (sine fraude), sollevandosi in tal modo da ogni responsabilità, al fine di evitare qualsiasi conseguenza negativa[241]. Il termine fraus[242] era utilizzato per le clausole liberatorie nelle formule giuridico-religiose elaborate dall’antica giurisprudenza sacerdotale. Il ricorso al vocabolo in esame, per la «persistenza tenace delle forme arcaiche, sia nelle pratiche cultuali, sia nel linguaggio religioso»[243], si ritrova, infatti, con il medesimo senso semantico[244] nel testo elaborato dal pontefice massimo L. Cornelio Lentulo e proposto al popolo nel 217 a.C. per fare voto di ver sacrum[245].

Le richieste rivolte al re dai sacerdotes potevano riguardare il compimento di una determinata azione. In tale contesto si deve ricordare un oscuro rito risalente all’età del Regnum[246] con cui le vestali rivolgevano al rex sacrorum una esortazione sacrale:

 

Servius, Verg. Aen. 10.228: Vigilasne deum gens Aenea vigila verba sunt sacrorum; nam virgines Vestae certa die ibant ad regem sacrorum et dicebant ‘vigilasne rex? vigila’[247].

 

In letteratura generalmente non v’è certezza sul significato di tale celebrazione[248], ma pare evidente la sua connessione alla cautela prestata dal re verso le res divinae. Il verbo vigilare, del resto, è inserito nel vocabolario delle cerimonie sacre, come attesta il commentatore di Virgilio, Servio, in riferimento a un rito compiuto dal pontefice massimo[249], inoltre, si rinviene anche nell’elenco delle azioni mirate alla conservazione della pax deorum fornito dal discorso di Catone Uticense, riferito da Sallustio[250].

In merito, si deve concordare con Danielle Porte, la quale definisce le vestali come sacerdotesse “de vigilance”[251], e in tale veste esortavano alle sue funzioni il rex. Il rito in esame appare svolto in un’ottica di collaborazione più che di subordinazione: la domanda rivolta dalle vestali è un richiamo anziché un invito. Tale evidenza mostra come il rex potentissimus potesse essere esortato dai sacerdoti a valersi della sua sanctitas attivando la maggiore cautela possibile.

 

 

6. – Tarquinio Prisco e Atto Navio: lo ‘scontro’

 

Come ricorda Cicerone, a Roma inizialmente si ebbero re-auguri, laddove in seguito dei privati furono muniti della religionum auctoritas con cui rexerunt la Res publica[252]. Secondo la tradizione, il primo fu Romolo, definito optumus augur[253], poiché trasse da sé i propri auguria dal volo dei 12 avvoltoi[254]. Si ha notizia, inoltre, che Numa, mosso da profondo scrupolo religioso, dopo l’erezione sull’Aventino di un’ara a Giove Elicio, direttamente consuluit auguriis per conoscere i prodigi da tenere in considerazione[255]. Come è stato sottolineato in letteratura, l’augurium regio interessava qualunque attività della vita cittadina e, sotto il profilo del ius augurale, collocava il re «al di sopra di tutti e quasi in posizione di intermediario fra la comunità e il Dio. Tuttavia l’augurium del rex era limitato dai poteri di auspicazione proprio dei singoli, e dagli auguria degli àuguri»[256]. Del resto, gli augures[257] erano ufficialmente gli interpretes di Iuppiter[258], definiti in un frammento augurale tramandato da Livio come periti religionum iurisque publici[259]. L’importanza dell’interpretatio di questi sacerdoti in seno al popolo Romano, che fu acquisita con il tempo, è posto in evidenza da Cicerone: Maximum autem praestantissimum in re publica ius est augurum cum auctoritate coniunctum[260].

La tradizione romana conserva un famoso caso di “scontro” intercorso tra re e augure, quando, nella cosiddetta fase etrusca del Regnum, al rex mancò l’augurium[261]. L’episodio, riportato da diverse fonti con alcune varianti, vede come protagonisti Tarquinio Prisco e Atto Navio[262], il quale, sebbene di umili origini, raggiunse fama e prestigio grazie alle sue abilità nell’ambito della consultazione augurale[263].

Secondo Livio, durante la guerra contro i Sabini, Tarquinio progettò di rafforzare la cavalleria accostando alle centurie istituite da Romolo delle nuove, a cui avrebbe attribuito il suo nome[264]. Nel proseguo della narrazione, in quello che sembrerebbe un frammento di un’opera di diritto augurale, lo storico ricorda come l’inclitus Atto Navio[265] si oppose al disegno di riforma regia. Livio sottolinea che in merito il fondatore procedette “inaugurato”, alludendo quindi a una carenza nel progetto di Tarquinio pertinente agli auguria: il sacerdote negò si potesse modificare o innovare le centurie nisi aves addixissent[266]. Oltre alla presenza di una motivazione, anche l’utilizzo del verbo negare[267], proprio del linguaggio sacerdotale, fa propendere che si trattasse di un responso probabilmente sollecitato dallo stesso re[268].

La necessità di inauguratio per istituire, o di exauguratio per modificare gli istituti precedenti, emerge anche dal racconto per cui nella riforma di Servio Tullio la cavalleria era costituita da dodici centurie equestri reclutate ex primoribus civitatis, e ulteriori sei che mantennero i nomi originari attribuiti all’atto dell’inaugurazione romulea[269]. Il nomen era dunque connesso alla consultazione augurale[270] come conferma lo stesso Cicerone per cui Tarquinio Prisco, nonostante lo volesse, non poté mutare i nomi delle centurie per l’azione del celeberrimo augure, ma equitatum … constituit sulla base del mos che si era conservato ancora al tempo dell’oratore[271].

Il racconto liviano illustra un dialogo che si conclude con un evento eccezionale. Tarquinio Prisco, irritato dalla risposta di Atto Navio, sfidò l’augure per ridicolizzarne l’ars, chiedendogli se, sulla base degli auguria, fosse possibile fare quello a cui stava pensando; la sfida si concluse con il prodigioso taglio di una pietra con un rasoio da parte del sacerdote[272].

Livio rimarca sia la volontà di tramandare il ricordo del miraculum[273] presso i posteri attraverso la collocazione della cote nel Comizio accanto al punto in cui si eresse una statua di Atto Navio[274], sia l’innalzamento del prestigio degli auguri[275].

Lo storico, inoltre, specifica le modifiche che Tarquinio apportò alle centurie equestri: mantenendo lo stesso nome, salvo attribuire l’appellativo di posteriores[276], il re raddoppiò il numero degli effettivi[277] che salì a 1.800[278]. Si trattò di una operazione per nulla irrituale, infatti, già in precedenza, Tullo Ostilio, con l’accoglimento degli Albani tra la cittadinanza, aveva aumentato il numero dei cavalieri[279].

Un’altra fonte che si è particolarmente soffermata ad illustrare la vicenda in esame è Dionigi di Alicarnasso[280]. Stando alle Antichità romane, Tarquinio Prisco era intenzionato a creare tre nuove tribù (φυλς) di cavalieri (ππων) a cui attribuire il suo nome e quello dei suoi amici: l’augure, qui chiamato Nevio (Νβιος), fu il solo a opporsi con incisività al progetto di riforma poiché non voleva che si mutassero le istituzioni romulee[281]. Rispetto a Livio, tuttavia, qui non si illustrano le motivazioni alla base del dissenso espresso dal sacerdote. Questa, non è l’unica fonte che parla di tribù: secondo la glossa festina Navia, Tarquinio institutas tribus a Romulo mutare vellet, senza alcun richiamo ai cavalieri[282], però, l’antica cavalleria romulea era collegata alle tribù[283].

Nella narrazione di Dionigi si descrive ugualmente Tarquinio irritato dal diniego, intenzionato perciò a sminuire le conoscenze augurali di Navio e farlo passare per ciarlatano dinnanzi a un vasto pubblico nel Foro[284]. Lo storico di Alicarnasso riporta sempre in forma di dialogo diretto l’episodio del prodigio[285], anche se accoglie un’altra versione per cui è il re a fendere la cote con il rasoio, incidendosi anche in parte la mano[286]; così Tarquinio, oltre a non intraprendere la riforma sperata, fece erigere la statua in bronzo raffigurante l’augure[287]. Dionigi accenna anche al fico Ruminalis[288], che secondo Plinio era in origine situato nei pressi del Lupercal, per poi spostarsi miracolosamente in comitio, proprio davanti al monumento raffigurante Atto Navio[289].

Cicerone non riferisce né del progetto di riforma né di uno scontro tra il sacerdote e il re, anzi tratteggia Tarquinio Prisco come desideroso di mettere alla prova le doti dell’augure riconosciute dalla collettività[290]. L’oratore, dopo aver accennato all’evento miracoloso della cote nel Comizio, mette in risalto l’alta considerazione accordata ad Atto Navio: non solo fu Tarquinio ad avvalersi delle conoscenze dell’augure ma anche il popolo si rivolse a lui per le proprie faccende[291].

L’episodio in esame è stato interpretato dalla letteratura moderna in modo del tutto variegato, talvolta inteso come contrapposizione tra le innovazioni apportate al Regnum da Tarquinio Prisco e lo status quo ante. Una parte degli studiosi ha evidenziato aspetti squisitamente religiosi, in quanto la vicenda raffigurerebbe lo scontro tra la Etrusca disciplina e quella romana[292], tra differenti tecniche augurali[293], oppure sarebbe la rappresentazione della preminenza “of the power of religious sentiment”[294], o la rappresentazione del ruolo svolto dagli auguri in seno al sistema costituzionale romano[295]. Un’ulteriore interpretazione studia l’aneddoto sotto il profilo politico e sociale, per cui a fronte del tentativo di riforme istituzionali di Tarquinio Prisco, Atto Navio è inteso come il campione delle antiche curie e dell’ordine patrizio[296], oppure dello “Staatskirchentum”[297].

Ai fini della presente indagine è tuttavia rilevante sottolineare come nella memoria romana si contemplasse la possibilità che le scelte politiche del re fossero compromesse dalla “subordinazione” di questo alla interpretatio sacerdotale[298].

 

 

7. – Riflessioni conclusive

 

Tirando le somme di quanto fin qui analizzato si può così schematizzare:

1) Il potere del re era espressione della originaria unità genetica del fas e del ius[299]; questo era unitario e si esercitava nel rispetto della pax deorum che comportava incremento demografico e crescita della potenza politico-militare del popolo Romano. I dettati del fas chiariti dalla interpretatio sacerdotale prevalevano sulle mere scelte politiche regie, come è attestato dalla vicenda dello “scontro” tra Tarquinio Prisco e Atto Navio.

2) L’ordo sacerdotum ricordato da Festus, De verb. sign., p. 198 L. non rappresentava un sistema squisitamente piramidale, ma si trattava di una gerarchia funzionale basata su distinte competenze sacerdotali simmetriche a quelle degli dèi di riferimento (la totalità per rex e pontifex maximus - specifiche divinità per cui erano preposti i flamini maggiori).

3) Nella glossa festina il re è definito con il superlativo di potens, ma ciò non escludeva che anche gli altri sacerdoti fossero muniti di poteri. A riguardo, si deve segnalare che, in merito all’etimo di pontifex, il giurista, e pontefice massimo, Quinto Mucio Scevola[300] sosteneva la derivazione del termine da posse[301] e facere, verbi collegati al potere di compiere rituali religiosi[302]. Quali parti del sistema giuridico-religioso, il re, fulcro delle cerimonie sacre, e i sacerdotes interagivano, specie secondo un antico schema di domanda e risposta[303].

4) La potentia a cui allude la glossa festina, seppur collegata alla potenza divina, non trasformava re (e sacerdoti) in divinità, e non rendeva loro infallibili. Significativo che le vergini vestali ammonissero ritualmente i reges a vigilare[304]; mentre durante la Repubblica qui belli susceperat curam si rivolgeva in tali termini a Marte[305].

5) La qualità di potentissimus riconosciuta da Festo al rex non riguardava il potere civile, perché era attributo ancora del rex sacrorum; mentre non era riferita ai magistrati repubblicani.

6) La potentia del re non era collegata all’augurium (derivante dall’inauguratio), poiché nella glossa l’ordo sacerdotum è simmetrico all’ordine delle divinità e non alle competenze augurali; peraltro l’episodio di Tarquinio e Atto Navio dimostra come, durante la cosiddetta fase etrusca del Regnum, il re era privo di augurium, laddove durante la Repubblica il rex sacrorum era inaugurato.

7) La potentia doveva quindi riguardare la materia religiosa di competenza, ovvero le divinità e i relativi i riti. Cesare attribuiva ai re romani la sanctitas[306], ossia la scientia colendorum deorum[307]. I riti celebrati dai re (compreso l’ultimo Tarquinio che non era impius[308]) erano massimamente votati alla vita del popolo Romano, così necessari e inderogabili per la comunità da essere perpetuati ancora durante la Repubblica, nonostante il sentimento dell’odium regni.

8) La matrice ideologia repubblicana alla base della tripartizione ulpianea del ius publicus[309] era frutto della tendenza sacerdotale conservatrice per cui i sacerdotia furono anteposti agli honores[310]. Questo orientamento sembra aver preso le mosse almeno a partire dalla Roma, come appare dall’episodio del miracolo della cote. Il fenomeno di “secolarizzazione” del potere del re, in favore dei sacerdoti, tuttavia, trovava le sue radici su prodromi più antichi. La sanctitas, infatti, si collegava a una parte inaccessibile ai più della religio Romana[311], di cui un esempio è il nome segreto della divinità tutelare di Roma custodito dai pontefici[312], che in passato si poteva pronunciare nei riti tenuti celati da una fides, definita optima e salutaris[313]. La base originaria dei libri dei pontifices erano gli appellativi degli di indigetes[314], preservati, unitamente alle rationes ipsorum nominum[315], poiché vulgari non licet[316]. La stesura per iscritto degli indigitamenta era attribuita dalle fonti a Numa Pompilio[317], il quale trasferì i testi al collegio, affidando al pontefice sacra omnia exscripta exsignataque[318]. Si registra quindi il passaggio di competenze dal rex ai sacerdoti, tra i quali si deve segnalare specialmente il flamen Dialis, adornato di veste e sella curule dal re sabino, e investito di cura sacrorum da Anco Marcio[319].

 

 

Abstract

 

Cette enquête vise à clarifier l’extension de la potestas regia à la lumière des preuves issues dans le domaine religieux. Dans le lemme Ordo sacerdotum de Festus, le rex tient la position apicale quia potentissimus. La potentia à laquelle se réfère le grammairien était liée au pouvoir divine, et, comme le confirme l’affirmation de César (Svetonius, Iul. 6.1), concernait la sanctitas, c’est-à-dire la scientia colendorum deorum (Cicero, De nat. deor. 1.116). L’interprétation du fas, cependant, était divisée sur la base de la compétence sacerdotale, et donc, pourrait délimiter, potentiellement, les choix politiques du roi.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

[1] Per l’opera di questo autore, si rinvia al fondamentale lavoro di F. Bona, Contributo allo studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964. Per l’utilizzo di Sesto Pompeo Festo dell’opera di Verrio Flacco, si segnala C. Codoner, El De significatu uerborum de Festo: ¿un compendio?, in Forme di accesso al sapere in età tardoantica e altomedievale, VI. Raccolta delle relazioni discusse nell’incontro internazionale di Trieste, Biblioteca statale, 24-25 settembre 2015, a cura di L. Cristante e V. Veronesi, Trieste 2016, 1 ss.

[2] Macrobius, Sat. 1.15.21.

[3] Tra coloro che affermano l’antichità dell’ordo in esame, si segnala: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1889, 265; R. Schilling, L’originalité du vocabulaire religieux latin, in Revue belge de philologie et d’histoire 49, 1971, 36 (ora in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, 35); G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, 155; H. Le Bourdellès, Nature profonde du pontificat romain. Tentative d’une étymologie, in Revue de l’histoire des religions 189, 1976, 58; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica. I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 15 e 26 nt. 6; Id., Diritto e pax deorum in Roma antica, in Diritto @ Storia 5, 2006, § 6, http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano. L’età di Publio Licinio Crasso (212-183 a.C.), Napoli 2008, 173; A. Schiavone, Il re, l’ariete, la città, il gregge, in ‘Iuris quidditas’. Liber amicorum per B. Santalucia, Napoli 2010, 335. Vedi anche C. Ampolo, Roma arcaica ed i Latini nel V secolo, in Crise et transformation des sociétés archaïques de l’Italie antique au Ve siècle av. J.C. Actes de la table ronde de Rome (19-21 novembre 1987), Rome 1990, 132, per cui l’ordo sacerdotum «riflette realtà arcaiche»; E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, Milano 2010, 121 ss.: «L’ordo sacerdotum appare […] la gerarchia dei cinque sacerdoti che furono più anticamente e strettamente legati tra loro». Cfr. anche P. de Francisci, Primordia civitatis, Romae 1959, 365: «Il passo deriva certamente da un testo ufficiale, probabilmente dai commentarii pontificum e risale sicuramente ad epoca antica e, quanto meno, alla fase repubblicana».

[4] In generale, sui pontifices, oltre alla fondamentale opera di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome. Étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an., New York 1975], vedi specialmente: K.D. Hüllmann, Ius pontificium der Römer, Bonn 1837; J. Cauvet, Le droit pontifical chez les anciens romains dans ses rapports avec le droit civil. Étude sur les antiquités juridiques de Rome, Caen 1869; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 281 ss.; E. Aust, Die Religion der Römer, Münster i. W. 1899, 183 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912 [rist., München 1971], 501 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, 40 ss.; P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 440 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 400 ss., 195 ss.; M. Le Glay, La religion romaine, Paris 1971, 142 ss.; J. Guillén, Los sacerdotes romanos, in Helmantica 24, 1973, 21 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 116 ss.; G.J. Szemler, v. Pontifex, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, Suppl. XV, München 1978, coll. 331 ss.; R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes romains: Pontifex maximus et rex sacrorum, in Hommages à H. Le Bonniec. Res sacrae, a cura di D. Porte e J.-P. Nérandau, Bruxelles 1988, 405 ss.; A.M. Smorchkov, Коллегия понтификов и понтификальное право в российской историографии, in Ius Antiquum - Древнее Право 5, 1999, 109 ss.; Id., Коллегия понтификов, in Aa.Vv., Collegia sacerdotum Romae Primordialis. Ad problemam de incremento iuris sacri et publici, Moskva 2001, 100 ss.; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.). Contribution à l’étude de la religion publique romaine, Bruxelles-Rome 2002; J.A. Delgado Delgado, La legislación pontifical sobre los alimentos empleados en la práctica cultual romana: un modelo de gestión documental, in ’Ilu 12, 2004, 15 ss.; R.T. Ridley, The Absent Pontifex Maximus, in Historia 54, 2005, 275 ss.; C.M.A. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, in Diritto @ Storia 4, 2005, http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm; D. Porte, Le prête à Rome. Les donneurs de sacré, 2ª ed., Paris 2007, 131 ss.; L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano, cit.; Id., Principi di ius pontificium, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito, a cura di S. Randazzo, Tricase 2014, 263 ss.; M. Trommino, Struttura e composizione del collegio dei pontefici. Da Liv., urb. cond. 1.20.5 alla lex Ogulnia, una panoramica delle fonti, in Rivista di Diritto Romano 14, 2014, 1 ss. Cfr. per l’età imperiale: F. Van Haeperen, Des pontifes païens aux pontifes chrétiens. Transformations d’un titre: entre pouvoirs et représentations, in Revue belge de philologie et d’histoire 81, 2003, 137 ss.; A. Cameron, The Imperial Pontifex, in Harvard Studies in Classical Philology 103, 2007, 341 ss.

[5] Livius 1.20.2: testo infra, nt. 25.

[6] Nelle fonti i tre flamini maggiori e il rex sacrorum sono accomunati in relazione ai requisiti per divenire sacerdoti (Gaius, Inst. 1.112: Quod ius etiam nostris temporibus in usu est: nam flamines maiores, id est Diales, Martiales, Quirinales, item reges sacrorum, nisi ex farreatis nati non leguntur: ac ne ipsi quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt), alla inauguratio (Gellius, Noct. Att. 15.27.1: In libro Laelii Felicis ad Q. Mucium primo scriptum est Labeonem scribere ‘calata’ comitia esse, quae pro conlegio pontificum habentur aut regis aut flaminum inaugurandorum causa), ad alcuni divieti, come quello di non vedere lavorare durante le feriae (Macrobius, Sat. 1.16.9: Praeterea regem sacrorum flaminesque non licebat videre feriis opus fieri et ideo per praeconem denuntiabant nequid tale ageretur, et praecepti neglegens multabatur), ed anche nella lex tabulae Heracleensis, solitamente identificata in letteratura con la lex Iulia municipalis del 45 a.C., dove, unitamente alle vestali, sono i destinatari del privilegio di circolare nell’area urbana con il carro in caso di sacra publica (CIL I2.2.1, nr. 593, 482 ss., ll. 62 s.: Quibus diebus virgines Vestales re<gem> sacrorum, flamines plostreis in urbe sacrorum publicorum p(opuli) R(omani) caussa / vehi oportebit). Per i rapporti tra Le rex et les flamines maiores, si rinvia a G. Dumézil, in La regalità sacra. Contributi al tema dell’VIII congresso internazionale di storia delle religioni (Roma, aprile 1955), Leiden 1959, 407 ss.

[7] Si deve concordare in merito con F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 26 nt. 6: «Di antichissima redazione doveva essere l’ordo sacerdotum, conservatosi nella sua arcaica gerarchia ancora ai tempi di Festo, o almeno della sua fonte Verrio Flacco, quando certamente non corrispondeva più ai reali rapporti di potere all’interno dell’ordinamento sacerdotale […] come è attestato dalle attribuzioni ascritte al pontifex maximus, che appaiono elaborate in età successiva alla definizione dell’ordo».

[8] Su questo sacerdote, vedi, ma senza pretesa di completezza: J.A. Ambrosch, Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, 41 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, tr. fr. di M. Brissaud, Paris 1890, 1 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 504 ss.; B.R. Burchett, The Divine Character of the Rex Sacrorum, in The Classical Weekly 8, 1914, 33 ss.; V. Groh, La cacciata dei re romani. Analisi letteraria e storica, in Athenaeum 6, 1928, 312 ss.; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., 47 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, IV. La fondazione dell’impero, II.1. Vita e pensiero nell’età delle grandi conquiste, Firenze 1953 [rist., Firenze 1963], 354 ss.; G. Chicca, Orientamenti per la storia del diritto romano delle origini (fino alla legislazione decemvirale), Napoli 1956, 81 ss.; G. Dumézil, Le rex et les flamines maiores, cit., 407 ss.; A. Momigliano, Il ‘rex sacrorum’ e l’origine della repubblica, in Studi in onore di E. Volterra, I, Milano 1971, 357 ss. (ora in Id., Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, 395 ss. = Id., Roma arcaica, Firenze 1989, 165 ss.); C. Ampolo, Analogie e rapporti fra Atene e Roma arcaica. Osservazioni sulla Regia, sul Rex sacrorum e sul culto di Vesta, in La Parola del Passato 26, 1971, 443 ss.; J. Guillén, Los sacerdotes romanos, cit., 38 s.; M.A. Marcos Casquero, La figura del Rex sacrorum y la Primitiva Monarquía Romana, in Estudios Humanísticos Filología 10, 1988, 11 ss.; R. Seguin, Remarques sur les origines des pontifes romains, cit., 405 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani. La religione e il sacro in Roma antica, Milano 1992, 126 ss.; F. Blaive, Rex sacrorum. Recherches sur la fonction religieuse de la royauté romaine, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 42, 1995, 125 ss.; M. Beard-J. North-S. Price, Religions of Rome, I. A History, Cambridge 1998, 54 ss.; R. Turcan, Rome et ses dieux, Paris 1998, 82 s.; B. Liou-Gille, Les Agonia, le rex sacrorum et l’organisation du calendrier, in Euphrosyne 28, 2000, 41 ss.; D. Porte, Le prête à Rome, cit., 89 ss.; E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit.; I.J. Álvarez Soria, El rex sacrorum: ¿fenómeno romano?, in Antesteria 5, 2016, 133 ss.; M. Humm, La Regia, le rex sacrorum et la Res publica, in Archimède 4, 2017, 129 ss.

[9] Livius 2.2.2: Id sacerdotium pontifici subiecere, ne additus nomini honos aliquid libertati, cuius tunc prima erat cura, officeret. Intorno alla creazione di questo sacerdote, vedi anche: Dionysius Halicarnassensis 5.1.4: πειδ δ πολλν κα μεγλων γαθν ατιοι γεγονναι τος κοινος πργμασιν δοξαν ο βασιλες, φυλττειν τονομα τς ρχς, σον ν πλις διαμν χρνον, βουλμενοι τος εροφντας τε κα οωνομντεις κλευσαν ποδεξαι τν πιτηδειτατον τν πρεσβυτρων, ς οδενς μελλεν ξειν τρου πλν τν περ τ θεα σεβασμν τν προστασαν, πσης λειτουργας πολεμικς κα πολιτικς φειμνος, ερν καλομενος βασιλες. Κα καθσταται πρτος ερν βασιλες Μνιος Παπριος κ τν πατρικων νρ συχας φλος, il quale collega la creazione della eminente carica sacerdotale alla volontà di conservare il nome e la dignità regia; Plutarchus, Quaest. Rom. 63: τ παλαιν ο βασιλες τ πλεστα κα μγιστα τν ερν δρων κα τς θυσας θυον ατο μετ τν ερων, πε δ´ οκ μετραζον λλ´ σαν περφανοι κα βαρες, τν μν λλνων ο πλεστοι τν ξουσαν ατν περιελμενοι μνον τ θειν τος θεος πλιπον, ωμαοι δ παντπασι τος βασιλες κβαλντες λλον π τς θυσας ταξαν, οτ´ ρχειν ἐάσαντες οτε δημαγωγεν, πως μνον ν τος ερος βασιλεεσθαι δοκσι κα βασιλεαν δι τος θεος πομνειν; στι γον τις ν γορ θυσα πρς τ λεγομν Κομιτίῳ πτριος, ν θσας βασιλες κατ τχος πεισι φεγων ξ γορς; Festus, De verb. sign., p. 422 L.: Sacrificulus <rex appellatur,> qui ea sacra, quae <reges facere a>ssueverant, facit. <Quem creasse dicit>ur post reges ex<pulsos Iunius Br>utus. Per i rapporti tra il pontefice massimo e il rex sacrorum, specialmente E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit., 107 ss.

[10] Livius 40.42.8-11: De rege sacrific<ul>o sufficiendo in locum C<n>. Corneli Dolabellae contentio inter C. Servilium pontificem maximum fuit et L. Cornelium Dolabellam duumvirum navalem, quem ut inauguraret pontifex magistratu sese abdicare iubebat. 9. Recusantique id facere ob eam rem multa duumviro dicta a pontifice, deque ea, cum provocasset, certatum ad populum. 10. Cum plures iam tribus intro vocatae dicto esse audientem pontifici duumvirum iuberent, multamque remitti si magistratu se abdicasset, vitium de caelo, quod comitia turbaret, intervenit. 11. Religio inde fuit pontificibus inaugurandi Dolabellae. P. Cloelium Siculum inaugurarunt, qui secundo loco nominatus erat. Sulle questioni giuridiche emergenti dal passo, specialmente intorno allo status giuridico del sacerdote captus ma non ancora inauguratus, vedi L. Franchini, Aspetti giuridici del pontificato romano, cit., 168 s. nt. 252.

[11] Vedi, ad esempio, Cicero, Philipp. XI.18, il quale ricorda la multa inflitta nel 131 a.C. dal pontifex maximus e consul, P. Licinio Crasso Muciano, al collega e flamen Martialis, L. Valerio Flacco; Livius 37.51.1-6, per cui il sacerdote vietò al flamen Quirinalis e pretore di partire per la Sardegna.

[12] Vedi, ad esempio, Dionysius Halicarnassensis 5.1.4: πειδ δ πολλν κα μεγλων γαθν ατιοι γεγονναι τος κοινος πργμασιν δοξαν ο βασιλες, φυλττειν τονομα τς ρχς, σον ν πλις διαμν χρνον, βουλμενοι τος εροφντας τε κα οωνομντεις κλευσαν ποδεξαι τν πιτηδειτατον τν πρεσβυτρων, ς οδενς μελλεν ξειν τρου πλν τν περ τ θεα σεβασμν τν προστασαν, πσης λειτουργας πολεμικς κα πολιτικς φειμνος, ερν καλομενος βασιλες. Κα καθσταται πρτος ερν βασιλες Μνιος Παπριος κ τν πατρικων νρ συχας φλος. In letteratura, spesso attraverso enunciazioni colorite, sottolineando l’assenza di un potere politico, si definisce il sacerdozio in esame, ad esempio, come “sosie républicain du roi” (A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., 302), oppure “una larva dell’originaria monarchia” (V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, Napoli 1937, 25).

[13] Livius 9.34.12. Cfr. Seneca phil., De ben. 7.5.1: Etenim sic omnia sapientis esse dico, ut nihilo minus proprium quisque in rebus suis dominium habeat, quemadmodum sub optimo rege omnia rex inperio possidet, singuli dominio.

[14] Rispetto al nomen di rex, vedi Livius 3.39.4: Nec nominis homines tum pertaesum esse, quippe quo Iovem appellari fas sit, quo Romulum, conditorem urbis, deincepsque reges, quod sacris etiam ut sollemne retentum sit. Secondo R. Schilling, L’originalité du vocabulaire religieux latin, cit., 36 (= Id., Rites, cultes, dieux de Rome, cit., 35), nella locuzione rex sacrificulus o sacrorum «l’adjectif ou le complément marquant la limitation de ses fonctions au domaine sacré».

[15] Plutarchus, Quaest. Rom. 63 (testo supra, nt. 9). Per il considerevole impiego, caratterizzato da massima ‘duttilità’ semantica, dei termini δημαγωγός, δημαγωγία e δημαγωγεν, in Plutarco, G. Urso, Δημαγωγοί e δημαγωγία nella storiografia greca d’età romana, in Erga-Logoi. Rivista di storia, letteratura, diritto e culture dell’antichità 7.2, 2019, 83 ss., spec. 97 ss. (https://dx.doi.org/10.7358/erga-2019-002-urso).

[16] In tal senso, G. Aricò Anselmo, Antiche regole procedurali e nuove prospettive per la storia dei comitia, Torino 2012, 352 s. nt. 1128.

[17] Ad esempio, tra le feriae stativae, cioè quelle festività dell’universus populus che si svolgevano in date fisse e invariabili (Macrobius, Sat. 1.16.6), si devono ricordare gli agonalia del 9 gennaio, le cui origini erano sconosciute agli stessi Romani (Varro, De ling. lat. 6.14: In libris Saliorum quorum cognomen Agonensium forsitan hic dies ideo appelletur potius Agonia; Ovidius, Fast. 1.333: Utque ea non certa est ... Come afferma A. Schiavone, Il re, l’ariete, la città, il gregge, cit., 334 s.: «proprio questa incertezza rivela l’antichità della cerimonia: perché vi traspare una struttura teologica remotissima, forse addirittura precittadina»). In un brano varroniano di non facile lettura dai risvolti differenti a seconda dell’edizione di riferimento (De ling. lat. 6.12: Dies Agonales, per quos rex in Regia arietem immolat, dicti ab agone, eo quod interrogatur a principe civitatis et princeps gregis immolatur, ed. P. Flobert, Paris 1985, 9), si descrive la cerimonia dove il re, definito princeps civitatis, era il protagonista di un importante momento della vita cittadina. Per un’analisi delle cerimonie celebrate dal rex sacrorum collegate alla scansione sacrale del tempo, vedi A.M. Smorčkov, Regnum et sacrum: о характере царской власти в Древнем Риме (Regnum et sacrum: sul carattere del potere regio nell’Antica Roma), in Ius Antiquum. Древнее Право 2.10, 2002, 40 ss.

[18] In merito all’importanza dei sacra officiati dal rex, che non si potevano trascurare neppure in momenti cruciali della vita della civitas, vedi anche il racconto di Livius 1.33.1 (testo infra, nt. 235), secondo cui Anco Marcio, impegnato in operazioni belliche, trasferì la cura sacrorum ai flamines e a non ben definiti sacerdoti.

[19] La rilevanza di tale sacerdozio resterà a lungo nel tempo, vedi, in tal senso, Scriptores Historiae Augustae (Trebellius Pollio), XXII. Valerian. duo 6.3, dove si riporta il discorso pubblico tenuto nel 251 da Decio, in seguito della elevazione alla censura di Valeriano: ... tu de nostro Palatio, tu de iudicibus, tu de praefectis eminentissimis iudicabis, excepto denique praefecto urbis Romae, exceptis consulibus ordinariis et sacrorum rege ac maxima virgine Vestalium - si tamen incorrupta permanebit -, de omnibus sententias feres, laborabunt autem etiam illi, ut tibi placeant, de quibus non potes iudicare (contro l’attendibilità della notizia, da ultimo, E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit., 179 nt. 86).

Intorno al fenomeno repubblicano che vide l’esautoramento dei poteri del rex sacrorum, talvolta qualificato in termini di “usurpazione” (Festus, De verb. sign., p. 346 L.: <Regia> --- quod in fanum a pon<tifice> ---tant, quod in ea sa<cra fiunt quaedam a rege sol>ita usurpari), alcuni studiosi parlano di graduale acquisizione da parte del pontefice massimo (ad esempio: P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano 1941, 165 s., Id., Primordia civitatis, cit., 365, 489, 494 s. e nt. 392, 545, 577 e nt. 87, 587 ss. e nt. 144, G.J. Szemler, The Priests of the Roman Republic. A Study of Interactions Between Priesthoods and Magistracies, Bruxelles 1972, 63; A. Magdelain, La loi à Rome. Histoire d’un concept, Paris 1978, 82 s.; Id., «Quando rex comitiavit fas», in Revue Historique des Droits de l’Antiquité 58, 1980, 7, ora in Id., Jus imperium auctoritas. études de droit romain, Rome 1990, 273; G. Radke, Fasti Romani. Betrachtungen zur Frühgeschichte des römischen Kalenders, Münster 1990, 15), oppure dell’intero collegio (J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, 2ª ed., Paris 1980, 18, per il quale «partout le collège réussit à éliminer le rex sacrorum»), altri, invece, asseriscono la preminenza del pontifex maximus fin dall’indomani della cacciata dei re (L. Landucci, Storia del diritto romano dalle origini fino alla morte di Giustiniano. I. Introduzione – Storia delle fonti – Storia del diritto pubblico – Storia del diritto penale, 2ª ed., Verona-Padova 1898, 569; A. Momigliano, Il ‘rex sacrorum’ e l’origine della repubblica, cit., 362 = Id., Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, cit., 168 = Id., Roma arcaica, cit., 168).

[20] E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit., 111, sottolinea il valore generale dell’ordo sacerdotum illustrato nella glossa festina che «quindi, nei banchetti non trova altro che una sua semplice manifestazione concreta».

[21] Gellius, Noct. Att. 10.15.21: Super flaminem Dialem in convivio, nisi rex sacrificulus, haut quisquam alius accumbit; Servius Dan., Verg. Aen. 2.2: non enim licebat supra regem sacrificulum quemquam accumbere.

[22] La data in cui si svolse il banchetto non è un dato assodato in letteratura: Th. Mommsen, Römische Forschungen, III, Berlin 1864, 87 s. e nt. 34, colloca l’evento non prima del 63 a.C.; secondo L. Ross Taylor, Caesar’s colleagues in the pontifical college, in The American Journal of Philology 63, 1942, 389 ss., il convivio si svolse tra il 74-73 e il 69 a.C.; mentre per N. Marinone, Il banchetto dei pontefici in Macrobio, in Maia 22, 1970, 271 ss., la cena ebbe luogo nel 69 a.C. (così anche L.-R. Ménager, Les collèges sacerdotaux, les tribus et la formation primordiale de Rome, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 88, 1976, 466 nt. 1); P. Tansey, The inauguration of Lentulus Niger, in The American Journal of Philology 121, 2000, 237 ss., considera probabile il 22 agosto 70 a.C.; A. Drummond, The Ban on Gentiles Holding the Same Priesthood and Sulla’s Augurate, in Historia 57, 2008, 381 ss., data l’episodio tra il 74-73 e il 63 a.C.

[23] Macrobius, Sat. 3.13.10 s.: Accipite inter gravissimas personas non defuisse luxuriam. Refero enim pontificis vetustissimam cenam quae scripta est in indice quarto Metelli illius pontificis maximi in haec verba: 11. Ante diem nonum kalendas Septembres, quo die Lentulus flamen Martialis inauguratus est, domus ornata fuit, triclinia lectis eburneis strata fuerunt, duobus tricliniis pontifices cubuerunt, Q. Catulus, M. Aemilius Lepidus, D. Silanus, C. Caesar, --- rex sacrorum, P. Scaevola, Sextus ---, Q. Cornelius, P. Volumnius, P. Albinovanus et L. Iulius Caesar augur qui eum inauguravit, in tertio triclinio Popilia Perpennia Licinia Arruntia virgines Vestales et ipsius uxor Publicia flaminica et Sempronia socrus eius.

[24] Cicero, De dom. 135: Qua re quis est qui existimare possit huic novo pontifici primam hanc post sacerdotium initum religionem instituenti vocemque mittenti non et linguam ommutuisse et manum obtorpuisse et mentem debilitatam metu concidisse, praesertim cum ex collegio tanto non regem, non flaminem, non pontificem videret fierique particeps invitus alieni sceleris cogeretur et gravissimas poenas adfinitatis impurissimae sustineret?

[25] Livius 1.20.2-5: Sed quia in civitate bellicosa plures Romuli quam Numae similes reges putabat fore iturosque ipsos ad bella, ne sacra regiae vicis desererentur, flaminem Iovi adsiduum sacerdotem creavit insignique eum veste et curuli regia sella adornavit. Huic duos flamines adiecit, Marti unum, alterum Quirino; 3. virginesque Vestae legit, Alba oriundum sacerdotium et genti conditoris haud alienum. Iis, ut adsiduae templi antistites essent, stipendium de publico statuit, virginitate aliisque caerimoniis venerabiles ac sanctas fecit. 4. Salios item duodecim Marti Gradivo legit tunicaeque pictae insigne dedit et super tunicam aeneum pectori tegumen caelestiaque arma, quae ancilia appellantur, ferre ac per urbem ire canentes carmina cum tripudiis sollemnique saltatu iussit. 5. Pontificem deinde Numam Marcium, Marci filium, ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque attribuit ...

Diverso, invece, l’ordine presentato da Cicero, De re publ. 2.26: ... Pompilius... ad pristinum numerum duo augures addidit, et sacris e principum numero pontifices quinque praefecit, ... adiunxitque praeterea flamines Salios virginesque Vestales, omnisque partis religionis statuit sanctissime, e da Dionysius Halicarnassensis 2.64-73, il quale, nell’illustrare la riforma religiosa di Numa sulla base di una divisione di otto συμμοραι di cerimonie, parla in sequenza di curioni, flamini, tribuni celeri, auguri, vergini vestali, salii, feziali, pontefici.

[26] Sull’episodio, ad esempio: W. Allen Jr., Cicero’s House and Libertas, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 75, 1944, 1 ss.; B. Berg, Cicero’s Palatine home and Clodius’ shrine of liberty: alternative emblems of the Republic in Cicero’s De domo sua, in Studies in Latin literature and Roman history, VIII, a cura di C. Deroux, Bruxelles 1997, 122 ss.; M. Beard-J. North-S. Price, Religions of Rome, I, cit., 114 ss.; C.J. Classen, Diritto retorica, politica. La strategia retorica di Cicerone, tr. it., Bologna 1998, 219 ss.; W. Stroh, De Domo Sua: Legal Problem and Structure, in Cicero. The Advocate, a cura di J. Powell e J. Paterson, Oxford 2004, 313 ss.; Y. Berthelet, La consecratio du terrain de la domus palatine de Cicéron, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 128, 2016, 457 ss.

[27] Cicero, De har. resp. 12: At vero meam domum P. Lentulus consul et pontifex, P. Servilius, M. Lucullus, Q. Metellus, M’. Glabrio, M. Messalla, L. Lentulus flamen Martialis, P. Galba, Q. Metellus Scipio, C. Fannius, M. Lepidus, L. Claudius rex sacrorum, M. Scaurus, M. Crassus, C. Curio, Sex. Caesar flamen Quirinalis, Q. Cornelius, P. Albinovanus, Q. Terentius pontifices minores causa cognita, duobus locis dicta, maxima frequentia amplissimorum ac sapientissimorum civium adstante omni religione una mente omnes liberaverunt. Cfr. invece De dom. 127, dove l’ordine dei sacerdoti proposto dalla glossa festina appare rovesciato: Discite orationem, pontifices, et vos, flamines; etiam tu, rex, disce a gentili tuo, quamquam ille gentem istam reliquit, sed tamen disce ab homine religionibus dedito ius totum omnium religionum.

[28] Cicero, De dom. 38: Ita populus Romanus brevi tempore neque regem sacrorum neque flamines nec Salios habebit nec ex parte dimidia reliquos sacerdotes neque auctores centuriatorum et curiatorum comitiorum, auspiciaque populi Romani, si magistratus patricii creati non sint, intereant necesse est, cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium esse et a patriciis prodi necesse est.

[29] Nella lex tabulae Heracleensis, CIL I2.2.1, nr. 593, 482 ss., ll. 62 s., si menzionano nell’ordine vestali, rex sacrorum e flamini. Prospettano ulteriori sequenze anche Livius 6.41.9: Vulgo ergo, pontifices, augures, sacrificuli reges creentur, e Lactantius, Div. inst. 5.19.10: Procedant in medium pontifices seu minores seu maximi, flamines augures, item reges sacrificuli quique sunt sacerdotes et antistites religionum.

[30] In tal senso, vedi, ad esempio, L.-R. Ménager, Les collèges sacerdotaux, les tribus et la formation primordiale de Rome, cit., 466: «nos informations permettent d’induire que la hiérarchie des sacerdoces a subi au fil des temps républicains de notables vicissitudes».

[31] La stessa integrazione era stata proposta già nel 1839 da C.O. Mueller, alla p. 185 della sua edizione. Vedi invece S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano. Ricerche di storia romana arcaica, Milano 1992, 217 nt. 2 (seguito da E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit., 110 s. e nt. 12, 127 nt. 69) il quale suggerisce la lezione <in caerimoniis ut>.

[32] Gellius, Noct. Att. 13.15.3-4: Super hac re meis verbis nil opus fuit, quoniam liber M. Messalae auguris de auspiciis primus, cum hoc scriberemus, forte adfuit. 4. Propterea ex eo libro verba ipsius Messalae subscripsimus: Patriciorum auspicia in duas sunt divisa potestates. Maxima sunt consulum, praetorum, censorum. Neque tamen eorum omnium inter se eadem aut eiusdem potestatis, ideo quod conlegae non sunt censores consulum aut praetorum, praetores consulum sunt. Ideo neque consules aut praetores censoribus neque censores consulibus aut praetoribus turbant aut retinent auspicia; at censores inter se, rursus praetores consulesque inter se et vitiant et obtinent. Praetor, etsi conlega consulis est, neque praetorem neque consulem iure rogare potest, ut quidem nos a superioribus accepimus aut ante haec tempora servatum est et ut in commentario tertio decimo C. Tuditani patet, quia imperium minus praetor, maius habet consul, et a minore imperio maius aut maior <a minore> conlega rogari iure non potest. Nos his temporibus praetore praetores creante veterum auctoritatem sumus secuti neque his comitiis in auspicio fuimus. Censores aeque non eodem rogantur auspicio atque consules et praetores. Reliquorum magistratuum minora sunt auspicia. Ideo illi minores, hi maiores magistratus appellantur. Minoribus creatis magistratibus tributis comitiis magistratus, sed iustus curiata datur lege; maiores centuriatis comitiis fiunt. Vedi anche Festus, De verb. sign., p. 148 L.: <Minora itemque ma>iora auspicia quae d------ maiora consulum, praet<orum censorum dici ait; re>liquorum minora: cum illi <maiores, hi autem mino>res magistratus dici <consueverint>. Questo tipo di distinzione si rinviene anche in seno alle singole magistrature: Festus, De verb. sign., p. 154 L.: Maiorem consulem L. Caesar putat dici vel eum, penes quem fasces sint, vel eum, qui prior factus sit. Praetorem autem maiorem, Urbanum: minores ceteros). In letteratura sussistono incertezze circa la identificazione di questo personaggio: P.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, 5ª ed., Lipsiae 1886, 103 fr. 1, attribuisce il frammento a M. Valerius Messalla Corvinus, mentre la maggioranza degli studiosi lo riconduce a M. Valerius Messalla Rufus (console nel 53 a.C.), padre di Corvino e cugino di Nigro: F.P. Bremer, Iurisprudentiae quae supersunt. I. Liberae rei publicae iuris consulti, Lipsiae 1896, 263 s. fr. 1; H. Peter, Historicorum Romanorum Reliquiae, II, Lipsiae 1906, lxxviii; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, I, Lipsiae 1907, 427 ss.

[33] Tale distinzione si rinviene inoltre, ad esempio, in seno ai sacerdozi (Festus, De verb. sign., p. 144 L.: Maximae dignationis Flamen Dialis est inter quindecim flamines, et cum ceteri discrimina maiestatis suae habeant, minimi habetur Pomonalis, quod Pomona levissimo fructui agrorum praesidet pomis; p. 152 L.: Minorum pontificum maximus dicitur, qui primus in id collegium venit: item minimus, qui novissimus), nella definizione augurale dello spazio (Festus, De verb. sign., p. 146 L.: Minora templa fiunt ab auguribus cum loca aliqua tabulis aut linteis sepiuntur, ne uno amplius ostio pateant, certis verbis definita), e, come noto, rispetto alle assemblee popolari (XII tab. 9.1: De capite civis nisi per maximum comitiatum – ne ferunt, FIRA I, 2ª ed., 64).

[34] Alcuni studiosi, avvalendosi specialmente della testimonianza di Varro, De ling. lat. 6.12 (testo supra, nt. 17), affermano che il rex sacrorum fosse il sacerdote di Giano, dio considerato antiquissimus (Iuvenalis, Sat. 6.393 s.: Dic mihi nunc, quaeso, dic, antiquissime divum, / respondes his, Iane pater?) e invocato per primo nelle cerimonie (ad es.: Ovidius, Fast. 1.171 s.: Cur, quamvis aliorum numina placem, / Iane, tibi primum tura merumque fero?; Orig. gent. Rom. 3.7: Verum quia, ut supra diximus, prior illuc Ianus advenerat, cum eos post obitum divinis honoribus cumulandos censuissent, in sacris omnibus primum locum Iano detulerunt, usque eo, ut etiam, cum aliis diis sacrificium fit, dato ture in altaria, Ianus prior nominetur, cognomento quoque addito Pater ...; cfr. Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 6.9.5: Denique et ipse Varro commemorare et enumerare deos coepit a conceptione hominis, quorum numerum est exortus est a Jano …): L. Preller, Römische Mythologie, I, 3ª ed., a cura di H. Jordan, Berlin 1881, 64; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris 1886, 514, per cui il rex sacrorum si sarebbe dovuto chiamare flamine di Ianus (cfr. Id., Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit., 302); G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 23 e 103; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., 48, 105, 162; P. Lambrechts, Consus et l’enlèvement des Sabines, in L’antiquité classique 15, 1946, 80; R. Schilling, Janus, le dieu introducteur, le dieu des commencements, in Mélanges d’Archéologie et d’Histoire 72, 1960, 90 (ora in Id., Rites, cultes, dieux de Rome, cit., 234), per cui il rex sacrorum è “prêtre affecté” al culto di Giano; J. Guillén, Los sacerdotes romanos, cit., 38; F. Blaive, Rex sacrorum, cit., 134, il quale evidenzia come sia considerevole «qu’un auteur aussi bien documenté que Varron donne comme détenteur et gardien des initia religieux romains le rex sacrorum et non le pontifex maximus, comme il aurait été légitime de le penser à la fin de la République romaine»; D. Porte, Le prête à Rome, cit., 49. Contra, ad esempio: G. Giannelli, Ianus. Origini e antichità del culto, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 52, 1924, 214, il quale sottolinea l’assenza di fonti a sostegno del rapporto tra il sacerdote e il dio; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 135; R. Del Ponte, Dei e Miti Italici. Archetipi e forme della sacralità romano-italica, 3ª ed., Genova 1998, 65 ss., per cui Giano non ha un flamen, ma per la sua centralità è il re ad attendere al suo culto: «non è tanto questione di affermare che il rex sacrorum fosse il peculiare sacerdote del dio, quanto che fosse l’unico autorizzato, per la sua dignità, a presiederne i riti» (67); E. Bianchi, Il rex sacrorum a Roma e nell’Italia antica, cit., 126.

[35] G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 23, sostiene la corrispondenza del rango del pontefice massimo a quello della dea Vesta, ma vedi contra F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.), cit., 89.

[36] Cfr. Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 113 L.: Maximus pontifex dicitur, quod maximus rerum, quae ad sacra et religiones pertinent, iudex sit vindexque contumaciae privatorum magistratuumque. Questa caratteristica del sacerdote quale profondo conoscitore del diritto umano e divino si intravvede in Tacitus, Hist. 2.91.1, il quale ricorda il pessimo pontificato di Vitellio: Apud civitatem cuncta interpretantem funesti ominis loco acceptum est, quod maximum pontificatum adeptus Vitellius de caerimoniis publicis XV kalendas Augustas edixisset, antiquitus infausto die Cremerensi Alliensique cladibus: adeo omnis humani divinique iuris expers, pari libertorum, amicorum socordia, velut inter temulentos agebat. L’appellativo di arbiter, accostato a tutti pontefici, è utilizzato anche da Aulo Gellio (Noct. Att. 5.19.6) in materia di adrogatio: comitia arbitris pontificibus praebentur, quae ‘curiata’appellantur.

[37] Cicero, De leg. 2.20: Divisque aliis alii sacerdotes, omnibus pontifices, singulis flamines sunto. Secondo H. Le Bourdellès, Nature profonde du pontificat romain, cit., 58 s., il pontefice massimo si trovava all’ultimo posto dell’ordo sacerdotum proposto dalla glossa festina in quanto i pontifices erano «réparateurs souverains de tous les cultes, pour lesquels ils ont compétence universelle», per questo essi «résument et complètent les prêtres majeurs, à cette cinquième place, bien qu'ils aient pouvoir sur tous».

[38] Lactantius, Div. inst. 1.8.8, cita le stesse caratteristiche quando vuole dimostrare l’origine umana dei reges: Illos igitur quos inperiti et insipientes tamquam deos et nuncupant et adorant, nemo est tam inconsideratus quin intellegat fuisse mortales. ‘Quomodo ergo’ inquiet aliquis ‘dii crediti sunt?’ Nimirum quia reges maximi ac potentissimi fuerunt, ob merita virtutum suarum aut munerum aut artium repertarum, cum cari fuissent iis quibus inperitaverant, in memoriam sunt consecrati.

[39] Cicero, Brut. 53 testo infra, § 2.

[40] Vedi, ad esempio: Cicero, In Verr. II.1.55: Quid de L. Scipione qui bellum in Asia gessit Antiochumque regem potentissimum vicit?; In Cat. IV.21: ... habeatur vir egregius Paulus ille, cuius currum rex potentissimus quondam et nobilissimus Perses honestavit ...; Philipp. IV.13: Hac virtute maiores vestri primum universam Italiam devicerunt, deinde Karthaginem exciderunt, Numantiam everterunt, potentissimos reges, bellicosissimas gentis in dicionem huius imperi redegerunt; Pro leg. Manil. 4: Atque ut inde oratio mea proficiscatur unde haec omnis causa ducitur, bellum grave et periculosum vestris vectigalibus atque sociis a duobus potentissimis regibus infertur, Mithridate et Tigrane, quorum alter relictus, alter lacessitus occasionem sibi ad occupandam Asiam oblatam esse arbitratur; 26: Multa praetereo consulto; sed ea vos coniectura perspicite, quantum illud bellum factum putetis quod coniungant reges potentissimi, renovent agitatae nationes, suscipiant integrae gentes, novus imperator noster accipiat vetere exercitu pulso; Pro Ligar. 24: Veniebatis igitur in provinciam unam ex omnibus huic victoriae maxime infensam, in qua rex potentissimus inimicus huic causae, aliena voluntas, conventus firmi atque magni; Caesar, Bell. Gall. 2.4.7: Apud eos fuisse regem nostra etiam memoria Diviciacum, totius Galliae potentissimum, qui cum magnae partis harum regionum, tum etiam Britanniae imperium obtinuerit; Livius 30.30.14: ... Syphace potentissimo rege capto ...; 42.33.5: Deprecatus est deinde <ne> in novo bello, tam propinquo Italiae, adversus regem potentissimum; Lactantius, Div. inst. 7.16.2-3: Hi exercitibus in inmensum auctis et agrorum cultibus destitutis, quod est principium eversionis et cladis, disperdent omnia et comminuent et vorabunt. 3. Tum repente adversus eos hostis potentissimus ab extremis finibus plagae septentrionalis orietur ...

[41] In tal senso vedi, ad esempio: Cicero, De prov. cons. 39: Quam ego plagam etsi non contemno patres conscripti, praesertim monitus a sapientissimo consule et diligentissimo custode pacis atque otii, tamen vehementius arbitror pertimescendum, si hominum clarissimorum ac potentissimorum aut honorem minuero, aut studium erga hunc ordinem repudiaro; In Verr. II.4.22: Mamertina civitas improba antea non erat; etiam erat inimica improborum, quae C. Catonis illius qui consul fuit, impedimenta retinuit. At cuius hominis! clarissimi ac potentissimi; II.4.133: … aut nisi arbitramini L. Crasso Q. Scaevolae C. Claudio potentissimis hominibus, quorum aedilitates ornatissimas vidimus, commercium istarum rerum cum Graecis hominibus non fuisse, iis qui post iudiciorum dissolutionem aediles facti sunt fuisse; II.5.180: Venit mihi in mentem M. Catonis, hominis sapientissimi et vigilantissimi. Qui cum se virtute, non genere, populo Romano commendari putaret, cum ipse sui generis initium ac nominis ab se gigni et propagari vellet, hominum potentissimorum suscepit inimicitias et maximis laboribus usque ad summam senectutem summa cum gloria vixit; Pro Planc. 51: Vidit enim pater tuus Appium Claudium nobilissimum hominem vivo fratre suo potentissimo et clarissimo civi C. Claudio aedilem non esse factum et eundem sine repulsa factum esse consulem …; De off. 3.73: L. Minuci Basili locupletis hominis falsum testamentum quidam e Graecia Romam attulerunt. Quod quo facilius obtinerent scripserunt heredes se cum M. Crassum et Q. Hortensium homines eiusdem aetatis potentissimos; Ep. ad Brut. 1.10.3: Numquam enim in honore extraordinario potentis hominis vel potentissimi potius, quando quidem potentia iam in vi posita est et armis …

[42] Festus, De verb. sign., p. 340 L.: Ratumenna porta a nomine eius appellata est, qui ludicro certamine quadrigis victor, † clarusci † generis iuvenis Veis, consternatis equis excussus Romae perit; qui equi feruntur non ante constitisse, quam pervenirent in Capitolium, conspectumque fictilium quadrigarum, quae erant in fastigio Iovis templi, quas faciendas locaverant Romani Veienti cuidam artis figulinae prudenti. Quae bello sunt reciperatae; quia in furnace adeo creverant, ut eximi nequirent: idque prodigium portendere videbatur, in qua civitate eae fuissent, omnium eam futuram potentissimam; vedi anche Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 117 L.: Mamuri Veturi nomen frequenter in cantibus Romani frequentabant hac de causa. Numa Pompilio regnante e caelo cecidisse fertur ancile, id est scutum breve, quod ideo sic est appellatum, quia ex utroque latere erat recisum, ut summum infimumque eius latius medio pateret; unaque edita vox omnium potentissimam fore civitatem, quamdiu id in ea mansisset.

[43] Così Servius Dan., Verg. Aen. 7.188: Septem fuerunt pignora, quae imperium Romanum tenent: † aius matris deum, quadriga fictilis Veientanorum, cineres Orestis, sceptrum Priami, velum Ilionae, palladium, ancilia. Vedi ancora, ad esempio: Ovidius, Fast. 3.354: Iuppiter imperii pignora certa dabit; Livius 5.52.7: Quid de aeternis Vestae ignibus signoque, quod imperii pignus custodia eius templi tenetur, loquar? Quid de ancilibus vestris, Mars Gradive tuque, Quirine pater? Haec omnia in profano deseri placet sacra aequalia urbi, quaedam vetustiora origine urbis? Et videte, quid inter nos ac maiores intersit. Sui pignora imperii, si segnala: F. Cancellieri, Le sette cose fatali di Roma antica, Roma 1812; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 299 s. e nt. 4; S. Savage, Remotum a Notitia Vulgari, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 76, 1945, 158 s.; H.-B. Riesco Álvarez, Las vestales, los sacra, los doliola y el sacellum en la toma de Roma por los galos el 390 a.C., in Estudios humanísticos. Filología 11, 1989, 61 ss.; J.N. Bremmer, Three Roman aetiological myths, in Mythos in mythenloser Gesellschaft. Das Paradigma Roms, a cura di F. Graf, Stuttgart-Leipzig 1993, 160 s.; L.A. Foresti, Oggetti di profezia politica: gli ‘ancilia’ del ‘collegium Saliorum’, in La profezia nel mondo antico, a cura di M. Sordi, Milano 1993, 159 ss.; A. Stables, From Good Goddess to Vestal Virgins. Sex and category in Roman religion, London-New York 1998, 152 s.; G. Ferri, Valerio Sorano e il nome segreto di Roma, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 73, 2007, 298 s.; Id., The Bond between Rome and Its Gods, in Religion in the History of European Culture: Proceedings of the 9th EASR Annual Conference and IAHR Special Conference, 14-17 September 2009, Messina, a cura di G. Sfameni Gasparro, A. Cosentino, M. Monaca, Palermo 2013, 41 ss.; L. Cracco Ruggini, Oggetti “caduti dal cielo” nel mondo antico: valenze religiose e politiche, in Sacre impronte e oggetti «non fatti da mano d’uomo» nelle religioni. Atti del Convegno Internazionale - Torino, 18-20 maggio 2010, a cura di A. Monaci Castagno, Alessandria 2011, 95 ss.

[44] Cicero, De nat. deor. 2.8: ... intellegi potest ... imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Sulle relazioni tra religione e imperium del popolo Romano, specialmente F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 6 ss.

[45] Vedi, ad es.: Cicero, De nat. deor. 2.8: Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores repiemur; religione, id est cultu deorum, multo superiores; De har. resp. 19: Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.

[46] Livius 1.9.2-4: Tum ex consilio patrum Romulus legatos circa vicinas gentes misit, qui societatem conubiumque novo populo peterent: 3. urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; 4. satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem ...

[47] Secondo P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 364, dalla glossa festina in esame affiora la concezione risalente all’antichissima “fase dinamistico-animista” della storia di Roma per cui una serie di “potenze” interagivano sulla vita del singolo e dell’intera società.

[48] Per l’etimologia del termine pontifex, vedi ex multis: R.G. Kent, The Vedic Path of the Gods and the Roman Pontifex, in Classical Philology 8, 1913, 317 ss.; F. Ribezzo, Pontifices ‘quinionalis sacrificii effectores’. I, e I pontifices nella organizzazione e nella struttura della città italica, in Rivista indo-greco-italica di filologia lingua-antichità 15, 1931, rispett. 56 e 75 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 161 ss.; E. Evangelisti, Per l’etimologia di pontifex, Brescia 1969; J.P. Hallett, “Over Troubled Waters”: The Meaning of the Title pontifex, in Transactions and Proceedings of the American Philological Association 101, 1970, 219 ss.; H. Le Bourdellès, Nature profonde du pontificat romain, cit., 53 ss.; G.J. Szemler, v. Pontifex, cit., coll. 334 ss.; P. Flobert, La relation de sacrificare et de sacerdos, in Hommages à H. Le Bonniec, cit., 171 ss.; R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit., 107 ss.; B.J. Kavanagh, Pontifices, Bridge-Making and Ribezzo Revisited, in Glotta 76, 2000, 59 ss.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, 4ª ed. a cura di J. André, Paris 2001, 521; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.), cit., 11 ss.

[49] Plutarchus, Num. 9.2: Κεκλσθαι δ τος ποντφικας ο μν τι τος θεος θεραπεουσι δυνατος κα κυρους πντων ντας· γρ δυνατς π ωμαων νομζεται πτηνς. Per l’uso, sebbene non esteso, del superlativo pontentissimus riferito alle divinità, vedi, ad esempio: Seneca phil., Ad Luc. 31.10: ... deus ille maximus potentissimusque ipse vehit omnia; Apuleius, Met. 11.10: ... et antistites sacrorum proceres illi, qui candido linteamine cinctum pectoralem adusque vestigia strictim iniecti potentissimorum deum proferebant insignis exuvias.

[50] Svetonius, Iul. 6.1: Quaestor Iuliam amitam uxoremque Corneliam defunctas laudavit e more pro rostris. <S>et in amitae quidem laudatione de eius ac patris sui utraque origine sic refert: Amitae meae Iuliae maternum genus ab regibus ortum, paternum cum diis inmortalibus coniunctum est. Nam ab Anco Marcio sunt Marcii Reges, quo nomine fuit mater; a Venere Iulii, cuius gentis familia est nostra. Est ergo in genere et sanctitas regum, qui plurimum inter homines pollent, et caerimonia deorum, quorum ipsi in potestate sunt reges. Per un commento al passo, C. Scantamburlo, Svetonio, Vita di Cesare. Introduzione, traduzione e commento, Pisa 2011, 118 s. (bibl. ivi), secondo la quale «Svetonio fa, solitamente, citazioni letterali brevi, ma che hanno l’ambizione di essere esatte, e non servono come ornamento retorico bensì hanno valore funzionale e dimostrativo […]; in questo caso, l’intento del biografo è quello di mostrare l’orgoglio, l’ambizione di Cesare e soprattutto le sue aspirazioni “regali”».

[51] Cicero, De nat. deor. 1.116. Per i profili giuridico-religiosi della sanctitas, si segnala specialmente F. Sini, Sanctitas: cose, Dèi, (uomini). Premesse per una ricerca sulla santità nel diritto romano, in Diritto @ Storia 1, 2002 (http://www.dirittoestoria.it/lavori/Contributi/Sini%20Sanctitas.htm).

Cfr. invece, H. Bellen, La monarchia nella coscienza storica dello Stato repubblicano. Un problema di continuità della storia romana, in Athenaeum 79, 1991, 7, per cui il riferimento alla sanctitas del testo in esame indica che «il nome regale possedeva […] un’età veneranda».

[52] Per la pietas vedi specialmente: H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, cit., 371 ss.; H. Wagenvoort, Pietas, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980 [discorso tenuto il 24 maggio 1924 all’atto di accettazione della carica di professore nell’Università di Groninga], 1 ss.

[53] Cicero, De off. 2.11: Ratione autem utentium duo genera ponunt deorum unum alterum hominum. Deos placatos pietas efficiet et sanctitas proxime autem et secundum deos homines hominibus maxime utiles esse possunt. Sul rapporto uomini-dèi/sanctitas-pietas-religio: Cicero, De nat. deor. 1.3: Sunt enim philosophi et fuerunt qui omnino nullam habere censerent rerum humanarum procurationem deos. Quorum si vera sententia est, quae potest esse pietas quae sanctitas quae religio? Haec enim omnia pure atque caste tribuenda deorum numini ita sunt, si animadvertuntur ab is et si est aliquid a deis inmortalibus hominum generi tributum; sin autem dei neque possunt nos iuvare nec volunt nec omnino curant nec quid agamus animadvertunt nec est quod ab is ad hominum vitam permanare possit, quid est quod ullos deis inmortalibus cultus honores preces adhibeamus? In specie autem fictae simulationis sicut reliquae virtutes item pietas inesse non potest; cum qua simul sanctitatem et religionem tolli necesse est, quibus sublatis perturbatio vitae sequitur et magna confusio; atque haut scio an pietate adversus deos sublata fides etiam et societas generis humani et una excellentissuma virtus iustitia tollatur; 1.123: Quae enim potest esse sanctitas si dii humana non curant, quae autem animans natura nihil curans?

[54] L’esistenza di questa formula fin dall’età del Regnum è stata negata da Th. Mommsen, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1893, 8, il quale parla in merito di trasposizione della frase. Vedi ancora: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 490, K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 141; A. Magdelain, Note sur la loi curiate et les auspices des magistrats, in Revue Historique de Droit français et étranger 42, 1964, 203 nt. 1; Id., Recherches sur l’“imperium”. La loi curiate et les auspices d’investiture, Paris 1968, 39; B. Gladigow, Condictio und Inauguratio. Ein Beitrag zur römischen Sakralverfassung, in Hermes 98, 1970, 370; F. Blaive, De la designatio à l’inauguratio: Observations sur le processus de choix du rex Romanorum, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 45, 1998, 63 ss.; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.), cit., 306; J.A. Delgado Delgado, Extensión y efecto del rito augural de la inauguratio sacerdotum, in ’Ilu 14, 2009, 86.

Tra coloro che affermano la veridicità della notizia liviana, vedi, ex multis: U. Coli, Regnum’. IV. Aspetto religioso della regalità. Inaugurazione del re, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 17, 1951, 82 (ora in Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1973, 401); P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 511 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale. I, Torino 1960, 422 ss.; J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, 2ª ed., Paris 1969 [rist. 1976], 104; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 494; J. Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, cit., 202.

Sulla derivazione del testo dal collegio degli auguri vedi per tutti F. Sini: Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 171 ss.; «Fas et iura sinunt» (Virg., Georg. 1, 269). Contributo allo studio della nozione romana di fas. I, Sassari 1984, 32 e nt. 94; Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991, 23.

[55] Livius 1.18.9: ‘Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego caput teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines, quos feci’.

[56] Sull’inauguratio del re, vedi, ad esempio: J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 277 s.; I.M.J. Valeton, De inaugurationibus Romanis caerimoniarum et sacerdotum, in Mnemosyne 19, 1891, 405 ss.; Th. Mommsen, Le droit public romain, III, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1893, 8 s.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 490; F. Richter, v. Inauguratio, in Paulys Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IX.2, Stuttgart 1916, coll. 1220 ss.; H.J. Rose, The inauguration of Numa, in The Journal of Roman Studies 13, 1923, 82 ss.; U. Coli, Regnum’. IV. Aspetto religioso della regalità. Inaugurazione del re, cit., 79 ss. (= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., 398 ss.); P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 390 s., 511 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 211 ss., 396 ss., 414 ss., 422 ss., 504 s., 516 s.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 141 e 403; A. Magdelain, Recherches sur l’“imperium, cit., 39; Id., L’auguraculum de l’arx à Rome et dans d’autres villes, in Revue des Études Latines 47, 1969, 253 ss. (ora in Id., Jus imperium auctoritas, cit., 193 ss.); B. Gladigow, Condictio und Inauguratio, cit., 369 ss.; G. Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, I, Catania 1971 [rist., Catania 1989], 56 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 586 s.; P.M. Martin, L’idée de royauté à Rome. I. De la Rome royale au consensus républicain, Clermond-Ferrand 1982, 47 s.; R. Turcan, Rome et ses dieux, cit., 130 ss.; J. Vaahtera, Roman augural lore in Greek historiography: a study of the theory and terminology, Stuttgart 2001, 112 ss.; J. Linderski, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.3, Berlin-New York 1986, 2215 ss., 2256 ss.; F. Van Haeperen, Le collège pontifical (3ème s. a. C.-4ème s. p. C.), cit., 304 ss.; J.A. Delgado Delgado, Extensión y efecto del rito augural de la inauguratio sacerdotum, cit., 83 ss.; Y. Berthelet, Gouverner avec les dieux, cit., 121 ss., 183 s.

[57] Sono poche le fonti che qualificano Giove quale re, ad esempio, Varro, Antiq. rer. div. 16.235 s., ed. B. Cardauns (apud Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 7.9.1): [sic Iuppiter] Deus est … habens potestatem causarum, quibus aliquid fit in mundo. 236. Quoniam penes Ianum … Sunt prima, penes Iovem summa. Merito ergo rex omnium Iuppiter habetur, il quale però lascia trasparire che si trattasse di un attributo non originale. Il grammatico reatino in Logist. De deor. cult. 38, ed. E. Bolisani (apud Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 7.9.2, vedi anche 7.11) riporta un esametro di Quinto Valerio Sorano dove Giove è inteso quale progenitore: ‘Iuppiter omnipotens regum rerumque deumque progenitor genetrixque, deum deus, unus et omnes’. Cum causascripsit Soranus ‘Iuppiter progenitor genetrixque’, nec minus cum causa unum et omnia idem esse; mundus enim unus et in eo uno omnia sunt. In merito, vedi ancora: Horatius, Carm. 4.4.1-2: Qualem ministrum fulminis alitem, / cui rex deorum regnum in avis vagas; Ovidius, Fast. 3.334: … altorum rexque paterque deum; Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 7.9.2: Ergo et Iovem, ut Deus sit et maxime rex deorum, non alium possunt existimare quam mundum, ut diis ceteris secundum istos suis partibus regnet; 7.15: Si ergo superiorem locum maior dignitas meruit, quare Saturnus ibi est Iove superior? An vanitas fabulae, quae regem Iovem facit, non potuit usque ad sidera pervenire, et quod non valuit Saturnus in regno suo neque in Capitolio, saltem obtinere est permissus in caelo?; Macrobius, Sat. 1.23.1: Nec ipse Iuppiter rex deorum naturam solis videtur excedere, sed eundem esse Iovem ac solem claris docetur indiciis.

[58] Vedi ancora Varro, Res rust. 1.1.5: Primum, qui omnis fructos agri culturae caelo et terra continent, Iovem et Tellurem: itaque, quod ii parentes, magni dicuntur, Iuppiter pater appellatur, Tellus terra mater.

[59] Ad esempio: Cato, De agr. cult. 134: “Iane pater, te hac strue ommovenda bonas preces precor uti sies volens propitius mihi liberisque meis, domo familiaeque meae”; 141.2: “Mars pater, te precor quaesoque, uti sies volens propitius mihi domo familiaeque nostrae ...”.

[60] Per le accezioni, R. Wolff, v. magister, in Thesaurus Linguae Latinae, VIII, Lipsiae 1935, coll. 76 ss., vedi anche dello stesso A., v. magistrātus, ivi, VIII, Lipsiae 1936, coll. 91 ss.

[61] D. 50.16.57 pr. (Paulus libro 59 ad edictum): Cui praecipua cura rerum incumbit et qui magis quam ceteri diligentiam et sollicitudinem rebus quibus praesunt debent, hi "magistri" appellantur. Quin etiam ipsi magistratus per derivationem a magistris cognominantur. Unde etiam cuiuslibet disciplinae praeceptores magistros appellari a monendo vel monstrando. Vedi inoltre: Varro, De ling. lat. 5.82: Magister equitum, quod summa potestas huius in equites et accensos, ut est summa populi dictator, a quo is quoque magister populi appellatus; Festus, De verb. sign., p. 140 L.: <Magisteria dicuntur in omnibus> rebus, qui ma<gis ceteris possunt, ut magisterium e>quitum, et ---------------- <Apo>llinis dixe------------------cuntur, velit ------------------ it contra o-------------------, glossa irrimediabilmente compromessa ricostruita sulla base di Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 141 L.: Magisteria dicuntur in omnibus rebus, qui magis ceteris possunt, ut magisterium equitum; Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 113 L.: Magisterare moderari. Unde magistri non solum doctores artium, sed etiam pagorum, societatum, vicorum, collegiorum, equitum dicuntur, quia omnes hi magis ceteris possunt; unde et magistratus, qui per imperia potentiores sunt quam privati; quae vox duabus significationibus notatur. Nam aut ipsam personam demonstrat, ut cum dicimus: magistratus iussit, aut honorem, ut cum dicitur: Titio magistratus datus est, in cui si esprime il concetto di potenza derivante dall’imperium. Cfr. un’altra glossa festina, <Magistrare pro regere et> temperare dic--- ---erare quidam --- (p. 138 L.), le cui lacune sono restituite con Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 139 L.: Magistrare regere et temperare est, dove si evoca il verbo regō da cui deriva il termine rex. Questa etimologia è avvalorata, secondo A. Ernout e A. Meillet (Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 572) da Cicero, De re publ. 1.41 s.: Omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem exposui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam regenda est, ut diuturna sit … 42. Deinde aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omnibus. Quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum. In tal senso, la testimonianza di alcuni autori cristiani, ad esempio: Apponius, In Cant. 9: … ipse rex et dominus dicitur a regendo et dominando caelorum virtutibus …; Gaudentius Brixiensis, Tract. 19.35: ... reges a regendo ...; Augustinus Hipponensis, Enarr. in Psalm. 44.17: Erit virga ipsius qui te regit, virga directionis. Inde et rex a regendo dicitur. Non autem regit qui non corrigit; De civ. Dei 5.12: cum et reges utique a regendo dicti melius videantur, ut regnum a regibus, reges autem, ut dictum est, a regendo. Cfr. Cicero, De re publ. 2.53 apud Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 5.12: Hinc est quod regalem dominationem non ferentes annua imperia binosque imperatores sibi fecerunt, qui consules appellati sunt a consulendo, non reges aut domini a regnando atque dominando.

[62] Svetonius, Iul. 6.1.

[63] Intorno alle rappresentazioni ideologiche legate alla figura di Iuppiter: C. Koch, Der römische Juppiter, 2ª ed., Frankfurt am Main 1937 [rist., Darmstadt 1968, ora in tr. it. di L. Arcella: Giove Romano, Roma 1986]; J.R. Fears, The Cult of Jupiter and Roman Imperial Ideology, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.17.1, Berlin-New York 1981, 3 ss.; C.M.A. Rinolfi, Plebe, pontefice massimo, tribuni della plebe: a proposito di Liv. 3.54.5-14, in Diritto @ Storia 5, 2006, § 3 c (http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Rinolfi-Plebe-pontefice-massimo-tribuni-della-plebe.htm).

[64] Sulle implicazioni giuridico-religiose relative agli atti di fondazione, si rimanda a F. Sini, Fondazione della urbs Roma, in Diritto @ Storia 15, 2017, http://www.dirittoestoria.it/15/memorie/Sini-Fondazione-urbs-Roma.htm.

[65] Vedi, ad esempio: Cicero, In Cat. 1.33: Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi vere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a vita fortunisque civium omnium arcebis; Livius 1.12.4: Romulus et ipse turba fugientium actus arma ad caelum tollens ‘Iuppiter, tuis’ inquit ‘iussus avibus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci ...’; 28.28.11: Ne istuc Iuppiter optimus maximus sirit, urbem auspicato dis auctoribus in aeternum conditam huic fragili et mortali corpori aequalem esse. In materia è fondamentale P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, 442 ss.

[66] Sull’episodio, vedi: Cicero, De dom. 139; Livius 2.8.6-8; 7.3.8; Seneca phil., Ad Marc. 13.1; Valerius Maximus 5.10.1. Cfr. anche Polybius 3.22.1. Per l’«importance dans l’élaboration du récit annalistique de la dédicace du temple de la triade capitoline», R. Bloch, Tite-Live et les premiers siècles de Rome, Paris 1965, 75 ss.

[67] Sul cursus honorum del personaggio, T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic. I. 509 B.C. – 100 B.C., New York 1951 [rist., Atlanta, Ga. 1986], 3 e 6.

[68] In argomento rinvio all’analisi di G. Radke, Iuppiter Optimus Maximus: dieu libre de toute servitude, in Revue Historique de Droit français et étranger 64, 1986, 1 ss. Cfr. in tal senso anche A. Magdelain, De la royauté et du droit de Romulus à Sabinus, Roma 1995, 54 ss., il quale, tuttavia, avverte: «Il ne suffit pas de dire que Jupiter capitolin jouit d’une pareille liberté et que sa souveraineté n’est soumise à aucune spécialisation» (55). Secondo la visione suggestiva dell’autore, infatti, rispetto al passato il “nouveau Jupiter” avrebbe disgiunto nettamente la guerra dalla pace, assumendo due funzioni distinte – «civilement Optimus et dans la guerre Maximus» – che «correspondent trait pour trait aux deux pouvoirs, civil et militaire, du magistrat supérieur et avant lui le roi, l’un et l’autre réplique terrestre du dieu souverain» (58).

[69] G. Dumézil (ad es., La religion romaine archaïque, cit.; Fêtes romaines d’été et d’automne, suivi de Dix questions romaines, s.l. 1975) rinviene nelle divinità della triade precapitolina le tre funzioni (regalità, guerra, fertilità) delle società indoeuropee. Per una rilettura critica dell’opera dello studioso, ad esempio, J. Poucet, Georges Dumézil et la Rome ancienne. La notion d’héritage indo-européen, in Bulletin de la Classe des lettres et des sciences morales et politiques 13, 2002, 163 ss.

[70] Cicero, Pro Rosc. Am. 131.

[71] Cicero, De dom. 144.

[72] Sul ruolo politico di Iuppiter Optimus Maximus, vedi soprattutto: G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 201: «Jupiter O. M. a été naturellement associé à la mission de puissance et de conquête que Rome se découvrait»; R. Del Ponte, La religione dei Romani, cit., 135: «la figura maestosa di Giove Ottimo Massimo appartiene solo allo Stato. Iuppiter e res publica si protendono entrambi verso l’avvenire, che molti prodigi rivelano foriero di grandezza. Al centro di tutto, il tempio capitolino, nato sacralmente in contemporanea alle nuove magistrature statuali. Finché questo esisterà, esisterà anche lo Stato»; C. Santi, Iuppiter nella religione civica di Roma arcaica, in Chaos e Kosmos 15, 2014, 3 (http://www.chaosekosmos.it/pdf/2014_08.pdf), secondo la quale questa divinità era «la rappresentazione religiosa dell’idea di res publica». Per il ruolo di questo dio come leggittimatore del potere del princeps, D.M. Escámez de Vera, El templo de Júpiter Óptimo Máximo en la propaganda augústea, in Los Lugares de la Historia, Salamanca 2013, 551 ss.

[73] Sull’utilizzo del termine “vita” in relazione al populus Romanus rinvio a P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., 443 e nt. 4.

[74] Vedi, ad esempio, Cicero, Pro Rabir. 5: Quae cum ita sint, primum, quod in tanta dimicatione capitis, famae fortunarumque omnium fieri necesse est, ab Iove Optimo Maximo ceterisque dis deabusque immortalibus, quorum ope et auxilio multo magis haec res publica quam ratione hominum et consilio gubernatur, pacem ac veniam peto precorque ab iis, ut hodiernum diem et ad huius salutem conservandam et ad rem publicam constituendam illuxisse patiantur. Per l’azione salvifica di Giove O.M., si segnala, a mero titolo di esempio: Cicero, De fin. 3.66: Atque etiam Iovem cum Optimum et Maximum dicimus cumque eundem Salutarem, Hospitalem, Statorem, hoc intellegi volumus, salutem hominum in eius esse tutela; cfr. De nat. deor. 2.64: Sed ipse Iuppiter, id est iuvans pater, quem conversis casibus appellamus a iuvando Iovem, a poetis ‘pater divomque hominumque’ dicitur, a maioribus autem nostris optumus maxumus, et quidem ante optimus id est beneficentissimus quam maximus, quia maius est certeque gratius prodesse omnibus quam opes magnas habere ...

[75] Livius 3.57.7: Inter haec ab Latinis et Hernicis legati gratulatum de concordia patrum ac plebis Romam venerunt donumque ob eam Iovi optumo maximo coronam auream in Capitolium tulere parvi ponderis, prout res haud opulentae erant colebanturque religiones pie magis quam magnifice. Secondo G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII tavole, Bologna 1984, 299 nt. 74, questa notizia «potrebbe, anch’essa, discendere dalla cronaca pontificale».

[76] Livius 4.1.2.

[77] Livius 4.2.7-8: Parum id videri quod omnia divina humanaque turbentur: iam ad consulatum volgi turbatores accingi. Et primo ut alter consul ex plebe fieret, id modo sermonibus temptasse; nunc rogari ut seu ex patribus seu ex plebe velit populus consules creet. Et creaturos haud dubie ex plebe seditiosissimum quemque: Canuleios igitur Iciliosque consules fore. 8. Ne id Iuppiter optimus maximus sineret, regiae maiestatis imperium eo recidere; et se miliens morituros potius, quam ut tantum dedecoris admitti patiantur. J.-F. Thomas, Déshonneur et honte en latin: étude sémantique, Louvain-Paris-Dudley, MA 2007, 76 s., cita il brano come esempio della struttura al passivo “quid dedecoris admittitur a cui si ricorre per descrivere avvenimenti dalle negative conseguenze per l’immagine sociale: «D’une part, le passif qui fait se représenter aux patriciens la réalisation de cette transformation politique, d’autre part la valeur partitive de tantum dedecoris pour marquer le degré atteint dans la gravité traduisent le retournement que constituerait pour des patriciens l’arrivée de plébéiens au pouvoir […]. De fait, il s’agit bien d’une cassure car la mesure serait en rupture avec une maiestas dont Jupiter est le garant».

[78] Vedi quanto dice ancora Tacitus, Hist. 3.72.1: ... sedem Iovis Optimi Maximi, auspicato a maioribus pignus imperii conditam ...

[79] Livius 7.3.5: Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut, qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa fuit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est. Cfr. Paulus Festus, Excerpt. de verb. sign., p. 49 L.: Clavus annalis appellabatur, qui figebatur in parietibus sacrarum aedium per annos singulos, ut per eos numerus colligeretur annorum. A. Momigliano, Ricerche sulle magistrature romane. I. Il dictator clavi figendi causa, in Id., Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, cit., 273 ss. (già in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma 58, 1931, 29 ss.), sostiene l’accoglimento in Livio di due diverse versioni: «la tradizione annalistica parla di un clavus piantato in condizioni particolari a scopo di purificazione da un dittatore; la tradizione accolta da Cincio e documentata in una legge sa del clavus annalis confitto dal console. Livio ricorse evidentemente a Cincio per completare le sue informazioni sul clavus e trovò nozioni del tutto diverse da quelle annalistiche in proposito e allora elaborò quella spiegazione artificiosissima, secondo cui dal console si sarebbe passato al dittatore e poi a una dittatura speciale. C’è appena bisogno di dire che la spiegazione, fatta apposta per intendere il preteso passaggio dal console a un dittatore speciale, presuppone un anello intermedio, il dittatore che può assumersi annualmente l’incarico del clavus, che è un non senso nel modo più rigoroso» (281). In materia vedi ancora, ad esempio: Th. Mommsen, Die römische Chronologie bis auf Caesar, 2ª ed., Berlin 1859, 176 ss.; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, I, cit., 129 s.; J. Heurgon, L. Cincius et la loi du clavus annalis, in Athenaeum 42, 1964, 432 ss.; M.J. Pena, La “lex de clavo pangendo”, in Hispania Antiqua 6, 1976, 239 ss.; G. Poma, Le secessioni e il rito dell’infissione del clavus, in Rivista Storica dell’Antichità 8, 1978, 39 ss.; E. Montanari, Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città” e pax deorum: l'infissione del clavus annalis); R. Signorini, La ‘lex vetusta’ di Liv. 7.3.5 e il dittatore ‘clavi figendi causa’, in La dittatura romana, I, a cura di L. Garofalo, Napoli 2017, 357 ss.

[80] Livius 7.3.8: Horatius consul ea lege templum Iovis optimi maximi dedicavit anno post reges exactos; a consulibus postea ad dictatores, quia maius imperium erat, sollemne clavi figendi translatum est. Intermisso deinde more digna etiam per se visa res, propter quam dictator crearetur.

[81] Sostengono che quello del praetor maximus non fosse un titolo ufficiale, ma la locuzione indicava soltanto il magistrato con il potere più elevato, ad esempio: C. Ampolo, Roma arcaica ed i Latini nel V secolo, cit., 130 ss., il quale riconosce all’antico appellativo di praetor «il significato più generico di magistrato e comandante», (128); D. Sohlberg, Militärtribunen und verwandte Probleme der frühen römischen Republik, in Historia 40, 1991, 265, Id., Dictateurs et tribuns de la plèbe: problèmes de la république romaine à ses débuts, in Cahiers du Centre G. Glotz 4, 1993, 251 s. Vedi, inoltre, A. Magdelain, «Praetor maximus» et «comitiatus maximus», in Iura 20, 1969, 257 ss. (ora in Id., Jus imperium auctoritas, cit., 313 ss.), per cui il praetor maximus investito del compito di infiggere il clavus annalis compiva “un acte de souveraineté”, in quanto il superlativo maximus agli inizi della Repubblica non avrebbe designato il magistrato superiore in seno a una gerarchia, ma una “souveraineté encore indivise”.

[82] Festus, De verb. sign., p. 152 L.: Maximus praetorem dici putant ali eum, qui maximi imperi sit; ali, qui<a> aetatis maximae. Pro collegio quidem augurum decretum est, quod in Salutis augurio praetores maiores et minores appellantur, non ad aetatem, sed ad vim imperii pertinere.

[83] Sulla cerimonia, ad esempio: G.L. Goldner, Dissertatio De Romanorum Dea Salutis Salutisque Augurio …, Gerae 1738; I.P. Miller, Augurium salutis explicat et ad orationes audiendas ritu decentissimo invitat, Ulmae 1760; A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV. Divination italique (étrusque – latine – romaine), Paris 1882, 194; J. Marquardt, Le culte chez les Romains, II, cit., 77 s.; I.M.J. Valeton, De inaugurationibus Romanis caerimoniarum et sacerdotum, cit., 417 ss.; G. Costa, L’«augurium salutis» e l’«auguraculum» capitolino, in Bullettino della Commissione Archeologica Comunale di Roma 38, 1910, 118 ss.; R. Cagnat, L'«augurium salutis» au début de notre ère, in Comptes rendus des séances de l'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres 55.1, 1911, 49 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 133, 525 s.; F. Blumenthal, Auguria salutis, in Hermes 49, 1914, 246 ss.; J. Liegle, L. Aemilius Paullus als Augur maximus im Jahre 160 und das Augurium des Heils, in Hermes 77, 1942, 249 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 335 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., 140 s.; J. Linderski, The Augural Law, cit., 2177 ss.; S. Montero, El Augurium Salutis o la paz imposible, 2001, in ’Ilu 6, 2001, 47 ss.; J. Vaahtera, Roman augural lore in Greek historiography, cit., 133 ss.; L.G. Driediger-Murphy, Roman Republican Augur: Freedom and Control, Oxford 2019, 168 ss.

[84] Per la competenza degli augures in materia: Cicero, De leg. 2.21: … salutem populi auguranto …; De div. 1.105: Quid de auguribus loquar? Tuae partes sunt, tuum, inquam, auspiciorum patrocinium debet esse. Tibi App. Claudius augur consuli nuntiavit addubitato salutis augurio bellum domesticum triste ac turbulentum fore; quod paucis post mensibus exortum paucioribus a te est diebus oppressum. Cui quidem auguri vehementer adsentior; solus enim multorum annorum memoria non decantandi augurii, sed divinandi tenuit disciplinam.

[85] La distinzione tra “maggiori” e “minori” si può scorgere anche in un cippo marmoreo trovato sul Campidoglio nel 1910, attestante la celebrazione dell’augurium salutis durante il principato, che costituisce «le seul témoignage archéologique qu’on puisse, avec une quasi-certitude, attribuer à l’auguraculum» (A. Grandazzi, Le roi et l’augure. A propos des auguracula de Rome, in La divination dans le monde étrusco-italique, III. Caesarodunum suppl. 56, Tours 1986, 124), CIL VI.4 nr. 36841, 3772: Auguria / maximum quo salus p(opuli) R(omani) petitur / quod actum est / L. Aelio Lamia M. Servilio cos. / L. Pomponio Flacco C. Caelio cos. / quae acta sunt / <C. Caesa>re L. Aemilio Paullo cos. / <P. Vini>cio P. Alfeno Varo cos. / <M. Fur>io Camillo Sex. Nonio Quinctiliano cos. / <Germ>anico Caesare C. Fonteio Capitone cos. / <C. Cael>io L. Pomponio Flacco cos. L’articolazione degli auguria salutis in maxima e non è avvalorata anche da Servius Dan., Verg. Aen. 12.176: Et hoc per speciem augurii, quae precatio maxima appellatur, dicit. Precatio autem maxima est, cum plures deos, quam in ceteris partibus auguriorum, precantur, eventusque rei bonae poscitur, ut in melius iuvent … (così F. Blumenthal, Auguria salutis, cit., 246 ss., seguito da P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 346).

[86] Come esempio di riti celebrati dal magistrato munito di imperio massimo, vedi: Livius 22.10.9-10: Sex pulvinaria in conspectu fuerunt; Iovi ac Iunoni unum, alterum Neptuno ac Minervae, tertium Marti ac Veneri, quartum Apollini ac Dianae, quintum Vulcano ac Vestae, sextum Mercurio et Cereri. 10. Tum aedes votae; Veneri Erucinae aedem Q. Fabius Maximus dictator vovit, quia ita ex fatalibus libris editum erat, ut is voveret cuius maximum imperium in civitate esset; Menti aedem T. Otacilius praetor vovit. Nei libri augurali si specificava che la distinzione incentrata sull’imperium impediva al pretore di presiedere i comizi per l’elezione dei consoli: Cicero, Ep. ad Att. 9.9.3: Nos autem in libris habemus non modo consules a praetore sed ne praetores quidem creari ius esse idque factum esse numquam; consules eo non esse ius quod maius imperium a minore rogari non sit ius, praetores autem cum ita rogentur ut collegae consulibus sint, quorum est maius imperium (P. Regell, Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882, 20).

[87] Cassius Dio 37.24: 1. τατα μν ν χρνον γνετο, ττε δ ο ωμαοι πολμων νπαυσιν τν λοιπν το τους χρνον σχον, στε κα τ οἰώνισμα τ τς γιεας νομασμνον δι πνυ πολλο ποισαι. Tοτο δ δ μαντεας τις τρπος στ, πστιν τιν χων ε πιτρπει σφσιν θες γειαν τ δμ ατσαι, ς οχ σιον ‹ν› οδ 2. ατησιν ατς, πρν συγχωρηθναι, γενσθαι. Kα τελετο κατ' τος μρ, ν μηδν στρατπεδον μτε π πλεμον ξει μτ' ντιπαρετττετ τισι μτε μχετο. Kα δι τοτο ν τος συνεχσι κινδνοις, κα μλιστα τος μφυλοις, οκ ποιετο· λλως τε γρ παγχλεπν σφισιν ν καθαρν π πντων ατν μραν κριβς 3. τηρσαι, κα προστι κα τοπτατον, κακ ατος ν τας στσεσιν κουσους μθητα λλλοις παρχοντας, κα μλλοντας, ν τε ττηθσιν ν τε κα νικσωσι, κακοσθαι, πειτα σωτηραν παρ το θεου προσαιτεν.

[88] Vedi, ad esempio: Cicero, In Pis. 48: numen interdictumque deorum immortalium …; De fin. 3.64: Mundum autem censent regi numine deorum, eumque esse quasi communem urbem et civitatem hominum et deorum, et unum quemque nostrum eius mundi esse partem; ex quo illud natura consequi, ut communem utilitatem nostrae anteponamus; In Verr. II.4.107: Etenim multa saepe prodigia vim eius [sic Cereris] numenque declarant ...

[89] Sulle questioni che il manuale pomponiano ha sollevato in letteratura, quali ad esempio la tipologia e la struttura dell’opera, le fonti, la trasmissione del testo, vedi, ex multis: F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, tr. it. di G. Nocera, Firenze 1968 [tit. orig.: Geschichte der römischen Rechtswissenschaft, Weimar 1961], 299 ss.; D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtsverständnis der römischen Juristen”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, 512 ss. (ora in Id., Historiae iuris antiqui. Gesammelte Schriften, II, a cura di T.J. Chiusi, W. Kaiser, H.-D. Spengler, Goldbach 2003, 1000 ss.; vedi anche la tr. it. Pomponio o «della intelligenza storica dei giuristi romani», con una «nota di lettura» di A. Schiavone, a cura di M.A. Fino ed E. Stolfi, in Rivista di Diritto Romano 2, 2002, 167 ss.; per una articolata recensione vedi M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 80, 1977, 261 ss.); B. Albanese, D.1.2.2.12 ed il problema della sua attribuzione, in Scritti in onore di S. Pugliatti, IV, Milano 1978, 3 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, II, a cura di M. Marrone, Palermo 1991, 1523 ss.); F. d’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della Repubblica, Napoli 1978, 3 ss.; L. Lantella, Le opere della giurisprudenza romana nella storiografia (Appunti per un seminario di Storia del diritto romano), Torino 1979, 7 ss.; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed., Napoli 1982, 209 ss.; A. Sicari, Pomponio e Celio Antipatro, in Studi in onore di C. Sanfilippo, II, Milano 1982, 547 ss.; G. Crifò, Un seminario su Pomponio, in Id., Materiali di storiografia romanistica, Torino 1998, 49 ss.; E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio. I. Trasmissione e fonti, Napoli 2002, 305 ss.; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 332 ss.; D. Mantovani, Mores, leges, potentia. La storia della legislazione romana secondo Tacito (Annales III 25-28), in Letteratura e civitas. Transizioni dalla Repubblica all’Impero. In ricordo di E. Narducci, a cura di M. Citroni, Pisa 2012, 396 ss., per un raffronto con Tacitus, Ann. 3.25 ss.

[90] D. 1.2.2 pr. (Pomponius libro singulari enchiridii): Necessarium itaque nobis videtur ipsius iuris originem atque processum demonstrare.

[91] D. 1.2.1 (Gaius libro primo ad legem duodecim tabularum): Facturus legum vetustarum interpretationem necessario prius ab urbis initiis repetendum existimavi, non quia velim verbosos commentarios facere, sed quod in omnibus rebus animadverto id perfectum esse, quod ex omnibus suis partibus constaret: et certe cuiusque rei potissima pars principium est. deinde si in foro causas dicentibus nefas ut ita dixerim videtur esse nulla praefatione facta iudici rem exponere: quanto magis interpretationem promittentibus inconveniens erit omissis initiis atque origine non repetita atque illotis ut ita dixerim manibus protinus materiam interpretationis tractare? namque nisi fallor istae praefationes et libentius nos ad lectionem propositae materiae producunt et cum ibi venerimus, evidentiorem praestant intellectum. Il frammento non è immune da sospetti di interpolazione, in tal senso, Th. Mommsen, Gaius ein Provinzialjurist, in Jahrbuch des gemeinen deutschen Rechts 3, 1859, 9 nt. 15 (ora in Id., Gesammelte Schriften, II.2. Juristische Schriften, Berlin 1905, 33 nt. 15); W. Kalb, Das Juristenlatein. Versuch einer Charakteristik auf Grundlage der Digesten, 2ª ed., Nürnberg 1888, 65; E. Grupe, Zur Sprache der Gaianischen Digestenfragmente, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 17, 1896, 322; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, III, Tübingen 1913, 131; IV, Tübingen 1920, 233; F. Schulz, Einführung in das Studium der Digesten, Tübingen 1916, 18; F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift für O. Lenel, Leipzig 1921, 267 s.; A. Berger, Some remarks on D. 1.2.1, and CIL 6.10298, in Iura 2, 1951, 102 ss.; A.M. Honoré, Gaius. A Biography, Oxford 1962, 105 s.; M. Lauria, Jus romanum I.1, Napoli 1963, 33; D. Nörr, Divisio und Partitio. Bemerkungen zur römischen Rechtsquellenlehre und zur antiken Wissenschaftstheorie, Berlin 1972, 49 s.; M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano. Colloquio italo francese (Roma, 14-17 aprile 1973), II, Roma 1977, 189 nt. 539. Si devono, tuttavia, accogliere in merito le considerazioni di F. Gallo, La storia in Gaio, in Il modello di Gaio nella formazione del giurista. Atti del Convegno Torinese 4-5 maggio 1978 in onore del Prof. S. Romano, Milano 1981, 93, per cui «l’accettazione o la ripulsa della manipolazione non incidono in maniera apprezzabile sulla concezione esposta nel frammento».

[92] Vedi, soprattutto: L. Lantella, Potissima pars principium est, in Studi in onore di C. Sanfilippo, IV, Milano 1983, 283 ss.; S. Morgese, Appunti su Gaio Ad legem duodecim tabularum, ibid., 109 ss.; B. Albanese, Brevi note di diritto romano, II.I. Sull’introduzione di Gaio al suo commento delle XII Tavole, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 43, 1995, 7 ss. (ora in Id., Scritti giuridici, III, a cura di G. Falcone, Torino 2006, 253 ss.); S. Schipani, Principia iuris. Potissima pars principium est. Principi generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor F. Gallo, I, Napoli 1997, 631 ss., spec. 649 ss.; R. Quadrato, Gaio e la legum interpretatio, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna, a cura di C. Cascione e C. Masi Doria, VII, Napoli 2007, 4557 ss.

[93] In merito, F. Sini, Initia Urbis e sistema giuridico-religioso romano (Ius sacrum e ius publicum tra terminologia e sistematica), in Diritto @ Storia 3, 2004, § 3 (http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Sini-Initia-Urbis-2.htm), rinviene in Pomponio «una visione più “dinamica” proprio dell’origine e dell’evoluzione del diritto» rispetto alla prospettiva storica di Gaio.

[94] Per la propensione di Gaio a conoscere il passato al fine di ottenere la piena padronanza dell’esperienza giuridica a lui contemporanea, rinvio a F. Gallo, Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano, Torino 1993, 88. Vedi anche: F. Casavola, Gaio nel suo tempo, in Gaio nel suo tempo. Atti del simposio romanistico, a cura di A. Guarino e L. Bove, Napoli 1966, 10 s.; O. Diliberto, Le XII Tavole nel Digesto, in Ius Antiquum. Древнее Право 2.6, 2005, 50.

[95] Come ha rilevato C. Ando, Mythistory: The Pre-Roman Past in Latin Late Antiquity, in Antike Mythologie in christlichen Kontexten der Spätantike, a cura di H. Leppin, Berlin 2015, 205 ss., secondo la tradizione mitologica diffusa nel periodo classico e alcune fonti di età successiva, le leggi furono introdotte in Italia da figure quali Saturno o Crono, mentre in base alla visione originaria dei Romani la storia iniziava ab urbe condita, e nello specifico: «when jurists of the classical period wrote histories of law, they urged that law could only have a history when there existed politically-articulated populations to create laws with which to govern themselves» (214).

[96] Per C. Pelloso, Provocatio ad populum e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 82, 2016, 237, «la percezione romana – nella tarda repubblica e nel principato – del rex primitivo con riguardo al momento della creazione e dell’applicazione del diritto appare nitida. A tal riguardo, il supremo magistrato monocratico dell’età primitiva viene descritto da Pomponio come il titolare di una manus (o potestas) indistinta e generalissima, esercente una gubernatio rivolta ad omnia, di talché, in questa prospettiva, ogni eventuale giudizio popolare non potrebbe che intendersi, in età regia, che come singola graziosa concessione».

[97] Per un commento all’opera di questo autore, M. Brutti, Rileggere Orestano. Teoria e storiografia del diritto, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche n.s. 4, 2013, 3 ss., spec. 30 ss.

[98] Sulle varie accezioni del vocabolo, [V.] Bulhart, v. manus, in Thesaurus Linguae Latinae, VIII, Lipsiae 1938, coll. 342 ss.; per un’analisi etimologica, A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 386. In materia, vedi da ultimo M. Milani, La mano destra in Roma antica, in Il corpo in Roma antica. Ricerche giuridiche, II, a cura di L. Garofalo, Pisa 2017, 25 ss., spec. 59 ss. per la manus quale “simbolo di potere”.

[99] R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 80 s., il quale nella parola in esame rinviene «di tutto: idea di forza, sovranità, potere, comando, vitae necisque potestas, appartenenza, gerarchia familiare, rapporti obbligatori, connessioni religiose, fatto, diritto. Manus [...] appare cioè come una categoria fondamentale dell’esperienza primitiva, cui venivano rapportate le più diverse situazioni, come una specie di asse intorno a cui ruotavano le più diverse figure, al fondo delle quali vi era un elemento comune che le dominava. Le connetteva, riducendole ad un unico denominatore, un elemento che era realtà e simbolo al tempo stesso e in cui sembra esprimersi addirittura una credenza d’ordine magico: la possanza che ha l’uomo di imprimere, attraverso l’imposizione della propria mano». Queste considerazioni sono spesso richiamate in letteratura, vedi ad esempio: C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I. Dalle origini all’opera di Labeone, Torino 1997, 39 nt. 19; G. Crifò, Lezioni di storia del diritto romano, 3ª ed., Bologna 2000, 48.

[100] R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit., 79. Vedi il commento nella recensione di A. Guarino, in Iura 20, 1969, 563 (ora in Id., Pagine di diritto romano, IV, Napoli 1994, 18): «Indubbiamente l’uso del termine manus per indicare il potere dei re è suggestivo e non è da escludere che Pomponio vi abbia fatto ricorso proprio per sottolineare la indeterminatezza, la vastità, l’assenza di precisi confini della potestà regia in età arcaica, allorquando la civitas era sine lege certa, sine iure certo. Ma più di tanto dal testo non si può ricavare».

[101] D. 1.2.2.14 (Pomponius libro singulari enchiridii): Quod ad magistratus attinet, initio civitatis huius constat reges omnem potestatem habuisse. Vedi anche Cicerone, il quale parla di una potestà perpetua, De re publ. 2.49: Habetis igitur primum ortum tyranni; nam hoc nomen Graeci regis iniusti esse voluerunt; nostri quidem omnes reges vocitaverunt qui soli in populos perpetuam potestatem haberent.

[102] D. 1.2.2.16 (Pomponius libro singulari enchiridii): Exactis deinde regibus consules constituti sunt duo: penes quos summum ius uti esset, lege rogatum est: dicti sunt ab eo, quod plurimum rei publicae consulerent. qui tamen ne per omnia regiam potestatem sibi vindicarent, lege lata factum est, ut ab eis provocatio esset neve possent in caput civis Romani animadvertere iniussu populi: solum relictum est illis, ut coercere possent et in vincula publica duci iuberent. La letteratura si divide tra chi sostiene che nel frammento in esame Pomponio stia «probabilmente riecheggiando i termini stessi della lex Valeria de provocatione» del 509 a.C. (B. Santalucia, Il processo penale nelle XII Tavole, in Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1988, 251, ora in Id., Studi di diritto penale romano, Roma 1994, 18), e chi, al contrario, ritiene si tratti soltanto di una versione marginale (C. Venturini, Pomponio, Cicerone e la ‘provocatio’, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne, II, cit., 527 ss., ora in Id., Scritti di diritto penale romano, a cura di F. Procchi e C. Terreni, I, Padova 2015, 67 ss.). In generale, tra le opere più recenti, si segnala: C. Pelloso, Brevi note sul diritto del cittadino al processo popolare dalla caduta del regno al decemvirato legislativo, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 62, 2015, 325 ss.; Id., Provocatio ad populum e poteri magistratuali dal processo all’Orazio superstite alla morte di Appio Claudio decemviro, cit., 219 ss.; Id., Ai primordi del giudizio popolare: poena capitis e garanzie del civis nella prima età repubblicana, in D.A. Centola-F. Fasolino-P.P. Onida-C. Pelloso-F. Procchi-M. Scognamiglio, Regole e garanzie nel processo criminale romano, a cura di L. Solidoro, Torino 2016, 83 ss.

[103] Cicero, In Verr. II.4.62.

[104] Livius 1.54.10: ... Gabina res regi Romano sine ulla dimicatione in manum traditur. Come esempi di tale accezione nell’espressione in manu, vedi ancora: Sallustius, Iug. 14.4: Sed quoniam parum tuta per se ipsa probitas est neque mihi in manu fuit, Iugurtha qualis foret, ad vos confugi, patres conscripti, quibus, quod mihi miserrumum est, cogor prius oneri quam usui esse; Livius 32.24.2.2: Postquam nihil esse in manu sua, et plures validioresque esse regios quam oppidanos respondebatur ...; Valerius Maximus 7.4.2: ... ut apud omnes plurimum posset consecutus, familiarem suum ad patrem misit indicaturum quemadmodum cuncta in sua manu haberet et quaesiturum quidnam fieri vellet.

[105] Il concetto di ampliamento demografico è espresso dal giurista adrianeo in relazione anche all’età repubblicana attraverso la “felice espressione” (così F. Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 8) di civitas augescens in D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum. Sul tema, si rinvia agli studi di M.P. Baccari: Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995, 759 ss.; Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, 2ª ed., Torino 2011.

[106] D. 1.2.2.2 (Pomponius libro singulari enchiridii): Postea aucta ad aliquem modum civitate ipsum Romulum traditur populum in triginta partes divisisse, quas partes curias appellavit propterea quod tunc rei publicae curam per sententias partium earum expediebat. et ita leges quasdam et ipse curiatas ad populum tulit: tulerunt et sequentes reges.

[107] In tal senso, ad esempio, L. Fascione, Manuale di diritto pubblico romano, 2ª ed., Torino 2013, 36, per cui da D. 1.2.2.1-2 «chiaramente si evince che in Roma sono esistiti re già prima di Romolo, ma questi fu il primo che cessò di governare facendo uso di quel potere indistinto e di fatto, qui indicato con l’ablativo manū, e che invece intese che gli ordini che vincolavano i concittadini avrebbero dovuto derivare non già dal suo arbitrio, ma dalla loro stessa volontà, espressa in un provvedimento votato, cui è dato il nome di lex»; F. Nasti, Pensiero greco e giuristi romani: ricerche sull’Enchiridion di Pomponio, in Giuristi romani e storiografia moderna. Dalla Palingenesia iuris civilis agli Scriptores iuris Romani, a cura di A. Schiavone, Torino 2017, 164 s., la quale evidenzia l’originalità di Pomponio: «Solo il giurista, se non erro, fa riferimento ad una monarchia romana anteriore a quella di Romolo; e lo fa richiamandosi esplicitamente al momento iniziale della civitas (et quidem initio civitatis nostrae …). È abbastanza chiaro, peraltro, che questa descrizione rende esplicita la sua volontà di farsi interprete di quella tradizione storiografica, ben rappresentata da Livio e da Dionigi di Alicarnasso, che poneva in luce la continuità esistente fra Romolo e i re di Alba Longa e, dunque, più o meno indirettamente, fra la distruzione di Troia e la fondazione di Roma. Se, dunque, i re ai quali Pomponio allude sono, come è verosimile intendere, i re latini, diventa ancora più significativo che solo Pomponio abbia messo in risalto la contrapposizione fra una forma di monarchia preromulea e il governo di Romolo. In breve: pur nel contesto di una continuità genetica (e solo indirettamente individuabile) fra il primo re di Roma e i re di Alba, è forte per Pomponio la rottura, la discontinuità rappresentata da Romolo, all’inizio della civitas romana».

[108] A tale proposito vedi le pregnanti riflessioni di D. Mantovani, Legum multitudo e diritto privato. Revisione critica della tesi di Giovanni Rotondi, in Leges publicae. La legge nell'esperienza giuridica romana. Collegio di diritto romano 2010 Cedant, a cura di J.-L. Ferrary, Pavia 2012, 718 s.: «Gli inizi di Roma, nel meccanismo dell’enchiridion, si perdono in una fase forse persino pre-romulea, in cui tutto è in mano ai re, sine lege certa, sine iure certo (§ 1). Quest’esordio, più che enunciare un semplice fatto, contiene la chiave interpretativa: Pomponio mostra di considerare quali valori fondamentali della narrazione la presenza del diritto (ius in civitate esse: § 13) e la sua certezza. Assunti come cardini l’esistenza e la certezza del ius, la “storia geometrica” di Pomponio – perché tale è, più che una storia in senso critico e positivistico – imbocca un andamento per tesi e antitesi: alla fase iniziale – pre-romulea – di vuoto giuridico fa da contrappunto l’origo, la nascita del diritto».

[109] Tacitus, Ann. 1.1.1. Cfr. anche l’oratio Claudii (sc. Claudianum de iure honorum Gallis dando) contenuta nella Tavola bronzea di Lione dove alla l. 8 si legge: Quondam reges hanc tenuere urbem ... (CIL XIII.1.1, nr. 1668, 232 ss. = FIRA I, 2ª ed., nr. 43, 281 ss.). Per gli aspetti giuridici del testo della epigrafe, le notizie relative a Servio Tullo e alla legislazione claudiana, tra le opere dell’ultimo decennio si segnala: R. Laurendi, La monarchia etrusca a Roma ed il nomen di Servio Tullio: epos e storia. Dati e considerazioni sulla Tavola di Lione e la Tomba François, in Polis. Studi interdisciplinari sul mondo antico 3, 2010, 123 ss.; Ead., Profili costituzionali e orientamenti politici del principato di Claudio, Reggio Calabria 2012, 101 ss.; C. Letta, Dalla tabula Lugdunensis alla Tomba François. La tradizione etrusca su Servio Tullio, in Studi Classici e Orientali 59, 2013, 91 ss.

[110] Vedi, in tal senso, la traduzione di D. Longrée, A propos du concept d’«apposition»: les constructions rex Ancus et urbs Roma, in L’Information Grammaticale 45, 1990, 8: «A l’origine, la ville de Rome fut gouvernée par des rois».

[111] Sull’utilizzo in tal senso del verbo, cfr. Ovidius, Fast. 2.687 s.: Ultima Tarquinius Romanae gentis habebat / regna ... [V.] Bulhart, v. habeo, in Thesaurus Linguae Latinae, VI.3, Lipsiae 1936, col. 2041, inserisce il testo di Tacito nelle fonti in cui habere ha il significato di «urbes, oppida, regiones, terras, al. (i. q. tenere, obtinere, occupatum tenere, in potestate tenere.

[112] In generale sulla libertà romana, vedi: U. von Lübtow, Blüte und Verfall der römischen Freiheit, Berlin 1953; Id., Die Freiheit, dargestellt am Beispiel des Aufstiegs und Niedergangs der römischen Libertas. Bilanz und Perspektiven, Rheinfelden 1988; L. Bruno, «Libertas plebis» in Tito Livio, in Giornale italiano di filologia 19, 1966, 107 ss.; R. Danieli, A proposito di libertas, in Studi in onore di P. de Francisci, I, Milano 1956, 545 ss.; G. Crifò, Su alcuni aspetti della libertà in Roma, Modena 1958 (estratto da Archivio Giuridico 154, 1958, 3 ss.); Id., Libertà ed eguaglianza in Roma, in Id., Libertà ed eguaglianza in Roma antica. L’emersione storica di una vicenda istituzionale, 2ª ed., Roma 1984, 7 ss.; C. Wirszubski, Libertas as a political idea at Rome during the late republic and early principate, Cambridge 1960; J. Bleicken, Staatliche Ordnung und Freiheit in der römischen Republik, Kallmünz 1972; P. Desideri, Repubblica romana e libertà politica: dalla storiografia romana ai Discorsi di Machiavelli, in Rivista Storica Italiana 124, 2012, 107 ss.; M. Genovese, Libertas e civitas in Roma antica, Acireale-Roma 2012; A. Muroni, Sull’origine della libertas in Roma antica: storiografia annalistica ed elaborazioni giurisprudenziali, in Diritto @ Storia 11, 2013, http://www.dirittoestoria.it/11/tradizione/Muroni-Origine-libertas-Roma-antica.htm. Per la libertas, con riferimento sia al concetto di libertà presso gli antichi, sia alle opere moderne, corredato da un commento di testi antologici di letteratura latina, I. Lana, Studi sulla libertà nell’antica Roma. Corso di letteratura latina, Torino 1991. Per il nesso tra libertà e organizzazione collettiva, G. Lobrano, La libertas che in legibus consistit, in Diritto @ Storia 15, 2017, http://www.dirittoestoria.it/15/tradizione/Lobrano-Libertas-in-legibus-consistit.htm. Su tale concetto nell’opera teatrale di Terenzio, M.F. Callier, La libertas et les valeurs politiques dans le théâtre de Térence (Adelphes, II, 17), in Association G. Budé. Actes du IXe Congrès (Rome, 13-18 avril 1973), I, Paris 1975, 412 ss.

[113] Cicero, Brut. 53.

[114] Livius 2.1.1: Liberi iam hinc populi Romani res pace belloque gestas, annuos magistratus imperiaque legum potentiora quam hominum peragam. Secondo K. Heldmann, Livius über Monarchie und Freiheit und der römische Lebensaltervergleich, in Würzburger Jahrbücher für die Altertumswissenschaft 13, 1987, 212, in questo brano lo storico mostra le due caratteristiche “offenbar wichtigsten” della libera res publica, ovvero la temporaneità della carica magistratuale e la prevalenza delle leggi sul potere esecutivo, ma questa ultimo aspetto non è richiamato nel successivo § 7 (Libertatis autem originem inde magis, quia annuum imperium consulare factum est, quam quod deminutum quicquam sit ex regia potestate, numeres): «Livius modifiziert hier die anfangs gegebene Wesensbeschreibung des Freistaates, indem er ihn einzig und allein auf die Annuität der Magistrate gegründet sein läßt und die Beschränkung aller Machtbefugnisse durch die Gesetze ignoriert, um das Prinzip der frührepublikanischen Herrschaftsausübung von der entgegengesetzten Seite her zu beleuchten: die Macht der Konsuln ist um nichts geringer als die der Könige».

[115] Livius 2.3.2-4: Erant in Romana iuventute adulescentes aliquot, nec ii tenui loco orti, quorum in regno libido solutior fuerat, aequales sodalesque adulescentium Tarquiniorum, adsueti more regio vivere. 3. Eam tum aequato iure omnium licentiam quaerentes libertatem aliorum in suam vertisse servitutem inter se conquerebantur: regem hominem esse, a quo inpetres, ubi ius, ubi iniuria opus sit; esse gratiae locum, esse beneficio, et irasci et ignoscere posse, inter amicum atque inimicum discrimen nosse; 4. leges rem surdam, inexorabilem esse, salubriorem melioremque inopi quam potenti, nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris; periculosum esse in tot humanis erroribus sola innocentia vivere.

[116] Livius 2.1.2: Quae libertas ut laetior esset, proxumi regis superbia fecerat. Nam priores ita regnarunt, ut haud inmerito omnes deinceps conditores partium certe urbis, quas novas ipsi sedes ab se auctae multitudinis addiderunt, numerentur. Cfr. l’oratio Claudii: ... deinde postquam Tarquini Superbi mores invisi civitati nostrae esse coeperunt, qua ipsius qua filiorum ei[us], nempe pertaesum est mentes regni et ad consules annuos magistratus administratio rei p(ublicae) translata est (CIL XIII.1.1, nr. 1668, 232 = FIRA I, 2ª ed., nr. 43, 281).

[117] Sulla politica romulea mirata all’apertura anche al nemico allo scopo di ingrandire la civitas: Cicero, Pro Balb. 31: Illud vero sine ulla dubitatione maxime nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit quod princeps ille creator huius urbis Romulus foedere Sabino docuit etiam hostibus recipiendis augeri hanc civitatem oportere. Cuius auctoritate et exemplo numquam est intermissa a maioribus nostris largitio et communicatio civitatis.

[118] Sallustius, Cat. 6.7: Post ubi regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque augendae rei publicae fuerat, in superbiam dominationemque se convortit, inmutato more annua imperia binosque imperatores sibi fecere: eo modo minume posse putabant per licentiam insolescere animum humanum. Per il passo rimando a C. Venturini, Libertas e dominatio nell'opera di Sallustio e nella pubblicistica dei populares, in Studi per E. Graziani, Pisa 1973, 636 ss. (ora in Id., Studi di diritto delle persone e di vita sociale in Roma antica. Raccolta di scritti, a cura di A. Palma, Napoli 2014, 481 ss.).

[119] Vedi invece Cicero, Tusc. 4.1.1, il quale, rispetto all’originario assetto costituzionale di Roma, pone sullo stesso piano l’operato dei re e le leggi: Nam cum a primo urbis ortu regiis institutis, partim etiam legibus auspicia, caerimoniae, comitia, provocationes, patrum consilium, equitum peditumque discriptio, tota res militaris divinitus esset constituta, tum progressio admirabilis incredibilisque cursus ad omnem excellentiam factus est dominatu regio re p. liberata.

[120] Tacitus, Ann. 3.26.1-3: Vetustissimi mortalium, nulla adhuc mala libidine, sine probro scelere eoque sine poena aut coercitionibus agebant. Neque praemiis opus erat, cum honesta suopte ingenio peterentur; et ubi nihil contra morem cuperent, nihil per metum vetabantur. 2. At postquam exui aequalitas et pro modestia ac pudore ambitio et vis incedebat, provenere dominationes multosque apud populos aeternum mansere. 3. Quidam statim, aut postquam regum pertaesum, leges maluerunt. <H>ae primo rudibus hominum animis simplices erant; maximeque fama celebravit Cretensium, quas Minos, Spartanorum, quas Lycurgus, ac mox Atheniensibus quaesitiores iam et plures Solo perscripsit.

[121] Intorno al tema costante presente nelle fonti antiche della fondazione, o ri-fondazione, della civitas attraverso le leggi, rimando all’illuminante lavoro di O. Diliberto, La città e le leggi. Racconti di fondazione, legislazione arcaica e ideologia augustea, in Legge eguaglianza diritto. I casi di fronte alle regole nell’esperienza antica. Atti del Convegno (Bologna-Ravenna, 9-11 maggio 2013), a cura di G. Luchetti, Roma 2018, 95 ss.

[122] G. Lobrano, La théorie de la respublica selon l’empereur Justinien (Digesta Iustiniani 1.2-4), in Diritto @ Storia 8, 2009, § 3, http://www.dirittoestoria.it/8/Memorie/Roma_Terza_Roma/Lobrano-Respublica-Empereur-Justinien.htm, rinviene nel frammento pomponiano D.1.2.1 “l’opposizione” tra lex e gubernare-gerere: «Les ‘caractéristiques propres’ de l’ordre royal sont la possibilité et la tendance des reges à “tout” gérer à travers le “gubernare” (ou “regere” [voir, dans le paragraphe suivant, D.1.2.2. [Pomp.] 13]) rendant ainsi “incertains” la lex et le ius. […] Toutefois, le gubernare des reges n’exclut pas la possibilité de la lex; il prévoit plutôt la possibilité de se passer de la lex; c’est le manque de certitude de la loi et, donc, du droit comme nécessité: en amont et à la base du gubernare, soit pour le fonder soit pour le circonscrire».

[123] Per le accezioni del vocabolo, G. Ustrnul, v. multitūdo, in Thesaurus Linguae Latinae, VIII, Lipsiae 1963, coll. 1600 ss.

[124] Livius 1.8.1: Rebus divinis rite perpetratis vocataque ad concilium multitudine quae coalescere in populi unius corpus nulla re praeterquam legibus poterat, iura dedit. Vedi anche Ovidius, Met. 14.803: Romule, iura dabas.

[125] [P.] Graeber, v. dēvincio, in Thesaurus Linguae Latinae, V.1, Lipsiae 1912, col. 860, riconosce al verbo utilizzato nel brano in esame il senso traslato di «i. q. astringere, alligare (sive legibus, necessitate sim. sive beneficiis, amore sim. sive calamitate, scelere sim.), conciliare, obligare, obstringere».

[126] In tal senso, ad esempio: Cicero, De re publ. 2.26: Pompilius ... et animos propositis legibus his quas in monumentis habemus ardentis consuetudine et cupiditate bellandi religionum caerimoniis mitigavit; 5.3: … illa autem diuturna pax Numae mater huic urbi iuris et religionis fuit, qui legum etiam scriptor fuit quas scitis extare …; Livius 1.19.1: Qui regno ita potitus urbem novam, conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat; Eutropius, Brev. 1.3.2: Nam et leges Romanis moresque constituit, qui consuetudine proeliorum iam latrones ac semibarbari putabantur ...; De vir. illustr. 3.2: Leges quoque plures et utiles tulit, omnia, quae gerebat, iussu Egeriae nymphae, uxoris suae, se facere simulans; Nov. 47. Praef.: ... βασιλες ατς κατεστσαντο ωμλος τε κα Νουμς, μν τν πλιν οκοδομσας, δ ατν τξας τε κα κατακοσμσας (tr. lat.: ... reges illas constituerunt Romulus et Numa, quorum alter urbem condidit, alter eam legibus et ordinavit et ornavit). Vedi ancora: Cicero, De nat. deor. 3.5: Numan sacris constitutis fundamenta ; De vir. illustr. 3.1: ... Numa Pompilius ... ut populum ferum religione molliret, sacra plurima instituit; Liv. Perioch. 1, p. 1 ed. O. Rossbach: Numa Pompilius ritus sacrorum tradidit; Florus, Epit. 1.2.1: Numa ... sacra et caerimonias omnemque cultum deorum inmortalium docuit ... Sulla riforma religiosa di Numa, si segnala specialmente: J.B. Carter, The Religion of Numa, London 1906; F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei ser. VIII, 5, 1950, 553 ss.; S. Accame, I re di Roma nella leggenda e nella storia, 2ª ed., Napoli s.d. [1959?], 219 ss.; E.M. Hooker, The Significance of Numa’s Religious Reforms, in Numen 10, 1963, 87 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, 31 s.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, 3 ss.; L.-R. Ménager, Les collèges sacerdotaux, les tribus et la formation primordiale de Rome, cit., 437 ss.; M.A. Levi, Il re Numa e i ‘penetralia pontificum’, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze morali e storiche 115, 1981 [ma 1984], 161 ss.; J. Martínez-Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, 97 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘Storia di Roma arcaica’ di Dionigi d’Alicarnasso, I, Napoli 1988, 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d’après Denys d’Halicarnasse, in Pallas 39, 1993, 153 ss.

[127] In merito, vedi, ad esempio, P. Giunti, Il mare del diritto. Legalità e famiglia in Roma antica, in Le legalità e le crisi della legalità, a cura di C. Storti, Torino 2016, 9, la quale rileva che «non è senza riserve la condanna pronunciata da Tacito che nell’esperienza legislativa di Roma ravvisa un prima e un dopo: c’è il tempo passato, il tempo della concordia e della giustizia e c’è il tempo presente, il tempo della coercizione che si fa ingiustizia».

[128] Gellius, Noct. Att. 10.28.2: Eam rem propterea notavi, ut discrimina, quae fuerint iudicio moribusque maiorum pueritiae, iuventae, senectae, ex ista censione Servi Tulli, prudentissimi regis, noscerentur.

[129] Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 3.15.2: Servius Tullius generi sui Tarquinii Superbi, qui ei successit in regnum, nefario scelere occisus est. Nec «discessere adytis arisque relictis dii», tanto in optimum illius populi regem parricidio perpetrato ...

[130] Cicero, De re publ. 1.58: (SCIP.) ‘Ergo his annis quadringentis Romae rex erat?’ (LAEL.) ‘Et superbus quidem’. (SCIP.) ‘Quid supra?’ (LAEL.) ‘Iustissimus, et deinceps retro usque ad Romulum, qui ab hoc tempore anno sescentesimo rex erat’.

[131] Così anche Florus, Epit. 1.8.1: Haec est prima aetas populi R. et quasi infantia, quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria tam variis ingenio ut rei p. ratio et utilitas postulabat.

[132] Cicero, De re publ. 2.37: Tum Laelius: ‘Nunc fit illud Catonis certius, nec temporis unius nec hominis esse constitutionem <nostrae> rei publicae; perspicuum est enim, quanta in singulos reges rerum bonarum et utilium fiat accessio. Sed sequitur is qui mihi videtur ex omnibus in re publica vidisse plurimum’.

[133] Tra le innumerevoli fonti che richiamano il concetto, vedi: Cicero, De re publ. 1.39: Res publica res populi, populus autem non omnis hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus, dove l’utilitas communis è individuata come elemento fondante per l’esistenza del populus; De off. 1.85: Omnino qui rei publicae praefuturi sunt duo Platonis praecepta teneant unum ut utilitatem civium sic tueantur ut quaecumque agunt ad eam referant obliti commodorum suorum alterum ut totum corpus rei publicae curent ne dum partem aliquam tuentur reliquas deserant. Ut enim tutela sic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem qui commissi sunt non ad eorum quibus commissa est gerenda est. Qui autem parti civium consulunt partem neglegunt rem perniciosissimam in civitatem inducunt seditionem atque discordiam ex quo evenit ut alii populares alii studiosi optimi cuiusque videantur pauci universorum; De fin. 3.64: Ut enim leges omnium salutem singulorum saluti anteponunt, sic vir bonus et sapiens et legibus parens et civilis officii non ignarus utilitati omnium plus quam unius alicuius aut suae consulit. Nec magis est vituperandus proditor patriae quam communis utilitatis aut salutis desertor propter suam utilitatem aut salutem.

In materia vedi specialmente: F.B. Cicala, Intorno al concetto dell’‘utile’ e le sue applicazioni nel diritto romano, Milano-Torino-Roma 1910, per cui l’utilitas è «una delle rappresentazioni generali meglio delineate e più vive nella coscienza di tutta la giurisprudenza romana» (9); A. Steinwenter, Utilitas publica – utilitas singulorum, in Festschrift P. Koschaker, 1, Weimar 1939, 84 ss.; J. Gaudemet, Utilitas publica, in Revue Historique de Droit français et étranger 28, 1951, 465 ss. (ora in Id., Études de droit romain, II. Institutions et doctrines politiques, Napoli 1979, 163 ss.), per cui il concetto di utilità comune, espresso con il ricorso a multiple espressioni (subiectorum, communis, rei publicae, publica, omnium, humani generis, universis utilissimum, hominibus utilius), comparve per la prima volta «avec toute son ampleur» in Cicerone dove l’ispirazione della dottrina greca è «manifeste, encore qu’elle laisse à sa doctrine une profonde originalité» (467 = 165). Dalla analisi delle fonti, l’Autore mostra la sovrapposizione avvenuta nel tempo della nozione di utilitas publica a quella di utilitas communis fino ad arrivare a Giustiniano per il quale l’utilità collettiva rappresentava «un principe d’action» (495 = 193); G. Jossa, L’«utilitas rei publicae» nel pensiero imperiale dell’epoca classica, in Studi Romani XI.4, 1963, 387 ss.; Id., L’«utilitas rei publicae» nel pensiero di Cicerone, ivi XII.3, 1964, 269 ss., il quale rileva il carattere morale del principio dell’utilità collettiva nel pensiero di Cicerone, trasfuso in seguito nella politica dei principes; G. Longo, Utilitas publica, in Labeo 18, 1972, 7 ss.; E. Dovere, Le discours juridique et moral d’utilitas” à Rome, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 65, 1999, 239 ss.; M. Navarra, Ricerche sulla utilitas nel pensiero dei giuristi romani, Torino 2002, e R. Scevola, ‘Utilitas publica’. I. Emersione nel pensiero greco e romano, II. Elaborazione della giurisprudenza severiana, Padova 2012, per la presenza della nozione nell’interpretazione dei giuristi romani; J.F. Stagl, Die Funktionen der utilitas publica, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 134, 2017, 514 ss.; Id., Utilitas publica, ius naturale y protección de la natura, in Revista General de Derecho Romano 33, 2019, RI §422067, il quale sostiene la derivazione del principio dell’utilitas publica dal diritto naturale. Per l’utilitas quale motivo ispiratore della legislazione dei Giudici d’Arborea, F. Sini, Notazioni (e/o rimeditazioni) su diritto romano e Carta de Logu de Arborea, in Diritto @ Storia 11, 2013, § 6, http://www.dirittoestoria.it/11/D&Innovazione/Sini-Notazioni-rimeditazionidiritto-romano-Carta-Logu-Arborea.htm.

[134] CIL XIII.1.1, nr. 1668, 232 ss. = FIRA I, 2ª ed., nr. 43, 281 ss.

[135] Cicero, De re publ. 2.2: Is dicere solebat ob hanc causam praestare nostrae civitatis statum ceteris civitatibus, quod in illis singuli fuissent fere quorum suam quisque rem publicam constituisset legibus atque institutis suis, ut Cretum Minos, Lacedaemoniorum Lycurgus, Atheniensium, quae persaepe commutata esset, tum Theseus tum Draco tum Solo tum Clisthenes tum multi alii, postremo exsanguem iam et iacentem doctus vir Phalereus sustentasset Demetrius, nostra autem res publica non unius esset ingenio sed multorum, nec una hominis vita sed aliquot constituta saeculis et aetatibus.

[136] Livius 1.42.4: Adgrediturque inde ad pacis longe maximum opus, ut, quem ad modum Numa divini auctor iuris fuisset, ita Servium conditorem omnis in civitate discriminis ordinumque, quibus inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlucet, posteri fama ferrent.

[137] R. Cardilli, Plebiscita et leges antiusura. Leges fenebres, ius civile ed ‘indebitamento’ della plebe: a proposito di Tac. Ann. VI, 16, 1-2, in Diritto @ Storia 7, 2008, § 3.A (http://www.dirittoestoria.it/7/Memorie/Cardilli-Plebiscita-leges-antiusura.htm); Id., Leges fenebres, ius civile ed ‘indebitamento’ della plebe: a proposito di Tac. Ann. 6.16.1-2, in Studi in onore di A. Metro, I, a cura di C. Russo Ruggeri, Milano 2009, 384 s.

[138] Seneca phil., Ad Lucil. 106.6: Si adfectus corpora sunt, et morbi animorum, ut avaritia, crudelitas, indurata vitia et in statum inemendabilem adducta: ergo et malitia et species eius omnes, malignitas, invidia, superbia ...

[139] Vedi, ad esempio: Livius 3.9.9: Quid tandem? Illi non licere, si quid consules superbe in aliquem civium aut crudeliter fecerint, diem dicere, accusare iis ipsis iudicibus, quorum in aliquem saevitum sit?; Sallustius, Cat. 51.12-14: ... qui magno imperio praediti in excelso aetatem agunt, eorum facta cuncti mortales novere. 13. Ita in maxuma fortuna minuma licentia est; neque studere neque odisse, sed minume irasci decet; 14. quae apud alios iracundia dicitur. Ea in imperio superbia atque crudelitas appellatur. La superbia dei magistrati repubblicani era assimilata a quella dei re: Livius 4.15.4: ... nuper decemviros bonis, exilio, capite multatos ob superbiam regiam ...; 28.42.22: Ego, patres conscripti, P. Cornelium rei publicae nobisque, non sibi ipsi privatim creatum consulem existimo, exercitusque ad custodiam urbis atque Italiae scriptos esse, non quos regio more per superbiam consules quo terrarum velint traiciant. Cfr. Sallustius, Iug. 64.5: ...dimidia pars exercitus si sibi permitteretur, paucis diebus Iugurtham in catenis habiturum; ab imperatore consulto trahi, quod homo inanis et regiae superbiae imperio nimis gauderet. L’uso politico durante la Repubblica è sottolineato specialmente da J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la République, 2ª ed., Paris 1972, 439 ss., per cui verosimilmente attraverso il ricorso a tale concetto «les Romains les plus pauvres jugeaient le comportement à leur égard des riches, des optimates, leur arrogance, leur morgue».

[140] Ex multis: Cicero, Pro Rab. perduell. 13: ...Tarquini, superbissimi atque crudelissimi regis ...; Livius 1.49.1: Inde L. Tarquinius regnare occepit, cui Superbo cognomen facta indiderunt, quia socerum gener sepultura prohibuit ...; 1.50.3: Turnus Herdonius ab Aricia ferociter in absentem Tarquinium erat invectus: haud mirum esse Superbo inditum Romae cognomen - iam enim ita clam quidem mussitantes, vulgo tamen eum appellabant -; an quicquam superbius esse quam ludificari sic omne nomen Latinum?; 1.53.9: Forsitan etiam ardoris aliquid ad bellum armaque se adversus superbissimum regem ac ferocissimum populum inventurum; Florus, Epit. 1.7.1 s.: Postremus fuit omnium regum Tarquinius, cui cognomen Superbo ex moribus datum. 2. Hic regnum avitum, quod a Servio tenebatur, rapere maluit quam expectare, inmissisque in eum percussoribus scelere partam potestatem non melius egit quam adquisiverat; 1.7.4: Set ipse in senatum caedibus, in plebem verberibus, in omnis superbia, quae crudelitate gravior est bonis, grassatus, cum saevitiam domi fatigasset, tandem in hostes conversus est; De vir. illustr. 8.1: Tarquinius Superbus cognomen moribus meruit. Occiso Servio Tullio regnum sceleste occupavit. Come ha sottolineato G. Migliorati, Forme politiche e tipi di governo nella Roma etrusca del VI sec. a.C., in Historia 52, 2003, 43, soltanto l’ultimo re dei Romani «è dipinto con i colori negativi di un despota, poiché la sua figura subì nella storiografia di ambito greco una rielaborazione che introdusse elementi esteriori della storia dei tiranni greci, e in quella di ambito latino risentì senza dubbio di rielaborazioni proprie della tradizione annalistica (e delle sue parentele con la politica) di sentimenti repubblicani».

[141] Valerius Maximus 4.4.1: Regio imperio propter nimiam Tarquinii superbiam finito consulatus initium Valerius Publicola cum Iunio Bruto auspicatus est ... Vedi anche Livius 3.39.3 s.: ... admonentemque Valeriis et Horatiis ducibus pulsos reges. 4. Nec nominis homines tum pertaesum esse, quippe quo Iovem appellari fas sit, quo Romulum, conditorem urbis, deincepsque reges, quod sacris etiam ut sollemne retentum sit; superbiam violentiamque tum perosos regis.

[142] L. Bruno, «Crimen regni» e «superbia» in Tito Livio, in Giornale italiano di filologia 19, 1966, 236 ss., rinviene nella testimonianza liviana una raffigurazione negativa del Regnum, in antitesi alla libertas repubblicana.

[143] Secondo il racconto tradizionale, dapprima Giunio Bruto, con il consenso del collega, … populum, ne postmodum flecti precibus aut donis regiis posset, iure iurando adegit neminem Romae passuros regnare (Livius 2.1.9); in seguito si votò la proposta di P. Valerio Publicola sanzionante la adfectatio regni quale crimen: … sacrandoque cum bonis capite eius qui regni occupandi consilia inisset … (Livius 2.8.2). Sul tema, tra gli ultimi, R. Pesaresi, Studi sul processo penale in età repubblicana: dai tribunali rivoluzionari alla difesa della legalità democratica, Napoli 2005, 32 ss.; C. Smith, Adfectatio regni in the Roman Republic, in Ancient Tyranny, a cura di S. Lewis, Edinburgh 2006, 49 ss.; I.G. Mastrorosa, Aspirations tyranniques et adfectatio regni dans la Rome archaïque et dans la première époque républicaine. Cicéron et Tite-Live, in Le Tyran et sa postérité dans la littérature latine de l’Antiquité à la Renaissance, dir. L. Boulègue - H. Casanova-Robin - C. Lévy, Paris 2013, 123 ss.

[144] Vergilius, Aen. 6.853. Si segnala sull’argomento: H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, e Superbia innenpolitisch, in Studi italiani di filologia classica 17, 1940, 97 ss., spec. 110 ss., ivi, 27-28, 1956, 135 ss. (ora in Id., Römische Politik und römische Politiker. Aufsätze und Vorträge, Heidelberg 1967, rispettivamente a 39 ss. e a 52 ss.), per cui il verso virgiliano mostra come il concetto di superbia sia presente «in die klassische dichterische Verklärung der römischen Außenpolitik»; I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino 1987, 84, Id., L’idea della pace nell’antichità, S. Domenico di Fiesole 1991, 86 s., secondo il quale nei versi di Virgilio la pax è «strumento per governare tutto il mondo» e si manifesta «come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, nel senso che esso esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non v’è né perdono né clemenza». Sulla terminologia connessa alla superbia nel poema virgiliano: R.B. Lloyd, Superbus in the Aeneid, in The American Journal of Philology 93, 1972, 125 ss.; A. Traina, v. superbia, in Enciclopedia Virgiliana, 4, Roma 1988, 1072 ss.; D. Christenson, Superbia in Vergil’s Aeneid: Who’s Haughty and Who’s Not?, in Scholia. Studies in Classical Antiquity 11, 2002, 44 ss.

[145] Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 5.12.1: Hanc ardentissime dilexerunt, propter hanc vivere voluerunt, pro hac emori non dubitaverunt. Caeteras cupiditates huius unius ingenti cupiditate presserunt. Ipsam denique patriam suam, quoniam servire videbatur inglorium, dominari vero atque imperare gloriosum, prius omni studio liberam, deinde dominam esse concupierunt. Hinc est quod regalem dominationem non ferentes, annua imperia binosque imperatores sibi fecerunt, qui consules appellati sunt a consulendo, non reges aut domini a regnando atque dominando: cum et reges utique a regendo dicti melius videantur, ut regnum a regibus, reges autem, ut dictum est, a regendo; sed fastus regius non disciplina putata est regentis, vel benevolentia consulentis, sed superbia dominantis.

[146] Sull’avversione ideologica del sistema del Regnum in età repubblicana, vedi specialmente M.A. Giua, La valutazione della monarchia a Roma in età repubblicana, in Studi Classici e Orientali 16, 1967, 308 ss., per cui i motivi antimonarchici erano presenti già nella tradizione annalistica, «anche se il giudizio generale sulla monarchia e quello sui singoli re romani non sempre convergono in una medesima linea di valutazione negli scrittori del periodo repubblicano» (326), e, da ultimo, F. Russo, L’odium regni a Roma tra realtà politica e finzione storiografica, Pisa 2015, il quale dimostra «come lo sfruttamento politico (in senso negativo) del concetto di regnum, anche come sinonimo, semantico e lessicale dell’idea di tirannide, non sia una caratteristica originale della tarda repubblica, ma come anzi già tra III e II secolo a. C. la classe politica romana avesse iniziato a comprendere il valore ideologico del concetto di regnum, e di conseguenza ad usarlo nell’agone politico» (13). Cfr. P.M. Martin, L’idée de royauté à Rome. II. Haine de la royauté et séductions monarchiques (du IVe siècle av. J.-C. au principat augustéen), Clermond-Ferrand 1994, 4 ss., per cui il sentimento dell’odium regni sarebbe apparso fin dall’età di Tarquinio il Superbo.

[147] Le fonti spesso caratterizzano questo re come iniustus, ma al contempo lo considerano abile comandante militare: Cicero, De re publ. 2.44: Etenim illi iniusto domino atque acerbo aliquamdiu in rebus gerundis prospere fortuna comitata est; Livius 1.53.1: Nec, ut iniustus in pace rex, ita dux belli pravus fuit; quin ea arte aequasset superiores reges, ni degeneratum in aliis huic quoque decori offecisset; Ovidius, Fast. 2.688 s.: … vir iniustus, fortis ad arma tamen / ceperat hic alias, alias everterat urbes.

[148] Cicero, De re publ. 2.51: ... ut, quem ad modum Tarquinius, non novam potestatem nactus, sed quam habebat usus iniuste, totum genus hoc regiae civitatis everterit ...

[149] Cicero, Philipp. III.9: Atque ille Tarquinius quem maiores nostri non tulerunt non crudelis, non impius, sed superbus est habitus et dictus: quod nos vitium in privatis saepe tulimus, id maiores nostri ne in rege quidem ferre potuerunt. L. Brutus regem superbum non tulit: D. Brutus sceleratum atque impium regnare patietur? Quid Tarquinius tale qualia innumerabilia et facit et fecit Antonius? Senatum etiam reges habebant: nec tamen, ut Antonio senatum habente, in consilio regis versabantur barbari armati. Servabant auspicia reges; quae hic consul augurque neglexit, neque solum legibus contra auspicia ferendis sed etiam conlega una ferente eo quem ipse ementitis auspiciis vitiosum fecerat. Vedi ancora 3.10: Nihil humile de Tarquinio, nihil sordidum accepimus ... Supplicia vero in civis Romanos nulla Tarquini accepimus ... Cfr. C.J. Classen, Die Königszeit im Spiegel der Literatur der römischen Republik (Ein Beitrag zum Selbstverständnis der Römer), in Historia 14, 1965, 398, per cui nel brano delle Filippiche «in einem sehr merkwürdigen Abschnitt entwirft Cicero ein Bild, das Tarquinius milder erscheinen läßt […] das ist nicht eine neue Darstellung, sondern eine ungewohnte Akzentuierung, die nicht zugunsten des Tarquinius, sondern zuungunsten des Antonius gegeben wird, den Cicero in der schärfstmöglichen Form zu treffen versucht, indem er zeigt, daß er schlimmer als der ärgste König waltet, den Rom je gesehen hat».

Nell’opera ciceroniana il Regnum generalmente non è inteso come forma di governo contrapposta alla Res publica, priva di un sistema di leges in grado di garantire la libertas, «anche prima della Repubblica, i Romani avvertivano l’esigenza di sottoporre le istituzioni alle leggi. I principi costituzionali repubblicani erano radicati nel passato monarchico, in particolar modo nelle riforme istituzionali di Servio Tullio. Esse prefiguravano la costituzione mista, poiché assicuravano l’ius suffragii al popolo e il riconoscimento della supremazia sociale agli ottimati (Rep., 2.22.40). Perciò, non si poteva dire che i Romani fossero tradizionalmente refrattari al regnum. Quello che giustamente odiavano era la tirannide, rappresentata dalla figura odiosa del Superbo, cioè il potere personale illegale, violento, eversivo delle tradizioni, esercitato nell’esclusivo interesse del rex. Ma la monarchia romana era stata, a suo modo, un genus reipublicae, nel quale il popolo era comunque titolare dell’ordinamento e in grado di esprimere la propria volontà» (G. Giliberti, Constitutio e Costituzione, in Cultura giuridica e diritto vivente 1, 2014, 10, http://ojs.uniurb.it/index.php/cgdv/article/view/369/361 ).

[150] L’assolutezza del potere regio è affermata con veemenza in alcuni saggi di U. Coli, soprattutto: Regnum. I. La nozione di ‘regnum; Regnum. II. Vero e falso nella tradizione sull’antica monarchia; Regnum. III.Rex’, ‘populus’, ‘patres; Regnum. V. Natura, contenuto e limiti del potere del re;Regnum. VII. La monarchia nei rapporti esterni – Genesi dell’‘imperium, pubblicati in Studia et Documenta Historiae et Iuris 17, 1951, 1 ss.; 24 ss., spec. 39 ss.; 53 ss.; 99 ss.; 145 ss. (ora in Id., Scritti di diritto romano, I, cit., 323 ss.; 345 ss., spec. 360 ss.; 373 ss.; 417 ss.; 462 ss.). Secondo l’autore, il Regnum comportava «l’unificazione della massa sotto il potere assorbente del rex», e perciò era antitetico a concetti quali populus Romanus e civitas; inoltre in questo sistema l’imperium, estraneo al potere assoluto regio, si sarebbe formato in ambito del diritto internazionale, sarebbe stato assunto dal rex soltanto in virtù della partecipazione a “una societas interstatuale”. Coli, tuttavia, rinviene comunque nella mentalità romana “un limite naturale”: «Se i sudditi sono in potestate del re, il re a sua volta, come tutti i re, è in potestate degli dèi, il più eccelso dei quali è Giove. Perciò deve sottostare alla volontà divina, volontà che si manifesta con approvazioni o disapprovazioni: fas est - ne fas est» (121 = 438).

Cfr. V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano, cit., 21, il quale, seppur affermando l’assenza di limiti del potere regio, parla del re romano in termini di “fiduciario della comunità”: «Lungi dall’essere un padrone (κνριοφ, o dominus), come lo sarebbe il re di una monarchia territoriale, il re della monarchia cittadina è […] l’uomo che i concittadini stimano degno del comando, di esso legittimamente investito: di fronte agli dei, alle comunità straniere, al singolo recalcitrante il re rappresenta e impersona la comunità medesima, non rex Romae ma Romanorum, in qualche modo anticipazione di quel che saranno nel successivo regime i magistratus rei publicae. Tuttavia il potere di disposizione che deriva dal rapporto fiduciario non è soggetto a limiti giuridicamente determinati: gli altri organi della città si riducono ad un corpo consultivo che non limita la discrezionalità dell’azione, e ad una vigile ed informata opinione pubblica».

[151] In merito, si segnala Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 10 s., per cui sebbene il potere regio fosse illimitato, si riduceva da sé; attraverso la normativa romulea che delimitava i rapporti giuridici di re, senato e cittadini «la puissance royale elle-même est […] liée par la constitution politique, c'est – e qui l’Autore richiama Sallustius, Cat. 6.6 – un imperium legitimum. La puissance royale de Numa et de ses successeurs, c’est, aux yeux de la tradition, la puissance consulaire dans son étendue la plus ancienne, antérieure au démembrement des attributions de la censure et de la préture; soustraite aux limitations qui résultent de l’intercession, de la provocation et des règles plus tard établies pour la nomination des auxiliaires et des représentants des magistrats; soustraite aussi à toute espèce de terme; enfin accompagnée des pouvoirs de magistrats qui sont exercés sous la République soit par les magistrats extraordinaires chargés des dédications, des assignations et des fondations de colonies, soit par le grand pontife, mais cependant restreinte par les droits du conseil de la cité, de l’assemblée du peuple et de chacun des citoyens». Secondo la visione mommseniana, dunque, il re romano è da intendersi come un magistrato, quale espressione della sovranità popolare, e dunque il Regnum è da considerarsi al pari di una monarchia costituzionale. L’idea che il re fosse un magistrato non è originale, fu espressa infatti fin dal XVI sec. da Johannes Rosinus (Johannes Roszfeld), Antiquitatum Romanarum corpus absolutissimum, cum notis Doctissimis ac locupletissimis Thomae Dempsteri J.C., editio postrema, ab innumerabilis erroris repurgata, Trajecti ad Rhenum, apud Guilielmum vande Water, Academiae Typographum mdcci [rist. del testo originale del 1585], 487 s., ciò nondimeno nell’opera di Mommsen «sono evidenti alcuni influssi dell’ideologia liberale nella storiografia del secolo XIX» (R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit., 84).

[152] Così, ad esempio: L. Landucci, Storia del diritto romano dalle origini fino alla morte di Giustiniano, cit., 458: «Il potere del re romano non risponde ad alcuna delle classiche forme monarchiche né semplici, né miste: fu sui generis e proprio della italica civiltà. Il senato, i comizi e, sovrattutto, i costumi, ne frenavano l’autorità, ed impedivano che degenerasse in arbitrio»; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, cit., 163 ss.: «nel periodo della monarchia latina – il potere del rex doveva avere dei limiti costituiti dalla posizione dei patres e dall’autorità di taluni collegi religiosi» (173), vedi anche Id., Primordia civitatis, cit., 553 ss., dove, dopo aver evidenziato il potere - «unitario e, in linea di principio, illimitato» - del rex inauguratus «derivato da una trasmissione di potenza di origine divina», sostiene che, in seguito alla stabilizzazione della comunità attraverso la normativa regia, «nonostante le molte funzioni esercitate non si può considerare il rex come un capo investito di potere assoluto»; F. De Martino, Note sul regnum, in Iura 4, 1953, 181 ss.; Id., Intorno all’origine della repubblica romana e delle magistrature, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.1, Berlin-New York 1972, 217 ss.: «è difficile dire, movendo dall’ipotesi della federazione gentilizia come originaria struttura della comunità, che il potere del rex fosse tanto ampio ed assoluto. Esso era anzi debole e più simile al potere del capo di una lega scelto d’accordo fra i vari membri di essa, che a quello di un re unitario» (218); A. Carandini, Roma il primo giorno, Roma-Bari 2007, 96: «Sacerdoti, consiglio regio e comizi erano collegi e corpi che controbilanciavano il potere regio, che non era quindi assoluto».

[153] Cicerone in altre occasioni, tra i vari sensi del termine impius, sceglie quello di avverso agli dèi e alla religio, ad esempio: In Verr. II.1.47: Non dubito quin tametsi nullus in te sensus humanitatis, nulla ratio umquam fuit religionis, nunc tamen in metu periculoque tuo tuorum tibi scelerum veniat in mentem. Potestne tibi ulla spes salutis commoda ostendi, cum recordaris in deos immortales quam impius, quam sceleratus, quam nefarius fueris? Apollinemne tu Delium spoliare ausus es? Illine tu templo tam antiquo, tam sancto, tam religioso manus impias ac sacrilegas afferre conatus es?; De dom. 139: praesertim cum iste impurus atque impius hostis omnium religionum, qui contra fas et inter viros saepe mulier et inter mulieres vir fuisset, ageret illam rem ita raptim et turbulente uti neque mens neque vox neque lingua consisteret; De har. resp. 20: Quis est ex gigantibus illis, quos poetae ferunt bellum dis immortalibus intulisse, tam impius qui hoc tam novo tantoque motu non magnum aliquid deos populo Romano praemonstrare et praecinere fateatur?; De leg. 2.15: Sit igitur hoc iam a principio persuasum civibus, dominos esse omnium rerum ac moderatores deos, eaque, quae gerantur, eorum geri iudicio ac numine, eosdemque optime de genere hominum mereri et, qualis quisque sit, quid agat, quid in se admittat, qua mente, qua pietate colat religiones, intueri piorumque et impiorum habere rationem; 2.42: Quorum scelere religiones tum prostratae adflictaeque sunt, partim ex illis distracti ac dissipati iacent, qui vero ex iis et horum scelerum principes fuerant et praeter ceteros in omni religione inpii, non solum vita --- cruciati atque dedecore, verum etiam sepultura et iustis exsequiarum caruerunt; cfr. anche: De div. 1.7: Nam cum omnibus in rebus temeritas in adsentiendo errorque turpis est, tum in eo loco maxime, in quo iudicandum est, quantum auspiciis rebusque divinis religionique tribuamus; est enim periculum, ne aut neglectis iis inpia fraude aut susceptis anili superstitione obligemur; De nat. deor. 2.168: Mala enim et impia consuetudo est contra deos disputandi, sive ex animo id fit sive simulate.

Sulle accezioni del termine, [B.] Rehm, v. impius, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae 1937, coll. 620 ss. Vedi anche, da ultimo, R. Fiori, La condizione di homo sacer e la struttura sociale di Roma arcaica, in Autour de la notion de sacer, a cura di T. Lanfranchi, Rome 2018, 187 s.

[154] Cicero, Philipp. III.9.

[155] Per gli auspici, vedi, con molteplici posizioni in merito alla natura, competenze, efficacia e oggetto: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV, cit., 184 ss., 225 ss.; Th. Mommsen, Le droit public romain, I, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1892, 86 ss.; C. Bailey, The religion of ancient Rome, London 1911, 96 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 526 ss.; U. Coli, Regnum’. IV. Aspetto religioso della regalità. Inaugurazione del re, cit., 83 ss. (= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., 404 ss.); P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 141 ss., 196 ss., 438 ss.; Id., v. auspicia, in Enciclopedia virgiliana, I, Roma 1984, 423 ss. (per l’uso del vocabolo in Virgilio); A. Magdelain, «Auspicia ad patres redeunt», in Hommages à J. Bayet, a cura di M. Renard e R. Schilling, Bruxelles-Berchem 1964, 427 ss., Id., L’inauguration de l’urbs et l’imperium, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 89, 1977, 11 ss. (ora entrambi in Id., Jus imperium auctoritas, cit., rispett. a 341 ss. e 209 ss.); J. Linderski, The Augural Law, cit., 2146 ss.; J. Kany-Turpin, Comment échapper au destin: signes auguraux et pouvoir politique à Rome, in Pouvoir, divination et prédestination dans le monde antique, Besançon 1999, 259 ss.; E. Tassi Scandone, ‘Auspicium’ o ‘augurium Romuli’? Sul problema del rapporto tra ‘auspicium’ ed ‘imperium’, in Iuris Vincula. Studi in onore di M. Talamanca, VIII, Napoli 2001, 151 ss.; J.A. Delgado Delgado, Quinque genera signorum. Naturaleza y adivinación en la Roma antigua, in Naturaleza y religión en el mundo clásico. Usos y abusos del medio natural, a cura di S. Montero e Ma.C. Cardete, Madrid 2010, 233 ss.; R. Fiori, Gli auspici e i confini, in Fundamina 20, 2014, 301 ss.; Id., La convocazione dei comizi centuriati: diritto costituzionale e diritto augurale, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Rom. Abt. 131, 2014, 60 ss.; Y. Berthelet, Gouverner avec les dieux. Autorité, auspices et pouvoir, sous la République romaine et sous Auguste, Paris 2015.

[156] Per la comune origine di fas e di ius vedi specialmente Valerius Maximus 2.5.2: Ius civile per multa saecula inter sacra caerimoniasque deorum immortalium abditum solisque pontificibus notum Cn. Flavius libertino patre genitus et scriba, cum ingenti nobilitatis indignatione factus aedilis curulis, vulgavit ac fastos paene toto foro exposuit. Qui cum ad visendum aegrum collegam suum veniret neque a nobilibus quorum frequentia cubiculum erat completum sedendi loco reciperetur, sellam curulem adferri iussit et in ea honoris periter atque contemptus sui vindex consedi. In argomento si rinvia a R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 46, 1939, 194 ss. (ora in Id., Scritti, con una nota di lettura di A. Mantello, II.I. Saggistica, Napoli 1998, 561 ss.); Id., I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit., 102 ss., il quale dimostra la “unità genetica” delle norme nel sistema primitivo. In tal senso, ex multis: P. Noailles, Fas et Jus. Études de droit romain, Paris 1948; Id., Du Droit sacré au Droit civil. Cours de Droit Romain Approfondi 1941-1942, Paris 1949, 24 ss.; P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 394 e nt. 7, 486 s., 501 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, cit., 133; G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 12; F. Sini, «Fas et iura sinunt» (Virg., Georg. 1, 269), cit., 8 ss.; Id., Bellum nefandum, cit., 83 ss.; F. Bona, “Ius pontificium” e “ius civile” nell’esperienza giuridica tardo-repubblicana: un problema aperto, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, a cura di F. Milazzo, Napoli 1990, 209 (ora in Id., Lectio sua. Studi editi e inediti di diritto romano, II, Padova 2003, 965). Contra, ad esempio: C. Gioffredi, Ius, Lex, Praetor. (Forme storiche e valori dommatici), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 13-14, 1947-48, 14 ss.; M. Kaser, Religione e diritto in Roma arcaica, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Catania 3, 1948-949, 77 ss. (ora in Ars boni et aequi. Festschrift für W. Waldstein zum 65. Geburtstag, a cura di M.J. Schermaier e Z. Végh, Stuttgart 1993, 151 ss.); Id., Das altrömische Ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen 1949, 22 ss.; M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges F. Wubbe offerts par ses collègues et ses amis à l’occasion de son soixante-dixième anniversaire, Fribourg Suisse 1993, 191 ss.; F. Chini, Idee vecchie e nuove intorno ai concetti di ius e fas, in Religione e Diritto Romano. La cogenza del rito, cit., 115 ss.

[157] Servius, Verg. Georg. 1.269: Fas et iura sinunt id est divina humanaque iura permittunt: nam ad religionem fas, ad homines iura pertinent.

[158] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum). Per l’analisi del frammento si rinvia a G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983, 447 ss. Per la derivazione della tripartizione dalla sistematica ciceroniana (De leg. 2.19-22; 3.3-4; 3.6-11): P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 670, seguito, ad esempio, da C. Nicolet, Notes complémentaires, in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, 149 s. nt. 15, e J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Des ordres à Rome, dir. di C. Nicolet, Paris 1984, 245 ss.; F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., 213 s., Id., Sua cuique civitati religio, cit., 175 s.; Id., Diritto e pax deorum in Roma antica, cit., § 2; G. Falcone, La ‘vera philosophia’ dei ‘sacerdotes iuris’. Sulla raffigurazione ulpianea dei giuristi (D.1.1.1.1), in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 49, 2004, 41 ss., per cui la celebre qualificazione di Ulpiano in D. 1.1.1.1 dei giureconsulti quali sacerdoti del diritto discende dallo schema sistematico di derivazione ciceroniana accolto nel § 2 del frammento.

[159] Cicero, Pro Flac. 69. In materia, J. Scheid, Numa et Jupiter ou les dieux citoyens de Rome, in Archives de Sciences sociales des Religions 59.1, 1985, 41 ss. Vedi anche, ad esempio, F. Pina Polo, Consuls as curatores pacis deorum, in Consuls and res publica. Holding High Office in the Roman Republic, a cura di H. Beck, A. Duplá, M. Jehne, F. Pina Polo, Cambridge 2011, 97; C. Santi, Iuppiter nella religione civica di Roma arcaica, cit., 1 ss.

[160] Cicero, De nat. deor. 1.117. Vedi anche De nat. deor. 2.8. Sulla centralità delle pratiche cultuali in Roma antica, specialmente J. Scheid, La parole des dieux. L’originalité du dialogue des Romains avec leurs dieux, in Opus 6-8, 1987-1989, 129; Id., Les espaces cultuels et leur interprétation, in Klio 77, 1995, 424; Id., Quand faire, c’est croire. Les rites sacrificiels des Romains, Paris 2005, 7 ss. (cfr. la recensione di C. Ando, Evidence and Orthopraxy, in Journal of Roman Studies 99, 2009, 171 ss.).

[161] Livius 2.9.1-3: Iam Tarquinii ad Lartem Porsinnam, Clusinum regem, perfugerant. Ibi miscendo consilium precesque nunc orabant, ne se, oriundos ex Etruscis, eiusdem sanguinis nominisque, 2. egentes exulare pateretur, nunc monebant etiam, ne orientem morem pellendi reges inultum sineret. Satis libertatem ipsam habere dulcedinis. 3. Nisi, quanta vi civitates eam expetant, tanta regna reges defendant, aequari summa infimis; nihil excelsum, nihil, quod supra cetera emineat, in civitatibus fore; adesse finem regnis, rei inter deos hominesque pulcherrimae.

[162] Traduce così il passo G. Baillet in Tite-Live, Histoire romaine, Tome II, Livre II, ed. J. Bayet, Paris 1962, 14.

[163] Sulle fonti e sull’ideologia delle Antichità Romane quando descrivono Romolo e le origini della città, vedi, ad esempio: M. Pohlenz, Eine politische Tendenzschrift aus Caesars Zeit, in Hermes 59, 1924, 157 ss.; E. Gabba, Studi su Dionigi da Alicarnasso. I. La costituzione di Romolo, in Athenaeum n.s. 38, 1960, 75 ss. (ora in Id., Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma 2000, 69 ss.); Id., Dionigi e la Storia di Roma Arcaica, tr. it. di E. Migliario, Bari 1996; H. Hill, Dyonysius of Halicarnassus and the Origins of Rome, in The Journal of Roman Studies 51, 1961, 88 ss.; D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi d’Alicarnasso, in Quaderni Urbinati di cultura classica 10, 1970, 3 ss.; J.P.V.D. Balsdon, Dionysius on Romulus: A Political Pamphlet?, in The Journal of Roman Studies 61, 1971, 18 ss.; J. Martínez-Pinna, Dionisio de Halicarnasso y la tradición sobre el fundador de Roma, in Pallas 39, 1993, 87 ss.; M. Sordi, La «Costituzione di Romolo» e le critiche di Dionigi di Alicarnasso alla Roma del suo tempo, ivi, 111 ss.; F. Mora, Il pensiero storico-religioso antico. Autori greci e Roma. I: Dionigi d’Alicarnasso, Roma 1995.

[164] Dionysius Halicarnassensis 2.14.1: Καταστησμενος δ τατα δικρινε τς τιμς κα τς ξουσας, ς κστους βολετο χειν. βασιλε μν ον ξρητο τδε τ γρα· πρτον μν ερν κα θυσιν γεμοναν χειν κα πντα δι´ κενου πρττεσθαι τ πρς τος θεος σια, πειτα νμων τε κα πατρων θισμν φυλακν ποιεσθαι κα παντς το κατ φσιν κατ συνθκας δικαου προνοεν τν τε δικημτων τ μγιστα μν ατν δικζειν, τ δ´ λττονα τος βουλευτας πιτρπειν προνοομενον να μηδν γγνηται περ τς δκας πλημμελς, βουλν τε συνγειν κα δμον συγκαλεν κα γνμης ρχειν κα τ δξαντα τος πλεοσιν πιτελεν. Τατα μν πδωκε βασιλε τ γρα κα τι πρς τοτοις γεμοναν χειν ατοκρτορα ν πολμ.

[165] In merito agli interventi regi in ambito religioso, non si può dar conto, per economia del discorso, delle innumerevoli fonti, talvolta contrastanti rispetto alla paternità della singola normativa. A mero titolo di esempio, si possono ricordare per Romolo la costituzione dei fratres Arvales (Plinius maior, Nat. hist. 18.6: Arvorum sacerdotes Romulus in primis instituit seque duodecimum fratrem appellavit inter illos Acca Larentia nutrice sua genitos, spicea corona, quae vitta alba colligaretur, sacerdotio ei pro religiosissimo insigni data; quae prima apud Romanos fuit corona, honosque is non nisi vita finitur et exules etiam captosque comitatur) e la costruzione dell’aedes a Giove Statore in adempimento di un voto (Ovidius, Fast. 6.793 s.: Tempus idem Stator aedis habet, quam Romulus olim / ante Palatini condidit ora iugi; Tacitus, Ann. 15.41.1: ... aedesque Statoris Iovis vota Romulo ...); dell’ampia azione di riforma di Numa Pompilio – del resto Eutropius, Brev. 1.3.2, così sintetizza: ... infinita Romae sacra ac templa constituit –, sono da richiamare l’istituzione del culto della dea Fides (Livius 1.21.4: et [soli] Fidei sollemne instituit. Ad id sacrarium flamines bigis curru arcuato vehi iussit manuque ad digitos usque involuta rem divinam facere, significantes fidem tutandam sedemque eius etiam in dexteris sacratam esse), di feste in onore di Marte (Festus, De verb. sign., p. 510 L.: Vernae, qui in villis vere nati, quod tempus duce natura feturae est, et tunc rem divinam instituerit Marti Numa Pompilius pacis concordiae obtinendae gratia inter Sabinos Romanosque, ut vernae viverent ne<u> vincerent. Romanos enim vernas appellabant, id est ibidem natos, quos vincere perniciosum arbitrium Sabinis, qui coniuncti erant cum populo Romano), e l’erezione del tempio di Vesta (Festus, De verb. sign., p. 320 L.: Rutundam aedem Vestae Numa Pompilius rex Romanorum consecrasse videtur, quod eandem esse terram, qua vita hominum sustentaretur, crediderit: eamque pilae forma[m] esse, ut sui simili templo dea coleretur); per Tullo Ostilio, vedi il votum fatto in un momento topico della guerra contro i Fidenati e i Veienti (Livius 27.1.7: Tullus in re trepida duodecim vovit Salios fanaque Pallori ac Pavori); di Anco Marcio si deve menzionare l’introduzione delle cerimonie religiose inerenti al bellum (Livius 1.32.5: Ut tamen, quoniam Numa in pace religiones instituisset, a se bellicae caerimoniae proderentur nec gererentur solum, sed etiam indicerentur bella aliquo ritu, ius ab antiqua gente Aequiculis, quod nunc fetiales habent, descripsit, quo res repetuntur); per Tarquinio Prisco è significativo quanto afferma Valerius Maximus 3.4.2, per cui questo re ... cultum deorum novis sacerdotiis auxit ...; quanto a Servio Tullio si segnalano, in particolare, la dedica di alcuni templi (ad es.: Livius 5.19.6: ... se facturum aedemque Matutae matris refectam dedicaturum iam ante ab rege Ser. Tullio dedicatam; 10.46.14: Aeris gravis tulit in aerarium trecenta octoginta milia; reliquo aere aedem Fortis Fortunae de manubiis faciendam locavit prope aedem eius deae ab rege Servio Tullio dedicatam; Festus, De verb. sign., p. 460 L.: Servorum dies festus vulgo existimatur Idus Aug., quod eo die Ser. Tullius, natus servus, aedem Dianae dedicaverit in Aventino, cuius tutelae sint cervi; a quo celeritate fugitivos vocent cervos) e l’introduzione di nuove cerimonie (Plinius maior, Nat. hist. 36.204: Ob id Compitalia ludos Laribus primum instituisse).

[166] Si ha notizia che questo re istituì le ferie Latine (De vir. illustr. 8.2: ... et ferias Latinas primus instituit) e i ludi Taurei (Festus, De verb. sign., p. 478 L.: Tau<ri ludi in>stituti dis inferis ex li--- <Superbo> Tarquinio regnante, cum m<agna incidisset> pestilentia in mulieres g<ravidas> --- fetu, si facti sunt ex carn<e divendita populo> taurorum immolatorum …; Servius Dan., Verg. Aen. 2.140: … ludi Taurei dicti, qui ex libris fatalibus a rege Tarquinio Superbo instituti sunt propterea, quod omnis partus mulierum male cedebat), spesso identificati con i ludi Tarentini e posti in relazione con i ludi saeculares, la cui organizzazione è attribuita da Festo sempre all’ultimo Tarquinio, p. 440 L.: <Saeculares ludi> Tarquini Superbi regis i--- Marti consecravit --- cos., quod populus Romanus in l--- aram quoque Diti ac <Proserpinae --- in> extremo Mart<io campo quod Tarentum ap>pellatur, demissam <infra terram pedes circiter> viginti, in qua --- <populus> Romanus facere sacr<a --- nono> ... (in tal senso, ad esempio, F. Coarelli, Note sui ludi Saeculares, in Spectacles sportifs et scéniques dans le monde étrusco-italique. Actes de la table ronde de Rome (3-4 mai 1991), Rome 1993, 227 ss., il quale parla in merito di connessione “di tipo genetico”).

[167] Secondo Macrobio, Tarquinio il Superbo, in ottemperanza a un responso di Apollo, durante i giochi dei Compitalia avrebbe ristabilito alcuni sacrifici umani in onore di Lari e di Mania, (Sat. 1.7.34-35: Hic Albinus Caecina subiecit: ‘qualem nunc permutationem sacrificii, Praetextate, memorasti, invenio postea Compitalibus celebratam, cum ludi per urbem in compitis agitabantur, restituti scilicet a Tarquinio Superbo Laribus ac Maniae ex responso Apollinis, quo praeceptum est ut pro capitibus capitibus supplicaretur. 35. Idque aliquamdiu observatum, ut pro familiarium sospitate pueri mactarentur Maniae deae, matri Larum. Quod sacrificii genus Iunius Brutus consul pulso Tarquinio aliter constituit celebrandum. Nam capitibus alii et papaveris supplicari iussit ut responso Apollinis satis fieret de nomine capitum remoto scilicet scelere infaustae sacrificationis ...). Questa tradizione attribuisce all’ultimo re di Roma inadeguata perizia in materia di ius sacrum, a cui si contrapponeva l’azione di emendamento di Bruto. Per “Le gesta di Bruto e la religione romana”, si rinvia ad A. Mastrocinque, La cacciata di Tarquinio il Superbo. Tradizione romana e letteratura greca, in Athenaeum 62, 1984, 214 ss., secondo il quale dal racconto in esame «si deduce che il regno di Tarquinio comportò un periodo di grave turbamento sociale, tale che al culto di Mania si tributarono vite umane, e si deduce che Bruto fu l’eroe che sagacemente pose fine alla prassi scellerata, e insieme permise che, senza spargimento di sangue, le famiglie non corressero pericoli» (215).

[168] Come noto, Tarquinio il Superbo avrebbe acquistato questi libri in seguito al suo leggendario incontro con la Sibilla e avrebbe disposto che fossero custoditi dai duumviri sacris faciundis (ad esempio: Dionysius Halicarnassensis 4.62.2-4: Γυν τις φκετο πρς τν τραννον οκ πιχωρα ββλους ννα μεστς Σιβυλλεων χρησμν πεμπολσαι θλουσα. Οκ ξιοντος δ το Ταρκυνου τς ατηθεσης τιμς πρασθαι τς ββλους πελθοσα τρες ξ ατν κατκαυσε· κα μετ´ ο πολν χρνον τς λοιπς ξ νγκασα τς ατς πλει τιμς. Δξασα δ´ φρων τις εναι κα γελασθεσα π τ τν ατν τιμν ατεν περ τν λαττνων, ν οδ περ τν πλεινων δυνθη λαβεν, πελθοσα πλιν τς μισεας τν πολειπομνων κατκαυσε κα τς λοιπς 3. τρες νγκασα τ σον τει χρυσον. Θαυμσας δ τ βολημα τς γυναικς Ταρκνιος τος οωνοσκπους μετεπμψατο κα διηγησμενος ατος τ πργμα, τ χρ πρττειν, ρετο. Κκενοι δι σημεων τινν μαθντες, τι θεπεμπτον γαθν πεστρφη, κα μεγλην συμφορν ποφανοντες τ μ πσας ατν τς ββλους πρασθαι, κλευσαν παριθμσαι τ γυναικ τ χρυσον, σον τει κα τος περιντας τν χρησμν λαβεν. 4. μν ον γυν τς ββλους δοσα κα φρσασα τηρεν πιμελς ξ νθρπων φανσθη, Ταρκνιος δ τν στν νδρας πιφανες δο προχειρισμενος κα δημοσους ατος θερποντας δο παραζεξας κενοις πδωκε τν τν βιβλων φυλακν …; Plinius maior, Nat. hist. 13.88: Inter omnes vero convenit Sibyllam ad Tarquinium Superbum tres libros adtulisse, ex quibus sint duo cremati ab ipsa ...; Gellius, Noct. Att. 1.19: In antiquis annalibus memoria super libris Sibyllinis haec prodita est: 2. Anus hospita atque incognita ad Tarquinium Superbum regem adiit novem libros ferens, quos esse dicebat divina oracula; eos velle venundare. 3. Tarquinius pretium percontatus est. Mulier nimium atque inmensum poposcit; 4. rex, quasi anus aetate desiperet, derisit. 5. Tum illa foculum coram cum igni apponit, tris libros ex novem deurit et, ecquid reliquos sex eodem pretio emere vellet, regem interrogavit. 6. Sed enim Tarquinius id multo risit magis dixitque anum iam procul dubio delirare. 7. Mulier ibidem statim tris alios libros exussit atque id ipsum denuo placide rogat, ut tris reliquos eodem illo pretio emat. 8. Tarquinius ore iam serio atque attentiore animo fit, eam constantiam confidentiamque non insuper habendam intellegit, libros tris reliquos mercatur nihilo minore pretio, quam quod erat petitum pro omnibus. 9. Sed eam mulierem tunc a Tarquinio digressam postea nusquam loci visam constitit. 10. Libri tres in sacrarium conditi ‘Sibyllini’ appellati; 11. ad eos quasi ad oraculum quindecimviri adeunt, cum di immortales publice consulendi sunt). Vedi, invece, tra coloro che attribuiscono l’episodio a Tarquinio Prisco, Lactantius, Div. inst. 1.6.8: Ceterum Sibyllas decem numero fuisse, easque omnes enumeravit sub auctoribus qui de singulis scriptitaverint ... septimam Cumanam nomine Amaltheam, quae ab aliis Herophile vel Demophile nominetur, eamque novem libros attulisse ad regem Tarquinium Priscum ac pro iis trecentos philippeos postulasse regemque aspernatum pretii magnitudinem derisisse mulieris insaniam; illam in conspectu regis tris combussisse ac pro reliquis idem pretium poposcisse; Tarquinium multo magis insanire mulierem putavisse; quae denuo tribus aliis exustis cum in eodem pretio perseveraret, motum esse regem ac residuos trecentis aureis emisse; quorum postea numerus sit auctus, Capitolio refecto …

[169] Sui libri sibillini e sui loro sacerdoti, vedi ex multis: A. Bouché-Leclercq, Histoire de la divination dans l’antiquité, IV, cit., 286 ss.; E. Hoffmann, Die tarquinischen Sibyllen-Bücher, in Rheinisches Museum für Philologie 50, 1895, 90 ss.; A.A. Boyce, The Development of the Decemviri Sacris Faciundis, in Transactions of the American Philological Association 69, 1938, 161 ss.; R. Bloch, La divination romaine et les livres sibyllins, in Revue des Études Latines 40, 1962, 118 ss.; C. Santi, I Libri Sibyllini e i decemviri sacris faciundis, Roma 1985; Ead., I viri sacris faciundis tra concordia ordinum e pax deorum, in Gli operatori cultuali. Atti del II Incontro di studio organizzato dal “Gruppo di contatto per lo studio delle religioni mediterranee”. Roma, 10-11 maggio 2005, a cura di M. Rocchi, P. Xella, J.-Á. Zamora (= Studi epigrafici e linguistici sul Vicino Oriente 23), Verona 2006, 171 ss.; Ead., Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, Roma 2008; H.W. Parke, Sibyls and Sibylline Prophecy in Classical Antiquity, a cura di B.C. McGing, London-New York 1988, 190 ss.; E.M. Orlin, Temples, Religion, and Politics in the Roman Republic, Leiden 1997 [rist., Boston–Leiden 2002], 76 ss.; L. Breglia Pulci Doria, Libri Sybillini e dominio di Roma, in Sibille e linguaggi oracolari. Mito Storia Tradizione. Atti del convegno internazionale di studi, Macerata-Norcia 20-24 Settembre 1994, a cura di I. Chirassi Colombo, Macerata 1998, 277 ss.; J. Scheid, Les Livres Sibyllins et les archives des quindécemvirs, G. Liberman, Les documents sacerdotaux du collège sacris faciundis, in La mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, a cura di C. Moatti, Rome 1998, rispett. a 11 ss. e 65 ss.; T. Mazurek, The decemviri sacris faciundis: Supplication and Prediction, in Augusto augurio. Rerum humanarum et divinarum commentationes in honorem J. Linderski, a cura di C.F. Konrad, Stuttgart 2004, 151 ss.; M. Monaca, La Sibilla a Roma. I Libri Sibillini fra religione e politica, Cosenza 2005; A. Gillmeister, The Role of the Viri Sacris Faciundis College in Roman Public Religion, in Society and Religions. Studies in Greek and Roman History 2, Toruń 2007, 57 ss.; Id., Sibyl in Republican Rome – literary construction or ritual reality?, in Society and Religions. Studies in Greek and Roman History, 3, Toruń 2010, 9 ss.; Id., The Sibylline Books – Social Drama in Action and Civic Religion in Ancient Rome, in Mantic Perspectives: Oracles, Prophecy and Performance, a cura di K. Bielawski, Gardzienice-Lublin-Warszawa 2015, 177 ss.; J. Keskiaho, Re-visiting the Libri Sibyllini: Some Remarks on Their Nature in Roman Legend and Experience, in Studies in Ancient Oracles and Divination, a cura di M. Kajava, Roma 2013, 145 ss.

[170] Livius 1.53.2-3: Is primus Volscis bellum in ducentos amplius post suam aetatem annos movit Suessamque Pometiam ex his vi cepit. 3. Ubi cum divendita praeda quadraginta talenta argenti refecisset, concepit animo eam amplitudinem Iovis templi, quae digna deum hominumque rege, quae Romano imperio, quae ipsius etiam loci maiestate esset. Captivam pecuniam in aedificationem eius templi seposuit. Vedi ancora: Dionysius Halicarnassensis 4.59.1: κενος γρ ν τ τελευταίῳ πολμ μαχμενος πρς Σαβνους εξατο τ Δι κα τ ρ κα τ θην, ἐὰν κρατσ τ μχ, ναος ατος κατασκευσειν· κα τν μν σκπελον, νθα δρσεσθαι τος θεος μελλεν, ναλμμασ τε κα χμασι μεγλοις ξειργσατο, καθπερ φην ν τ πρ τοτου λγ, τν δ τν ναν κατασκευν οκ φθη τελσαι. Τοτο δ τ ργον Ταρκνιος π τς δεκτης τν κ Συσσης λαφρων πιτελσαι προαιρομενος παντας τος τεχντας πστησε τας ργασαις; Eutropius, Brev. 1.8.1: L. Tarquinius Superbus, septimus atque ultimus regum, ... templum Iovis in Capitolio aedificavit; Augustinus Hipponensis, De civ. Dei 3.15.2: Sed insuper interfecto a se socero Tarquinius ipse successit. Hunc illi dii nefarium parricidam soceri interfectione regnantem, insuper multis bellis victoriisque gloriantem, et de manubiis Capitolium fabricantem, non abscedentes, sed praesentes manentesque viderunt, et regem suum Jovem in illo altissimo templo, hoc est in opere parricidae, sibi praesidere atque regnare perpessi sunt.

Esistono in argomento ulteriori tradizioni: secondo una versione, Tarquinio il Superbo intraprese la costruzione del tempio promessa in voto dal padre (Cicero, De re publ. 2.36: ... aedemque in Capitolio Iovi optimo maximo bello Sabino in ipsa pugna vovisse faciendam ...; 2.44: Nam et omne Latium bello devicit, et Suessam Pometiam urbem opulentam refertamque cepit, et maxima auri argentique praeda locupletatus votum patris Capitolii aedificatione persolvit ...; Dionysius Halicarnassensis 3.69.1-2: νεχερησε δ κα τν νεν κατασκευζειν το τε Δις κα τς ρας κα τς θηνς βασιλες οτος εχν ποδιδος, ν ποισατο τος θεος ν τ τελευταίᾳ πρς Σαβνους μχ. Τν μν ον λφον, φ´ ο τ ερν μελλεν δρεσθαι, πολλς δεμενον πραγματεας (οτε γρ επρσοδος ν οτε μαλς, λλ´ πτομος κα ες κορυφν συναγμενος ξεαν) ναλμμασιν ψηλος πολλαχθεν περιλαβν κα πολν χον ες τ μεταξ τν τε ναλημμτων κα τς κορυφς μφορσας, μαλν γενσθαι παρεσκεασε κα πρς ερν ποδοχν πιτηδειτατον. 2. Τος δ θεμελους οκ φθασε θεναι το νε χρνον πιβισας μετ τν κατλυσιν το πολμου τετραετ. Πολλος δ´ στερον τεσιν τρτος βασιλεσας π´ κενου Ταρκνιος, τς ρχς κπεσν, τος τε θεμελους κατεβλετο κα τς οκοδομς τ πολλ εργσατο. Ο μν τελεωσε τ ργον οδ´ οτος, λλ´ π τν νιαυσων ρχντων τν κατ τν τρτον νιαυτν πατευσντων τν συντλειαν λαβεν νες); altre fonti affermano invece che, in ottemperanza del voto fatto durante la guerra con i Sabini, fu Tarquinio Prisco a far gettare le fondamenta sul Campidoglio (ad es., Livius 1.38.6-7... aream ad aedem in Capitolio Iovis, 7. quam voverat bello Sabino, iam praesagiente animo futuram olim amplitudinem loci occupat fundamentis); (così anche Valerio Anziate, vedi Plinius maior, Nat. hist. 3.70: Praeterea auctor est Antias oppidum Latinorum Apiolas captum a L. Tarquinio rege, ex cuius praeda Capitolium is inchoaverit); Tacito sostiene che sciogliendo il voto fu Tarquinio Prisco a gettare le fondamenta, mentre l’edificio fu innalzato da Servio Tullio e Tarquinio il Superbo (Hist. 3.72.2: Voverat Tarquinius Priscus rex bello Sabino ieceratque fundamenta spe magis futurae magnitudinis, quam quo modicae adhuc populi Romani res sufficerent. Mox Servius Tullius sociorum studio, dein Tarquinius Superbus capta Suessa Pometia hostium spoliis exstruxere).

[171] Intorno a tale relazione, parla di coniux, ad esempio, Ovidius, Fast. 3.275 s.: Egeria est quae praebet aquas, dea grata Camenis: / illa Numae coniunx consiliumque fuit; Met. 15.482: coniuge qui felix nympha ducibusque Camenis. Nelle fonti è presente, tuttavia, la tradizione per cui Numa, al fine di far accettare al popolo le sue riforme, simulò che queste fossero dirette disposizioni di Egeria, ad esempio: Livius 1.19.5: Qui cum descendere ad animos sine aliquo commento miraculi non posset, simulat sibi cum dea Egeria congressus nocturnos esse; eius se monitu, quae acceptissima diis essent, sacra instituere, sacerdotes suos cuique deorum praeficere; 1.21.3: Lucus erat, quem medium ex opaco specu fons perenni rigabat aqua. Quo quia se persaepe Numa sine arbitris velut ad congressum deae inferebat, Camenis eum lucum sacravit, quod earum ibi concilia cum coniuge sua Egeria essent; De vir. illustr. 3.2: Leges quoque plures et utiles tulit, omnia, quae gerebat, iussu Egeriae nymphae, uxoris suae, se facere simulans.

[172] In merito, ad esempio: Ovidius, Fast. 6.575-578: arsit enim magno correpta cupidine regis, / caecaque in hoc uno non fuit illa viro), / nocte domum parva solita est intrare fenestra, / unde Fenestellae nomina porta tenet; Plutarchus, Fort. Rom. 10: Σρβιος δ Τλλιος, … ατς αυτν ες τν Τχην νπτε κα νεδετο τν γεμοναν ξ κενης· στε κα συνεναι δοκεν ατ τν Τχην δι τινος θυρδος καταβανουσαν ες τ δωμτιον, νν Φενστελλαν πλην καλοσιν; Quaest. Rom. 36: Δι τ πλην μαν θυρδα καλοσι (τν γρ «φαινστραν»